Prospettive assistenziali, n. 128, ottobre-dicembre 1999

 

 

È giusto che le onlus siano agevolate senza verificare le modalità della loro offerta di beni o servizi?

NICOLA FORTUNATO  (*)

 

 

La recente acquisizione del termine “non profit” nel dibattito sociale ed economico in Italia non deve indurre a ritenere che si tratti di un fenomeno di nuova formazione, importato semmai da oltreoceano: infatti esempi come le opere di carità, le case di cura e di assistenza, gli enti di mutuo soccorso e di istruzione, dimostrano che il non profit ha in Italia una tradizione antica e diffusa, che affonda le proprie radici nel Medioevo e nel Rinascimento tanto che, in alcune tipologie di attività, si potrebbe vantare legittimamente una sorta di primogenitura.

In netto contrasto all’importanza e al radicamento di tale settore è invece la confusione del quadro normativo, in passato caratterizzato da discipline distinte in funzione delle diverse tipologie di attività ed organizzazioni, come nel caso della legge quadro sul volontariato o della normativa sulle cooperative sociali.

Sotto il profilo giuridico, allora, è possibile riconoscere alle esperienze straniere un primato, e cioè quello di essere state già da tempo caratterizzate da una disciplina organica delle forme e dei soggetti ricompresi nell’area del non profit e da un regime fiscale asservito ad una politica di incentivazione delle attività svolte.

In Italia un marcato segnale verso l’abbandono della strada della legislazione speciale del terzo settore è stato lanciato dalla recente emanazione del decreto legislativo n. 460/1997 che, ancorché in un ambito esclusivamente tributario, si rivolge alla generalità degli enti non profit, introducendo la categoria delle “Organizzazioni non lucrative di utilità sociale” (da cui l’acronimo ONLUS).

Come spesso accade, la tentazione di recuperare il ritardo accumulato in decenni di disattenzione attraverso il recepimento nel proprio sistema giuridico delle soluzioni approntate da altri ordinamenti, diversi per costruzione e tradizione, ha portato alla redazione di una norma non sempre coordinata con i principi generali ai quali è ispirato il nostro sistema fiscale e, soprattutto, non accompagnata dalla indispensabile ridefinizione civilistica dei soggetti, i c.d. corpi intermedi, che costituiscono l’ossatura del terzo settore.

È nata quindi una norma fiscale che si è dovuta preoccupare di disciplinare anche aspetti di diritto privato (come gli elementi dello statuto delle ONLUS) dei soggetti ai quali la stessa è destinata, con un notevole sforzo spesso tradito dall’introduzione di eccezioni non riconducibili ad un disegno sistematico della materia, quanto piuttosto alle pressioni, più o meno velate e disinteressate, di alcune importanti lobbies coinvolte.

Ma ciò che preoccupa è che la disciplina delle ONLUS non fornisce una chiara e precisa definizione di tali enti solidaristici e della loro attività, rimandando l’individuazione dei soggetti destinatari delle agevolazioni fiscali al soddisfacimento di specifiche condizioni, come testimonia il dettagliato elenco di divieti e di obblighi (vedi l’art. 10, decreto legislativo n. 460/1997).

Evidentemente tale soluzione legislativa risente della fobia anti-elusiva causata dalla esperienza tutta italiana degli enti non commerciali, e denota una immeritata attribuzione generalizzata all’intero terzo settore di fenomeni invece patologici e circoscritti; il risultato è pertanto una norma che sembra preoccuparsi con maggiore attenzione di ciò che fa venir meno i benefici fiscali, piuttosto che delle ragioni che giustificano tale regime di favore, con una smania casistica che fa perdere di vista i principi generali che dovrebbero invece ispirare l’intera materia.

Ad esempio, il presupposto logico dell’attività delle ONLUS è che l’attività solidaristica di tali soggetti richiede il reperimento di risorse finanziarie non derivanti da uno schema corrispettivo: l’evidente distinzione tra attività profit ed attività non profit (o per meglio dire, attività solidaristiche) poggia sulla necessità per le iniziative lucrative, a pena della loro stessa sopravvivenza, di immettere sul mercato beni o servizi ad un prezzo pari almeno al loro costo, cercando anzi di conseguire nello scambio un surplus da ripartire come utile tra i soci.

Diametralmente opposta è invece la finalità delle attività non profit, in quanto queste nascono dalla volontà di alcuni soggetti di aiutare altri soggetti offrendo loro prestazioni o prodotti a condizioni più favorevoli di quelle di mercato, ed impegnandosi a ripianare con proprie risorse il deficit che una gestione a prezzi sotto costo inevitabilmente produce; d’altronde, il principio di solidarietà posto a fondamento di una ONLUS, indipendentemente dalla sua giustificazione etica, risulta caratterizzato dalla destinazione di risorse dai soggetti benestanti verso quelli svantaggiati, con l’ovvio corollario della netta distinzione delle due categorie in quanto non vi può essere evidentemente coincidenza tra chi aiuta e chi viene aiutato.

Le ONLUS, insomma, costituiscono un moderno strumento di beneficenza, che unisce alla organizzazione professionale (per non dire aziendale) del soggetto che assiste i soggetti svantaggiati, il tradizionale impegno dei benefattori a sostenere l’iniziativa; uno strumento peraltro particolarmente importante, perché supera un modello di assistenza materiale ai bisognosi in favore di uno schema di intervento che permette il superamento delle difficoltà, non solo economiche, che alcuni soggetti svantaggiati incontrano nel soddisfare le proprie necessità non solo di natura primaria.

In base a tali premesse, una organizzazione finalizzata ad uno scopo solidaristico difficilmente potrà essere in utile, dato che il riequilibrio dei suoi conti è condizionato al reperimento di risorse da soggetti diversi da quelli destinatari del suo intervento, e quindi derivanti da atti di liberalità.

Nella disciplina introdotta per le ONLUS, allora, risulta di particolare interesse piuttosto che la detassazione dei profitti dell’attività solidaristica, per principio in perdita senza le sovvenzioni, la possibilità per i sostenitori di tali organizzazioni di ridurre le proprie imposte in funzione delle elargizioni effettuate, attraverso meccanismi giuridici diversi a seconda dei casi.

La logica della agevolazione è cioè quella di premiare coloro che senza avere un interesse strettamente economico permettono all’organizzazione solidaristica di continuare a svolgere la propria attività benefica, una logica sostenuta sia dalla meritevolezza di tale comportamento, sia dal mero interesse economico di incentivare iniziative private che soddisfano bisogni della collettività senza gravare sulle finanze pubbliche.

Tuttavia nel decreto legislativo n. 460/1997, sebbene venga proclamata con enfasi la finalità solidaristica delle ONLUS, non trova codificazione l’obbligo che l’attività rivolta verso i soggetti svantaggiati avvenga a prezzi, ed in genere a condizioni, migliori di quelli di mercato, e cioè quelli applicati da organizzazioni profit; in vero nella tormentata stesura del provvedimento operata dalla Commissione di esperti, tale esigenza era stata prontamente annotata e tradotta nella condizione che gli scambi delle ONLUS dovessero avvenire a prezzi non remune­rativi.

Nel testo definitivo, invece, tale clausola è stata sostituita con un macchinoso meccanismo di “blindatura” dell’utile, costituito da un articolato elenco di divieti che dovrebbero impedire la distribuzione – diretta o indiretta – di qualsiasi attività della ONLUS verso i suoi soci-sostenitori.

Ma quello che più rileva è che la finalità solidaristica è stata ricondotta alla indistribuibilità dell’utile, e cioè in una condizione che pur necessaria non è tuttavia sufficiente a circoscrivere le attività meritevoli delle agevolazioni fiscali in questione; infatti se da un lato il divieto di distribuzione degli utili risulta incompatibile con uno scopo lucrativo dell’attività, dall’altro non può evidentemente garantirne la finalità solidaristica; ovvero, in altri termini, la norma fiscale riduce forzatamente tutti gli enti che non sono lucrativi a quelli solidaristici, permettendo così che soggetti estranei ad entrambe le categorie beneficino ingiustificatamente delle agevolazioni fiscali riservate per principio alle sole attività benefiche.

Così, ad esempio, l’attuale disciplina fiscale riconoscerebbe le agevolazioni (sia in materia di deducibilità delle donazioni che in ambito delle imposte indirette) anche ad una ipotetica ONLUS che fornisse a soggetti in difficoltà prestazioni o beni ad un prezzo identico, o addirittura superiore, a quello indicato dalle imprese profit: eppure in tal caso è evidente l’inesistenza di un beneficio per i soggetti “svantaggiati” nel soddisfare le proprie necessità attraverso una ONLUS piuttosto che mediante soggetti profit.

La mancanza di ogni riferimento normativo alla necessità di confrontare i prezzi dei beni o servizi offerti dalle ONLUS con quelli degli analoghi beni o servizi offerti dal mercato risulta ancora più allarmante nell’ipotesi in cui i loro acquirenti non siano “svantaggiati”; come è infatti noto, il legislatore del decreto legislativo n. 460/1997 ha recepito dalla esperienza nord-americana in materia di charities il principio che la solidarietà perseguita dalle ONLUS non richiede che il mercato del non profit si limiti ai soli soggetti in stato di bisogno, ma possa comprendere anche gli altri, cioè quelli non bisognosi, purché tale estensione non snaturi la finalità dell’ente e contribuisca con le sue entrate a sovvenzionare l’attività benefica istituzionale.

Tipico esempio di tale modello di enti che pur restando non profit, hanno anche una attività profit, sono i tanti ospedali che nei paesi anglosassoni offrono a chiunque i propri servizi, salvo poi differenziare i compensi per le prestazioni erogate in
funzione delle condizioni economiche del singolo cliente.

In questo caso, quindi, l’ospedale ha una attività profit, ma ciò non intacca la finalità istituzionale di stampo solidaristico, in quanto il lucro realizzato è comunque destinato alla attività benefica e l’ampliamento dell’utenza permette da un lato economie di scala, e dall’altro di misurare l’efficienza e la qualità dei propri servizi attraverso il confronto con quello che offre la concorrenza.

Se quindi nello schema di ente non profit può essere legittimamente ritagliata una limitata area profit, è però evidente che quest’ultima dovrebbe essere disciplinata dalle regole delle strutture lucrative, prima fra tutte quella della determinazione dei prezzi ai livelli di mercato; in altri termini, solo per i soggetti bisognosi ha ragione un prezzo sotto-costo, mentre per tutti gli altri dovrebbe essere indifferente, almeno sotto il profilo del prezzo, servirsi di una ONLUS ovvero di una normale impresa.

Nel decreto legislativo n. 460/1997 queste importanti considerazioni trovano soltanto una parziale normazione; la possibilità che la ONLUS svolga la sua attività anche verso soggetti che non versano in uno stato di bisogno è espressamente consentita, nei limiti in cui ciò non prevarichi funzionalmente l’attività tipicamente solidaristica. Una eventualità, questa, contrastata dal legislatore anche con un confronto meramente matematico tra la gestione profit e quella non profit, sulla cui ragionevolezza ed efficacia si nutrono fondati dubbi.

Manca tuttavia nella norma qualsiasi riferimento alla commisurazione del prezzo dei beni e servizi offerti ai soggetti non in stato di bisogno, ovvero dei prezzi di quella che sinteticamente è stata riferita attività profit; in altri termini, una ONLUS che stabilisse di offrire i propri servizi ad un prezzo identico per tutti i fruitori, indipendentemente dalle loro condizioni soggettive di natura sociale od economica, beneficerebbe legittimamente del regime fiscale agevolato.

Ma, si è anticipato, il presupposto logico di una struttura solidaristica è per un verso il soddisfacimento, gratuitamente o a prezzi sotto costo, delle necessità dei soggetti “svantaggiati”, e per l’altro il ripianamento del deficit grazie al sostegno della collettività: il decreto legislativo n. 460/1997, invece, consente l’estensione dell’offerta “sotto costo” all’intera collettività, con la pericolosa confusione tra chi beneficia del carattere non lucrativo della ONLUS, e chi invece ne ripiana il deficit. Insomma, i sovvenzionatori della ONLUS corrono il rischio di essere i benefattori di sé stessi.

A chi sostiene che l’obbligo di assumere il valore di mercato come prezzo ideale della attività profit introdurrebbe una condizione alle agevolazioni fiscali dai confini incerti, al pari di ogni valutazione, basta obiettare che l’individuazione del valore “normale” è una ipotesi diffusa nel nostro sistema fiscale (vedi, ad esempio, in materia di redditi in natura, o di destinazione di beni a finalità estranee all’impresa, o di assegnazione di beni ai soci) e l’esperienza a tal riguardo non ha evidenziato particolari difficoltà o contrasti con gli organi verificatori.

Una soluzione di compromesso che superi la possibilità di contestazioni sul valore normale potrebbe risolversi nell’obbligo che per i soggetti non bisognosi (la c.d. attività accessoria) l’offerta della ONLUS avvenga ad un prezzo almeno pari al costo, elemento quest’ultimo che anche una ONLUS dovrebbe poter ricavare con sufficiente certezza: una clausola simile eviterebbe pertanto che la gestione ufficialmente “profit” contribuisca invece ad appesantire il deficit di quella istituzionale, distogliendo per assurdo le elargizioni ricevute dall’obiettivo solidaristico che le aveva motivate.

In conclusione, l’assenza nel decreto legislativo n. 460/1997 di qualsiasi riferimento al prezzo dei beni o dei servizi offerti dalle ONLUS presta il fianco al riconoscimento delle agevolazioni fiscali anche a organizzazioni che, al di là della facciata, non svolgono la propria attività secondo schemi solidaristici: una autentica ONLUS offre alle persone in difficoltà i propri beni o servizi a prezzi fuori mercato, quando non addirittura gratuitamente; una autentica ONLUS, quando svolge la sua attività verso individui non bisognosi, opera a prezzi di mercato perché non dimentica che le elargizioni ricevute servono solo all’attività istituzionale.

Quello che preoccupa, allora, è il rischio che si diffonda un clima di diffidenza verso il riconoscimento delle agevolazioni fiscali agli enti non profit a causa della assimilazione tra le “vere” ONLUS e quelle che lo sono solo sulla carta, secondo una escalation che si è già sperimentata con riferimento agli enti non commerciali; purtroppo l’esperienza insegna che quando una agevolazione – in questo caso fiscale – viene strumentalizzata a fini difformi da quelli per il raggiungimento dei quali era stata introdotta, la reazione – indipendentemente dalla diffusione del fenomeno patologico – è l’abolizione della normativa di favore, senza ciò distinguere tra fattispecie meritevoli e quelle estranee.

È pertanto per scongiurare tale ipotesi che tutti coloro che hanno a cuore il terzo settore auspicano la modifica della normativa attualmente vigente, non tanto per vederne estese le agevolazioni, quanto piuttosto per riservarle solo a chi effettivamente le merita.

 

 

(*) Dottorando di ricerca in Diritto Tributario.

 

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