| B.1. 
	  L’autoemarginazione richiesta dalle Associazioni di persone con disabilità 
 Significativo esempio, che ha avuto nefaste conseguenze per migliaia di 
	  persone soprattutto quelle con disabilità grave, è il pronunciamento nel 
	  1970 della Commissione costituita dai Presidenti delle più importanti 
	  organizzazioni allora esistenti nel settore della disabilità (Opera 
	  nazionale mutilati e invalidi di guerra, Associazione nazionale vittime 
	  civili di guerra, Associazione mutilati e invalidi del lavoro, Unione 
	  nazionale mutilati per servizio, Libera associazione mutilati e invalidi 
	  civili) che, dopo aver puntualizzato che «la generalità dei cittadini 
	  invalidi costituisce nel suo complesso un insieme nettamente distinto del 
	  popolo italiano», richiede «come indispensabile e indilazionabile, una 
	  radicale e completa riforma di struttura del settore degli invalidi che, 
	  prescindendo dalla causa invalidante, sia attuata differenziando 
	  chiaramente i cittadini portatori di invalidità permanente dai cittadini 
	  sani o incidentalmente malati», nonché «la delega dello Stato ad un unico 
	  ente di diritto pubblico, di ogni azione di pubblico intervento e quindi 
	  dell’istruzione e dell’addestramento professionale degli invalidi e del 
	  loro collocamento al lavoro, dell'assistenza sanitaria limitatamente agli 
	  esiti dell'invalidità permanente di quella sociale, morale e giuridica e 
	  della cura e di ogni altra provvidenza che possa essere a loro rivolta», 
	  stabilendo altresì che l'amministrazione di questo ente di diritto 
	  pubblico deve essere «espressione diretta ed esclusiva delle associazioni 
	  di categoria».
 Sostenuta dagli emarginatori era 
	  stata l’iniziativa dell’Anthai, Associazione nazionale per la tutela degli 
	  handicappati, che (cfr. il n. 100/1992 di “Prospettive assistenziali”) 
	  intendeva costruire «un complesso polifunzionale, composto da case 
	  protette, residenze speciali, day hospital, nonché da strutture 
	  residenziali, commerciali e sportive». Nel complesso dovrebbero essere 
	  ricoverate «dalle cento alle duemila persone». Secondo l'Anthai «l'area 
	  destinata ad un primo esperimento del genere dovrà consistere in almeno 15 
	  ettari e, con ogni probabilità, la scelta cadrà nel Lazio, sebbene si 
	  preveda di costruire un centro per ogni regione. La spesa iniziale si 
	  aggira intorno ai 100 miliardi per circa 800 posti». Anche se ogni tanto 
	  qualcuno è folgorato dall'idea di eliminare gli handicappati dal vivo del 
	  contesto sociale relegandoli in incivili ghetti, magari di lusso, è 
	  estremamente preoccupante che l'iniziativa dell'Anthai abbia ottenuto il 
	  sostegno dell'Assessorato enti locali e servizi sociali della Regione 
	  Lazio, che ha svolto uno studio specifico al riguardo.
 
 B.2. Assai negative norme del Codice canonico
 
 Il Codice canonico, promulgato da Papa Benedetto XV nel 1917, rimasto in 
	  vigore, salvo alcune modifiche, fino al 1983, non solo oltraggia le 
	  persone nate fuori dal matrimonio (cfr. A.5), ma anche le persone colpite 
	  da disabilità. Infatti il Codice canonico stabilisce che sono irregolari 
	  per difetto:
 a) coloro che sono colpiti da 
	  menomazioni fisiche e che, a causa della loro deformità, non sono in grado 
	  di adempiere al ministero dell’altare in modo valido;
 b) coloro che sono o sono stati epilettici, pazzi o posseduti dal demone. 
	  Però, se dopo aver ricevuto l’ordinazione risulta sicuramente che ne sono 
	  immuni, l’ordinario può nuovamente permettere loro l’esercizio della 
	  normale attività.
 
 B.3. 
	  Arcivescovo di Perugia: i neonati “mongoloidi” possono essere lasciati 
	  morire
 
 Sulla pubblicazione ufficiale del Vaticano 
	  l’Osservatore della domenica del 26 gennaio 1969, Monsignor Ferdinando 
	  Lambruschini, all’epoca noto teologo-moralista e Arcivescovo di Perugia 
	  «circa il dovere o meno di salvare la vita di prole nata precocemente, 
	  mediante ricorso all’incubatrice» aveva sostenuto – incredibile ma vero – 
	  che «l’obbligatorietà di tale ricorso va affermata quando si prevede che 
	  detta prole potrà avere una vita normale» e che «se si tratta invece di 
	  prole anomala, ad esempio mongoloide, non si può interdire, ma neppure 
	  imporre, in nome della coscienza cristiana, il ricorso all'incubatrice, 
	  che prolungherebbe una vita di stenti e di sacrifici».
 Monsignor Lambruschini aveva utilizzato non solo 
	  le parole fortemente dispregiative sopra riportate «prole anomala, ad 
	  esempio mongoloide», ma anche i seguenti termini infamanti «prole 
	  anormale», «prole
	   tarata», «prole deforme». C’era anche un riferimento ai «così 
	  detti mostri umani» (1).
 
 B.4. Ragazzi ammassati come bestie
 
 Durante la 
	  trasmissione televisiva di TV7 del 4 luglio 1969 “I figli di tutti” di 
	  Manuela Chadringer, Mario Tommasini, Assessore all’assistenza, igiene e 
	  sanità di Parma, ha dichiarato quanto segue: «Noi a Sospiro abbiamo 
	  ritirato dei ragazzi della Provincia di Parma perché, in una visita che 
	  abbiamo fatto, sono stati trovati in un modo che... è indescrivibile. 
	  Questi ragazzi erano in uno stanzone, in uno stanzone nudo: ragazzi nudi, 
	  in mezzo a un... in mezzo a dello sterco, a dell'urina, coperti solamente 
	  da uno straccio. Questi ragazzi erano... avevano i piedi gonfi dal 
	  permanere su questo pavimento continuamente lurido e mangiavano lì, in 
	  quel posto, come... come... degli animali. Noi siamo arrivati a vedere 
	  queste cose dopo una... uno scontro violento, anche, con i dirigenti di 
	  questo istituto, perché non volevano... non volevano lasciarci entrare in 
	  questi reparti. Siamo entrati in questo reparto, chiamato dal medico il 
	  reparto dei sudici. Erano irrecuperabili. Diceva che stare vestiti non 
	  potevano perché si laceravano, tener le scarpe se le sarebbero tolte, e 
	  non avevano nessuna capacità né di intendere né di volere. Beh, a un anno 
	  e mezzo di distanza, questi sono i ragazzi che erano a Sospiro: 
	  Francesco...poi chi c'era? Giorgio, Massimiliano. Addirittura, 
	  Massimiliano dicevano che era sordomuto, invece è un bambino che poi, in 
	  un ambiente diverso, ha incominciato a parlare; ed altri ragazzi che in 
	  questo momento sono a lavorare. A Ficarolo di Rovigo, dove abbiamo 
	  ritirato dei nostri ragazzi, se lei vedesse l'organico di questo 
	  istituto, sembra l'organico del più grande istituto... del più perfetto 
	  istituto che mai si sia visto; se poi vede nella realtà, non c'è niente. A 
	  Ficarolo, i ragazzi sono ammassati come tante bestie».
 
 B.5. Bambina di sei anni definita “pericolosa a sé 
	  e agli altri”
 
 Con ordinanza del 23 ottobre 1970, il 
	  Sindaco di C. (Milano) firma il provvedimento «per ricovero di alienati» 
	  della bambina L.P.M.F. nata nel 1964, definita a 6 anni «pericolosa a sé e 
	  agli altri» e indirizzata all’Ospedale psichiatrico di Limbiate.
 
 B.6. Utilizzo di denominazioni emarginanti
 
 Un inaccettabile contributo alla quasi unanime connotazione negativa delle 
	  persone con disabilità è l’utilizzo di definizioni emarginanti. Ad 
	  esempio, l’acronimo dell’Anffas è “Associazione nazionale famiglie di 
	  fanciulli subnormali”, mentre la testata della rivista della Società 
	  italiana di neuropsichiatria infantile è “Infanzia anormale”. A sua volta 
	  l’Istat utilizza i termini “anormali e minorati” per indicare i dati 
	  relativi al numero degli istituti di assistenza e dei ricoverati, come 
	  risulta dall’Annuario statistico dell’assistenza e della previdenza 
	  sociale (cfr. il precedente punto A.3.). Molto usata è la definizione 
	  “minorati psichici” che crea una devastante confusione con i malati 
	  psichici e cioè con le persone con infermità psichiatriche e favorisce il 
	  ricovero di disabili intellettivi in strutture manicomiali, ad esempio la 
	  famigerata “Villa Azzurra” di Grugliasco, Torino. Inoltre, proprio perché 
	  assimilate ai malati psichiatrici, fino alla sentenza della Corte 
	  costituzionale n. 50 del 1990, le persone con disabilità intellettiva sono 
	  escluse dal collocamento obbligatorio al lavoro di cui alla legge 
	  482/1968.
 
 B.7. Cottolengo: 
	  libera imposizione
 
 Negli anni ’60, per essere 
	  ammessi alle strutture di ricovero del Cottolengo di Torino, le persone 
	  con handicap fisico e integre capacità intellettive sono costrette a 
	  sottoscrivere la seguente dichiarazione: «Io sottoscritto faccio 
	  rispettosa domanda alla Direzione della Piccola Casa della Divina 
	  Provvidenza di essere accolto nella Famiglia invalidi, promettendo da 
	  parte mia di accettare liberamente l’ordinamento che mi verrà imposto» 
	  (2).
 
 B.8. Una bruciante 
	  lettera di un ricoverato presso il Cottolengo di Torino
 
 Riportiamo 
	  integralmente la lettera di Roberto Tarditi, pubblicata su n. 1, gennaio 
	  1987, di "ControCittà”
 «Dilaga, in quest’ultimo periodo, la 
	  tendenza a rivalutare il ruolo e le funzioni degli istituti privati e 
	  pubblici di assistenza. Io cittadino portatore di handicap "cosiddetto 
	  grave", ospite per 35 anni del Cottolengo, vorrei fare alcune 
	  considerazioni. Le prime, di ordine storico, scaturiscono dalla lettura di 
	  alcuni passi di una lettera di Giuseppe Benedetto Cottolengo inviata da 
	  Carlo Alberto nel 1833 per far riconoscere legalmente il suo Istituto: "Da qualche tempo in qua coadunati alcuni letti di ricovero di taluni di 
	  que’ molti miserabili, che altrimenti perirebbero abbandonati, come di 
	  condizioni morbose non ammissibili in alcun venerando ospedale» e poi 
	  «vari generi di persone povere altrimenti potrebbero essere colla loro 
	  infelicità il disturbo della pubblica pace e il peccato in seno ai 
	  sudditi".
 Emerge evidente l’intenzione di ghettizzare i più deboli in 
	  modo da eliminare la loro presenza dal tessuto sociale e non turbare così 
	  la vita dei «cosiddetti normali».
 Nei 150 anni successivi non è stato 
	  modificato il modo di affrontare il problema, contribuendo così a 
	  mantenere e a sviluppare nell’opinione pubblica la tendenza a voler 
	  isolare e nascondere i « diversi».
 Ovviamente la responsabilità 
	  principale ricadono sui vari governi via via succedutesi i quali non hanno 
	  affrontato la questione in termini di inserimento di ogni cittadino nella 
	  vita sociale.
 Di fatto fino a non molti anni fa lo 
	  Stato si è limitato 
	  a lasciare a istituti privati, prevalentemente religiosi, la gestione del 
	  problema. Infatti, nel 1968 il Ministero degli interni cinicamente 
	  affermava che "L’assistenza ai bisognosi racchiude in sé un rilevante 
	  interesse generale, in quanto i servizi e le attività assistenziali 
	  concorrono a difendere il tessuto sociale da elementi passivi e 
	  parassitari".
 Quando parlo di mondo cattolico e di società non voglio 
	  generalizzare in quanto, in questi ultimi anni, settori sia cattolici sia 
	  laici hanno lottato e operato per l’inserimento attivo dei soggetti 
	  portatori di handicap nel tessuto sociale e hanno contribuito a combattere 
	  quella parte di società che affronta il problema in puri termini di 
	  assistenzialismo.
 A questo punto entro nel merito della mia esperienza. 
	  Ho 41 anni; appena nato, a causa del mio handicap e di una cultura 
	  emarginante che ha spinto mia madre, ragazza madre, a sbarazzarsi di me, 
	  sono stato rinchiuso al Cottolengo, per ben 35 anni. Per moltissimo tempo 
	  ho vissuto una vita vegetale fino al momento in cui ho preso piena 
	  coscienza della mia condizione fisica e ho maturato, in conseguenza, una 
	  visione politica della mia situazione.
 Penso che una persona sia tale 
	  se nella sua vita, può affrontare e risolvere tutta una serie di 
	  problematiche (affetti, amicizie, lavoro, studio) e di piccole scelte 
	  (decidere se andare in vacanza al mare od in montagna, se andare al cinema 
	  o fare politica). In istituto tutto ciò non era possibile.
 L’ideologia 
	  che ci veniva inculcata era quello secondo la quale noi dovevamo espiare i 
	  peccati altrui e quindi il nostro unico compito era quello di pregare per 
	  meritare il paradiso. Quando uno di noi prendeva coscienza politica della 
	  propria condizione e cercava soluzioni diverse veniva confinato in un 
	  reparto di anziani malati cronici in modo da non poter "turbare" la 
	  vegetatività dei compagni giovani.
 Nella grande maggioranza dei casi il 
	  nostro handicap è stato determinato da mancanza di prevenzione o da 
	  responsabilità ben precise (ad esempio l’uso dei talidomide) e non certo 
	  per causa divina. Il farci credere che noi rappresentiamo un disegno di 
	  Dio significa uccidere la nostra capacità di ragionare sulla condizione in 
	  cui viviamo. Conseguenza di lunghi anni "prigione", di isolamento e di 
	  condizionamenti psicologici è che molti di noi temono il mondo reale e 
	  quindi hanno paura a cercare di inserirsi nel tessuto sociale. Secondo una 
	  cultura dominante, io rappresento un soggetto che non può avere relazioni 
	  sociali come tutti ma deve vivere assistito. Al contrario, ormai da sei 
	  anni, vivo in un alloggio affrontando autonomamente i problemi di tutte le 
	  persone. Ho anche costruito rapporti sociali e affettivi come qualsiasi 
	  persona "cosiddetta normale" pur tenendo conto della mia diversità 
	  fisica. La mia crescita sarebbe risultata impossibile se avessi 
	  continuato a vivere in un istituto protetto.
 Ora, oltre a sentirmi vivo 
	  e attivo, credo di contribuire alla crescita della società portando la mia 
	  esperienza e lottando per l’inserimento delle persone handicappate, e più 
	  in generale, contro la ghettizzazione di tutte le categoria emarginate e 
	  indifese».
 
 B.9. Esclusione dei 
	  bambini con handicap dalle normali strutture prescolastiche e scolastiche
 
 In quegli anni i bambini con handicap sono quasi sempre esclusi dalla 
	  frequenza delle normali strutture prescolastiche e scolastiche, nonché 
	  dalle relative attività culturali, ricreative e sportive. Inoltre sono 
	  inesistenti le iniziative volte alla loro preparazione al lavoro. Non solo 
	  non vi sono esperienze di inserimento lavorativo di detti soggetti, ma 
	  ogni proposta in merito è addirittura improponibile anche culturalmente. Le classi 
	  differenziali e le scuole speciali sono istituite in alcune zone del 
	  nostro Paese; negli anni ’60-’70 per i bambini e ragazzi con vera o 
	  presunta insufficienza mentale il ricovero in istituti a carattere di 
	  internato o in reparti manicomiali è ritenuto molto spesso un intervento 
	  adeguato alle loro esigenze. Al termine del ciclo scolastico, quasi 
	  ovunque non vi sono servizi di sorta: il ricovero in istituto è quindi 
	  largamente praticato.
 In data 17 aprile 1970 il 
	  Provveditorato agli studi di Torino chiede alle Direzioni didattiche del 
	  territorio di fornire i dati relativi agli alunni insufficienti mentali 
	  (gravi Q.I. da 0 a 50; medio-lievi Q.I. da 50 a 75; casi limite Q.I. da 75 
	  a 85), nonché quelli indicati come “disadattati sensoriali gravi” 
	  (sordastri, logopatici, ambliopici o subvedenti) e coloro che sono 
	  classificati come “disadattati fisici gravi”. Inoltre, chiede di precisare 
	  la loro provenienza (dal domicilio delle famiglie o dall’istituto) e di 
	  precisare quali erano i mezzi di trasporto utilizzati dai ragazzi.
 Sconcertanti le risposte: a) Direttrice didattica del Circolo di Venaria: 
	  «Nel circolo di Venaria quest’anno sono stati fatti gli esami psicologici 
	  individuali a carico dell’equipe provinciale soltanto a 12 bambini di 
	  classe prima. Dei 91 alunni delle classi speciali ben 41 non sono stati 
	  sottoposti a reattivi mentali; quanto agli altri non sono più sottoposti a 
	  test dal 1965 o dal 1966, nella migliore delle ipotesi dal 1967. Degli 
	  alunni delle classi normali (che assommano a 1.800) e classi differenziali 
	  (gli allievi delle differenziali sono 85) soltanto una quindicina sono 
	  stati sottoposti quest’anno a tests di intelligenza e non ancora a quelli 
	  proiettivi, per cui non si è ancora giunti a classificarli in modo 
	  adeguato. Circa la possibilità di suddividere i disadattati sensoriali in 
	  sordastri, logopatici ed ambliopici, le equipe della Provincia hanno 
	  esaminato soltanto le capacità uditive dei bambini della classe terza, ma 
	  tali esami non sono a tutt’oggi [15 maggio 1970, e cioè al termine 
	  dell’anno scolastico, ndr.] ultimati: infatti alcuni alunni sono stati 
	  convocati per ulteriori accertamenti. Non si è in grado inoltre di 
	  ricostruire i risultati delle visite audiometriche degli anni 
	  precedenti»;b) Direttore della scuola Pacchiotti di Torino: «Non è mai 
	  stata eseguita alcuna seria indagine su tutti gli alunni (…). I dati 
	  riferentesi agli insufficienti mentali sono incompleti, mancano i referti 
	  di 59 visite psicomedicali»; c) Direttore del Circolo didattico di None: 
	  «Gli insegnanti non sono stati in grado di rispondere alle richieste (…); 
	  molto onestamente mi hanno dichiarato che si sentono sprovvisti degli 
	  strumenti diagnostici per ordinare gli alunni insufficienti mentali 
	  secondo la tipologia proposta dal questionario». Aggiunge quanto segue: 
	  «La prego, Signor Ispettore, di farsi partecipe presso i Superiori Uffici 
	  del disagio nel quale gli Insegnanti e Direttore sono venuti a trovarsi 
	  nell’impossibilità di affrontare, con un minimo di serietà un problema 
	  tanto grave».
 
 B.10. Violenze 
	  e abusi
 
 Fra le innumerevoli segnalazioni di 
	  gravissime violenze inferte ai minori con handicap ricoverati in istituti 
	  a carattere di internato è sconvolgente la vicenda dell’istituto Santa 
	  Rita di Grottaferrata (Roma), che inizia nel 1951 con l’apertura di una 
	  struttura per bambini gravemente disabili e si conclude con l’arresto 
	  della direttrice Maria Diletta Pagliuca avvenuto il 7 giugno 1969. Come 
	  risulta dalla sentenza della Corte d’Assise di Roma del 23 dicembre 1971, 
	  nell’ispezione del 6 giugno 1969 gli inquirenti «trovano 13 ragazzi che 
	  dormivano in coppie su sette lettini, tranne l’A. che dormiva da solo, 
	  ciascuno con la testa verso la spalliera e legati a loro per le gambe. 
	  Anche le braccia erano avvinte, mediante catenelle assicurate con 
	  lucchetti o con legacci di stoffa, alle apposite spalliere del letto; 
	  l’ambiente era impregnato di fetore». Da notare che l’istituto aveva 
	  continuato a funzionare per ben 18 anni senza essere in possesso della 
	  relativa preventiva autorizzazione prevista dalla legge e nonostante che 
	  il Prefetto di Roma ne avesse ordinato la chiusura per ben due volte a 
	  seguito di una relazione in cui l’ispettore aveva rilevato che «non vi 
	  sono parole adatte per descrivere le pessime condizioni di abitabilità e 
	  manutenzione e lo stato di abbandono di questo sedicente istituto di 
	  ricovero [in cui] vi sono bambini cento volte più infelici per il luogo 
	  dove vivono che per la loro menomazione» (3).
 Numerose e assai gravi le violenze inflitte alle persone con disabilità 
	  negli anni successivi. Ad esempio, come risulta dalle notizie riportate 
	  dai giornali.
 - Istituto medico-psico-pedagogico di 
	  Chiusa Pesio (Cuneo) - Decesso di W.T. di 16 anni per blocco intestinale, 
	  conseguente all'ingestione di oltre tre chili di ghiaia. Al momento del 
	  ricovero in ospedale il ragazzo era in grave stato di denutrizione, 
	  vomitava feci ed era in agonia (Gazzetta del Popolo dell'8-12-1975).
 - Ospedale psichiatrico di Palermo - Vi sono ricoverati una trentina di 
	  bambini dai 4 ai 14 anni, affidati alle cure dei malati mentali adulti. 
	  Spesso i bambini «vengono tenuti legati ai tavoli e alle sedie». È in 
	  corso una inchiesta della magistratura (Gazzetta del Popolo del 13-1-1976 
	  e Amica del 5-2-1976).
 - Torino - Disperato appello 
	  di una madre il cui figlio è malato (autismo precoce infantile): «Nessuno 
	  vuole curarlo» (Gazzetta del Popolo del 27-10-1976).
 - Istituto privato «Casa della Divina Provvidenza» di Bisceglie - 
	  Accoglie 3800 persone e dà lavoro a 2000 persone (tutte assunte con 
	  sistemi clientelari) e riceve ogni anno dall'Amministrazione provinciale 
	  di Bari per le sole rette ben 20 miliardi. «Era un vero e proprio "lager" 
	  l'istituto ortofrenico di Bisceglie dove ieri è stata effettuata una 
	  ispezione per ordine della procura del tribunale per i minorenni di Bari 
	  (...). Si sono appresi particolari agghiaccianti che non trovano riscontro 
	  in nessuno dei più turpi casi del genere, venuti alla luce negli ultimi 
	  venti anni». L'istituto «ospita malati sofferenti di insufficienza 
	  mentale: duecento hanno meno di 18 anni, il più piccolo ne ha cinque; 
	  alcuni sono ricoverati da pochi mesi; altri da anni; un ragazzo di dodici 
	  anni è lì da quando ne aveva uno e mezzo». «L'ispezione ha permesso di 
	  accertare che tre bambini erano bloccati con medioevali attrezzi di 
	  contenzione; altri tre erano "ancorati" coi piedi ad altrettanti tavoli, 
	  con cinte consunte: ai letti, maniglie con fasce pendenti; negli armadi, 
	  viti, manicotti ed altri rudimentali aggeggi usati per "tenere a freno" i 
	  malati» (Gazzetta del Popolo del 9-1-1977, l'Unità del 10-1-1977 e 
	  COM-Nuovi Tempi del 23-1-1977).
 - Foggia - Da un 
	  verbale esistente presso il Tribunale per i minorenni risulta che 
	  all'ospedale psichiatrico “Santa Maria” di Foggia la situazione è così 
	  descritta: «Promiscuità (maggiorenni irrecuperabili e bambini con lieve 
	  deficit intellettivo, malati di mente e handicappati fisici me-scolati 
	  insieme); casi sospetti di omosessualità; casi evidenti di violenza 
	  tradizionale (incontinenti perennemente legati - anche di notte? - ai 
	  seggioloni col buco); mancanza di tecniche di recupero; insufficienza di 
	  personale; nessun presidio ricreativo, degenti abbandonati a se stessi in 
	  uno stato pre-comatoso che si protrae dal giorno alla notte» (La Stampa 
	  del 28-1-1977).
 - Catanzaro – Trattato peggio di 
	  una bestia – La Repubblica del 28 giugno 1990 - Come ha riferito Filippo 
	  Veltri nell’articolo “Undici anni legato al letto” «Vive dimenticato da 
	  tutti. Da undici anni legato a un letto, vicino a un termosifone, per non 
	  fare del male a sé stesso e agli altri. È la triste storia di Giuseppe C., 
	  23 anni, un cerebropatico di Catanzaro, che passa le sue lunghe giornate 
	  con i polsi assicurati a un letto. Si alza una sola volta la settimana, 
	  nel suo giorno di “festa”, quando gli infermieri gli fanno la doccia. Per 
	  il resto vive come un animale in gabbia. Uno scandalo in piena regola, 
	  anche se i medici del Dipartimento di salute mentale dell'Unità sanitaria 
	  locale numero 18 di Catanzaro fanno notare come il vero ed autentico 
	  scandalo sia quello che Giuseppe non abbia che poche speranze, perché nel 
	  territorio dell'Usl di Catanzaro non esistono strutture alternative per 
	  malati gravi del tipo di Giuseppe».
 - Laterza – 
	  Strappate le unghie delle mani e dei piedi a tre disabili gravi – 
	  Nell’istituto privato Osmairm (Organizzazione sanitaria meridionale 
	  assistenza inabili e recupero minorenni) sito a Laterza (Taranto), nella 
	  notte fra il 30 aprile e il 1° maggio 1996 sono state strappate a tre 
	  ricoverati tutte le unghie delle mani e dei piedi. I torturati sono 
	  giovani di 16, 23 e 26 anni; due di essi sono colpiti da insufficienza 
	  mentale e da tetraparesi spastica, il terzo è affetto da tetraplegia a 
	  seguito di un grave trauma cranico. I seviziatori sapevano che nella 
	  stanza in cui è stato compiuto l'orrendo crimine, al secondo piano 
	  dell'istituto, solo tre dei cinque soggetti handicappati ivi ricoverati 
	  non erano in grado di gridare o di reagire in altro modo.
 
 B.11. Le persone in carrozzella devono viaggiare nei bagagliai
 
 Come risulta dagli atti parlamentari del 30 ottobre 1970, rispondendo 
	  all’interrogazione n. 3-03417 presentata dall’On. Cesarino Niccolai, il 
	  Sottosegretario di Stato per i trasporti Cengarle ha precisato che «il 
	  trasporto delle persone invalide, unitamente al proprio mezzo di 
	  locomozione, è consentito, nei limiti dello spazio disponibile, nei 
	  bagagliai dei treni viaggiatori», aggiungendo che «allo stato 
	  attuale le caratteristiche del materiale rotabile non prevedono, nei 
	  bagagliai, speciali ambienti isolati da riservare ai trasporti particolari 
	  in argomento, per cui, nonostante l’interessamento del personale 
	  ferroviario, non si possono escludere situazioni di disagio». Dunque 
	  le persone in carrozzella erano considerate dei pacchi e subivano pertanto 
	  non solo la segregazione nel bagagliaio privo di servizi, ma anche le 
	  conseguenze del freddo gelido e del caldo afoso. Trascorsi dieci anni 
	  senza alcun cambiamento, le Ferrovie dello Stato avevano proposto ai 
	  propri dipendenti il versamento di 150 lire al mese per finanziare 
	  iniziative non precisate «a favore dei figli e dei congiunti 
	  handicappati dei ferrovieri». Ancora una volta non diritti ma 
	  elemosine con ampia pubblicizzazione dei giornali e l’adesione di alcune 
	  organizzazioni sindacali.
 
 B.12. Bambini condannati a vivere come i 
	  ciechi
 
 Nell’articolo “Condannati a vivere come i ciechi”, apparso su 
	  Oggi, n. 4, 1966, Neera Fallaci aveva intervistato il Professor Giuseppe 
	  de’ Gennaro, docente universitario e chirurgo oculista, il quale aveva 
	  dichiarato quanto segue: «Come ispettore oculista ho controllato tutti 
	  i ricoverati a carico della Provincia di Napoli: almeno il trenta per 
	  cento potrebbe e dovrebbe essere fuori di là e frequentare classi 
	  speciali. Invece vengono bendati, abituati a non vedere perché la 
	  percezione tattile sia falsata da quella visiva e viene loro insegnato il 
	  Braille». In quel periodo era abbastanza frequente il ricovero negli 
	  istituti per ciechi di bambini che “vedono male”, ma le istituzioni 
	  intervenivano «per procurare loro un tetto e il pane». Il 
	  Professor de’ Gennaro ricordava il caso di cinque fratelli siciliani 
	  affetti da cataratta congenita che, sebbene l’intervento fosse felicemente 
	  riuscito, «i due maggiori sono tornati all’istituto ciechi di Palermo 
	  perché ormai sono alla vigilia d’un diploma in Braille» mentre «i 
	  minori sono a Napoli, vivono in collegio». Uno dei fratelli «aveva la 
	  cataratta congenita a un occhio, ma dall’altro ci vedeva bene. Eppure 
	  anch’egli era stato ricoverato nello stesso istituto per ciechi». 
	  Pertanto, conseguenza crudele del trattamento ricevuto, «sapeva 
	  leggere e scrivere solo in Braille» pur vedendo bene da un occhio! 
	  Inoltre il Professor de’ Gennaro aveva precisato che «molti istituti 
	  dei ciechi, nonostante ospitino una rilevante percentuale di minorati 
	  visivi, non hanno neppure l’oculista, né vi è un controllo all’atto di 
	  ammissione del bambino».
 
 B.13. La “clemenza della Magistratura”
 
 In primo luogo va osservato che negli anni ’60–80 (e purtroppo anche 
	  successivamente) quasi mai sono stati rinviati a giudizio dai Procuratori 
	  della Repubblica i funzionari incaricati della vigilanza degli istituti di 
	  ricovero che avevano omesso di compiere il loro dovere, con la conseguente 
	  prosecuzione delle violenze inferte ai minori ivi accolti. È il caso, ad 
	  esempio, dei responsabili del mancato controllo degli istituti dei 
	  Celestini di Prato e di quello gestito dalla Pagliuca di Grottaferrata.
 Fra gli episodi più significativi si ricorda la vicenda di 
	  Monsignor Patrizio Carroll Abbing, Presidente dell’Opera per la Città dei 
	  ragazzi di Roma, accusato di «aver omesso di inviare al Giudice tutelare 
	  gli elenchi dei minori prescritti dall’articolo 314/5 della legge 5 giugno 
	  1967 n. 431», impedendo quindi l’adozione dei fanciulli privi di 
	  assistenza materiale e morale da parte dei loro genitori. Infatti il 
	  Giudice istruttore, Antonio Aliprandi, con l’ordinanza del 13 maggio 1973, 
	  respingeva la succitata richiesta affermando che «non essendo l’assistenza 
	  sociale attività la cui titolarità è riservata alla pubblica 
	  amministrazione, e quindi pubblico servizio, l’esercizio di essa non 
	  costituisce esercizio di un pubblico servizio».
 Si segnala inoltre che il Pretore di Capriati Volturno il 15 maggio 1970 
	  aveva assolto per aver agito in stato di legittima difesa, un operatore 
	  accusato di abuso di mezzi di correzione in danno di un convittore di 12 
	  anni cui aveva «procurato lesioni guarite in 7 giorni fissandogli ai piedi 
	  due pezzi di ferro dal complessivo peso di Kg. 3,450 a mezzo di catena con 
	  lucchetto» per evitare che scappasse dall’istituto (4).
 Si sottolinea che nel giudicare l’operato dei responsabili e degli operatori 
	  degli istituti che avevano inferto violenze anche gravi ai bambini e ai 
	  ragazzi ricoverati, mai si è tenuto conto dell’articolo 224 del regio 
	  decreto 15 aprile 1926 n. 718 il cui terzo comma stabilisce quanto segue: 
	  «Sono vietate le punizioni corporali e quelle consistenti nella privazione 
	  degli alimenti» (5).
 Pertanto anche per atti di 
	  estrema gravità sono state pronunciate sentenze di assoluzione o sono 
	  state inflitte pene molto lievi.
 Fra le punizioni 
	  più frequenti e violente vi erano quelle relative all’enuresi notturna, 
	  fenomeno molto noto derivante dalla carenza di cure affettive.
 Orbene, dagli atti di un processo celebrato nel nostro Paese negli anni ’70 
	  risulta che le punizioni riguardavano anche «le gocce di pipì strizzate in 
	  bocca dalle mutandine bagnate, il leccare con la lingua l’orina colata in 
	  terra o il tenere avvolte sul capo le lenzuola bagnate».
 
 
 B. 14  Istituto di ricovero di minori con handicap: nessun intervento 
	  nonostante la frattura del femore
 
 Riportiamo la lettera inviata il 
	  20 gennaio 1983 da Frida Tonizzo ai signori N.
 «Sono una 
	  rappresentante della Commissione di controllo dei movimenti di base 
	  (6), autorizzata dall'Amministrazione provinciale di Torino a visitare 
	  gli istituti e i centri in cui sono assistiti dei bambini anche 
	  handicappati.
 «Nel novembre scorso durante una nostra visita 
	  all'istituto Papa Giovanni XXIII di Volpiano abbiamo conosciuto vostro 
	  figlio e ci siamo preoccupati delle sue condizioni fisiche: abbiamo cioè 
	  saputo che erano trascorsi dei mesi dalla frattura del suo femore, che era 
	  stato dimesso dall'ospedale senza nessun intervento.
 «Abbiamo segnalato 
	  la sua situazione all'Assessore all'assistenza della Provincia di Torino 
	  che ha poi deciso la visita dell’ortopedico effettuata ai primi di questo 
	  mese.
 «Tornati all'istituto la settimana scorsa, abbiamo visto che era 
	  rientrato dopo un periodo trascorso con voi.
 «Lo scopo della nostra 
	  Commissione composta da volontari è di migliorare le condizioni in cui 
	  vivono questi ragazzi.
 «Vorremmo parlarvi per vedere cosa possiamo 
	  ancora fare per vostro figlio, visto che la mancanza di cure gli ha 
	  provocato danni irreversibili. Vi prego quindi di telefonarci per fissare 
	  un appuntamento con voi; potete cercarmi in orario ufficio al numero 
	  83.12.79 intestato all'Unione per la lotta contro l'emarginazione sociale 
	  (via Artisti 34).
 
 
 B. 15 Lavorare con le persone con 
	  handicap: esercizio della carità e disgusto
 
 Nelle dispense 
	  predisposte nel 1983 dall’Aris, Associazione religiosa istituti 
	  socio-sanitari, per il corso di ausiliario, stampate a cura 
	  dell’Assessorato alla sanità della Regione Piemonte, si legge quanto 
	  segue:
 a) «di fronte a certe persone handicappate può sorgere il 
	  pensiero” che funzioni ha nel mondo una persona come quella?”. Ognuno di 
	  noi ha una sua funzione nel mondo; non fosse altro che di fare esercitare 
	  la carità a chi sta bene ed a ringraziare il Signore per i doni ricevuti e 
	  che tante volte dimentichiamo di possedere»;
 b) «l'ausiliario 
	  può essere incaricato anche del trasporto quotidiano al centro di 
	  riabilitazione o ad altri servizi a seconda dell'handicap; dovrà svolgere 
	  questo compito con molta delicatezza ed intelligenza; nulla in lui 
	  dovrebbe lasciar trasparire disagio o disgusto, ma solo desiderio di 
	  rendersi utile».
 Susetta Bonnet del Csa (Coordinamento sanità e 
	  assistenza fra i movimenti di base), con lettera del 21 giugno 1983 
	  segnala all'Assessore alla sanità della Regione Piemonte non solo che il 
	  problema dell'handicap «è stato affrontato superficialmente, in 
	  maniera incompleta, ma soprattutto falsa ed ineducativa» ma anche che 
	  «lo spirito che ha assicurato gli autori del testo è in netto 
	  contrasto con quegli impegni sociali per cui ci stiamo da anni battendo, 
	  con spirito laico, affinché al cittadino portatore di handicap siano 
	  garantiti i servizi a lui spettanti senza ombra di carità».
 Inoltre Susetta Bonnet rileva che è «grave che l'Assessorato alla 
	  sanità della Regione Piemonte abbia curato la pubblicazione di lezioni per 
	  la formazione di futuri ausiliari socio sanitari imperniata sul 
	  pietismo e carità».
 Deludente la risposta dell'Assessore alla 
	  sanità della Regione Piemonte che, con lettera dell' 8 luglio 1983 ha 
	  affermato che «l'attività di revisione da parte dell’Assessorato 
	  regionale si limita alla riconduzione di un linguaggio didattico più 
	  idoneo a lavoratori in possesso della sola scolarità dell'obbligo, ad 
	  alcune precisazioni giuridiche nella organizzazione dei servizi, 
	  all'eliminazione di alcune dispense ritenute superflue nell'economia di un 
	  corso di aggiornamento per ausiliari».
 
 
 B. 16 Difesa della 
	  razza e della vita agiata
 
 Sul n. 2, 1970 della rivista "La Parola 
	  Amica" della Piccola Opera per la salvezza del fanciullo di Monza, la 
	  Direttrice dell’Istituto provinciale per la protezione e l’assistenza 
	  all’infanzia di Genova, nel «tracciare un’acuta diagnosi della vita 
	  moderna» aveva sostenuto che «i gruppi etnici elevati dal punto 
	  di vista del patrimonio genetico e della educazione, si moltiplicano meno 
	  degli altri, con il grave pericolo di una selezione negativa».
 Segnalava quindi l’esigenza di garantire «necessità assistenziali 
	  maggiori per coloro che nelle città non sono utili né tollerati e non solo 
	  per i molesti malati di mente per i quali basterebbe talvolta solo il 
	  ricovero diurno, ma per quelli che ostacolano la vita agiata della città, 
	  i bambini, i malati, i vecchi, gli inabili, i bisognosi di controllo e di 
	  assistenza non potendosi, a causa delle necessità lavorative e della 
	  limitazione degli spazi, tenerli in casa».
 Dunque, per consentire 
	  ai «gruppi etnici elevati dal punto di vista del patrimonio genetico e 
	  dell’educazione di vivere tranquilli», la Direttrice dell’Istituto 
	  provinciale per l’infanzia di Genova proponeva il ricovero in istituto 
	  «per i malati di mente (…) i bambini, i malati, i vecchi e gli inabili».
 Pertanto, la soluzione consisteva nel ricoverarli. In questa logica la 
	  direttrice di Genova ottenne la costruzione di un nuovo istituto 
	  provinciale per l'infanzia di 350 posti. Questo istituto non è mai entrato 
	  in funzione se non per il giorno dell'inaugurazione da parte del 
	  Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat: i bambini erano stati portati 
	  nell'istituto al mattino e riportati nella vecchia sede nel pomeriggio. In 
	  seguito è stato usato per altri scopi, mai, per fortuna, per i bambini.
 
 
 
 
 Note
 (1) Come è stato riportato sul numero 130/2000 di 
	  “Prospettive assistenziali” con il titolo “I soggetti con sindrome di Down 
	  definiti agonia umana”: «A Messina un sacerdote nega la confessione ad un 
	  bambino con sindrome di Down; a Torino il settimanale cattolico “Il Nostro 
	  Tempo” commenta il fatto in prima pagina e cerca “come sempre nei momenti 
	  di smarrimento le parole che illuminano di fede una situazione difficile 
	  da capire nell’umiliazione della ragione”. Le trova affermando che 
	  “l’agonia umana è anzitutto un atto d’amore” e sostenendo addirittura che 
	  la sindrome di Down è una «dolorosa, lunga e misteriosa “agonia umana”». 
	  Il settimanale della Diocesi di Torino conclude l’articolo con le parole 
	  “Che cosa importa? Tutto è grazia”. Ma questa non è la dimostrazione di 
	  una cinica insensibilità nei confronti delle esigenze e dei diritti delle 
	  persone con handicap Down e dei loro congiunti?». Segnaliamo altresì che, 
	  come è stato pubblicato su “La Stampa” del 1° luglio 2012, Monsignor 
	  Andrea Gemma, Vescovo emerito di Isernia, durante la trasmissione “Vade 
	  retro” andata in onda il 9 giugno 2012 su TV2000, canale di proprietà 
	  della Cei, Conferenza episcopale italiana, ha dichiarato che «il posseduto 
	  dal diavolo ha le movenze e il portamento simile a un Down».
 (2) Cfr. il volume di Emilia De Rienzo e Claudia De Figuereido, 
	  Anni senza 
	  vita al Cottolengo – Il racconto e le proposte di due ex ricoverati, 
	  Rosenberg &Sellier, Torino, 2000.
 (3) Cfr. il 
	  volume di Bianca Guidetti Serra e di Francesco Santanera, 
	  Il Paese dei 
	  celestini. Istituti di assistenza sotto processo, Einaudi, Torino, 1973.
 (4) Cfr. Bianca Guidetti Serra e Francesco 
	  Santanera, op. cit.
 (5) A tutela dei minori gli 
	  altri due commi dell’articolo 244 del regio decreto 718/1926 erano così 
	  redatti: «Gli istituti indicati nei precedenti articoli devono essere 
	  ordinati in maniera da assicurare possibilmente ad ogni ricoverato la 
	  sanità fisica e psichica e in tutti i casi l’istruzione elementare di 
	  grado preparatorio, inferiore e superiore, l’istruzione professionale e 
	  l’avviamento a quel mestiere o a quella professione che risponda alle sue 
	  abitudini». «L’ordinamento disciplinare educativo e 
	  l’abituale comportamento del personale di direzione, educazione, 
	  assistenza e vigilanza, nei riguardi dei ricoverati, devono essere scevri 
	  da ogni asprezza o severità sistematica ed informati al principio che gli 
	  educatori debbono sopra tutto mirare alla conquista della fiducia, della 
	  stima e dell’affetto dei singoli ricoverati».
 (6) Ai sensi della 
	  delibera della Giunta della Provincia di Torino del 5 ottobre 1979 viene 
	  assicurata «ai movimenti di base la possibilità di esercitare il 
	  controllo sulle strutture di assistenza sia a carattere residenziale che 
	  diurno». L'accesso è consentito in qualsiasi momento del giorno e 
	  della notte a gruppi «costituiti da un minimo di due persone ad un 
	  massimo di quattro» in possesso del tesserino rilasciato 
	  dall'Amministrazione provinciale torinese. Gli incaricati dei movimenti di 
	  base «non possono, pena il ritiro immediato del tesserino, interferire 
	  sul lavoro svolto dai servizi, né manifestare apprezzamenti di alcun 
	  genere»; le eventuali osservazioni, critiche e proposte debbono 
	  essere presentate all'Amministrazione provinciale dai movimenti di base. 
	  Analoga delibera è stata assunta dalla Giunta comunale di Torino con 
	  delibera del 28 febbraio 1983.
 
 www.fondazionepromozionesociale.it
 
 
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