Prospettive assistenziali, n. 76, ottobre - dicembre 1986

 

 

HANDICAPPATI, SOCIETA’ E LAVORO

CARLO MARIA MARTINI (*)

 

 

Il mio intervento vorrebbe suscitare alcuni semplici interrogativi, tra i molti che ho avvertito e sentito nei numerosi incontri fatti in questi an­ni con gli handicappati, le loro famiglie, le auto­rità e coloro che hanno a cuore i problemi dei disabili.

Vorrei anzitutto richiamare quanto ho scritto l'anno scorso a questo proposito nella mia Let­tera pastorale «Farsi prossimo». «Una visione della vita esclusivamente in chiave di benessere porta o a escludere gli handicappati, perché ina­datti a usufruire del benessere, o a tentare delle socializzazioni, nel senso di forzate immissioni nel mondo del benessere. Invece una visione etica dell'handicap, senza rinnegare i vantaggi del benessere, dischiude più ampie possibilità di vita e di reale valorizzazione sociale delle persone handicappate».

In questa prospettiva acquista senso l'interro­gativo che viene rivolto alla nostra società: «A cinque anni dall'anno internazionale dell'handi­cappato quali cambiamenti esso ha prodotto nel­la comunità cristiana e civile lombarda?».

Dobbiamo riconoscere che l'anno internaziona­le dell'handicappato non ha fatto scomparire - e forse nemmeno diminuire - la precarietà della vita di quanti vivono nel bisogno. Alle tante promesse proclamate nei numerosi convegni e iniziative che hanno caratterizzato quell'anno, non è seguito talora un puntuale impegno legi­slativo e sociale, volto a valorizzare la persona dell'handicappato e la sua irrinunciabile dignità umana e sociale.

Certamente in questi cinque anni, c'è stato un mutamento qualitativo di mentalità e cultura, si è diffusa una maggiore conoscenza e socializza­zione della problematica dell'handicap all'interno della comunità cristiana e civile, si sono svilup­pate reali dinamiche di integrazione, di compren­sione e di accettazione.

Sono sorte, inoltre, esperienze di condivisione che hanno prodotto il diffondersi di modelli so­ciali e di comportamento nei quali l'handicappato viene sempre più valorizzato come persona.

Tuttavia, il disagio è ancora diffuso perché troppe questioni fondamentali non sono risolte e gli stessi interventi al servizio degli handicap­pati avvertono la fatica di non avere la continui­tà, globalità e supporti adeguati.

Come dicevo prima, questi nostri fratelli chie­dono l'attuazione di tante promesse ricevute, de­nunciano situazioni insostenibili, sono spesso sfi­duciati e non nascondono una certa amarezza.

Ho quindi pensato di raccogliere qualcuna di queste situazioni, nel desiderio che nascano ri­sposte concrete.

 

Gli handicappati psichici gravi

La prima riguarda gli handicappati gravi, in particolare psichici, che hanno compromessa, in maniera duratura, l'autonomia di vita.

E vero che si sono realizzate molte esperienze di condivisione e di aiuto ma sono insufficienti per rappresentare una reale inversione di tenden­za al processo di emarginazione o di affidamento (troppe volte ancora necessario) del soggetto grave all'istituto, come unica risposta alla man­canza di risorse adeguate sul territorio.

Vanno allora valorizzate modalità di intervento quali: comunità di vita, comunità-alloggio, co­munità di pronto intervento, famiglie affidatarie, piano di assistenza domiciliare, centri educativi diurni, collegamento di famiglie con amici, nello spirito ad esempio di «Fede e Luce». Tali inter­venti hanno il merito culturale e sociale di ripor­tare sul territorio le problematiche dell'handicap­pato grave, di non sradicarlo dal suo contesto di vita, di creare adeguata solidarietà alle famiglie, di sviluppare una forte creatività e integrazione, di porre in primo piano interrogativi che cercano di capire cause e responsabilità per poter svilup­pare un concreto progetto di prevenzione. E, so­prattutto, rispondono a una visione di umanità, solidarietà, rispetto della vita, che raggiunge una profonda radicalità.

Una comunità che non si pone questi obiettivi, pur se sono di difficile attuazione, non esprime e non interpreta tutta la carica di solidarietà che l'umanità sofferente invoca e che può sorpren­dentemente aiutare a scoprire.

Ho più volte affermato l'urgenza di «dare voce a chi non ha voce»: nel nostro caso significa aprire e difendere, per i fratelli con handicap gravi e per le loro famiglie, orizzonti di vita proprio sul luogo e nell'ambiente in cui vivono.

Tutto questo ha evidentemente bisogno di un supporto legislativo e istituzionale, di un trasfe­rimento di risorse economiche indirizzate a tale priorità sociale e al decisivo criterio di salvaguar­dare e proteggere maggiormente i più deboli.

Sono convinto che non è ancora stato fatto tutto quanto si poteva e che, da parte nostra, è necessario contribuire a superare la sfiducia e la stanchezza che emerge da più parti. Non possiamo proclamare il valore intangibile della vita senza poi impegnarci a qualificare, in uma­nità e dignità, quella dei più deboli che vivono al limite della disperazione o della solitudine o dell'abbandono!

 

Gli handicappati fisici

La seconda situazione riguarda la possibilità, per gli handicappati fisici, di muoversi libera­mente con il conseguente abbattimento di ogni tipo di barriere architettoniche.

Sono ancora troppi gli ostacoli presenti nel tessuto urbanistico e dei trasporti, nelle nostre città; mancano una cultura e una progettazione che tengano conto dei riferimenti legislativi.

Credo che, a monte, ci sia bisogno di un «pen­sare senza barriere», quindi di un modello di riferimento che non sia soltanto il cittadino sano.

Possiamo allora dire che il problema dell'abbat­timento delle barriere architettoniche e di una conseguente progettazione urbanistica - pub­blica e privata - senza barriere, è una scelta di civiltà significativa.

Tale risoluzione potrà incidere positivamente sulla qualità di vita di tutti i cittadini, non sol­tanto degli handicappati.

 

L'inserimento degli handicappati nella scuola

Il principio, sancito con apposita legislazione, di inserire gli handicappati nella scuola di tutti, sta vivendo una fase di difficoltà, con il pericolo di impoverire una così importante e significativa conquista socio-culturale.

Molte famiglie esprimono la preoccupazione di un inserimento che rischia di trasformarsi in «parcheggio», perché non aiuta a sviluppare le potenzialità di socializzazione e di conoscenza dei loro figli handicappati.

Non tocca certamente a noi individuare solu­zioni e proposte per il sistema scolastico. Tut­tavia la comunità cristiana, con il suo apporto di qualificato e motivato volontariato, è chiamata a dare il proprio contributo per sostenere un così alto obiettivo di natura sociale.

Si tratta quindi di conoscere i soggetti, di crea­re con loro dei rapporti, di sostenere le famiglie nella fatica quotidiana e nelle giuste richieste che avanzano, di creare insomma quel clima di solidarietà attiva che può diventare un'importan­te premessa per una reale integrazione.

Anche i genitori che partecipano alla vita sco­lastica dovrebbero educarsi ed educare i figli ad accettare e facilitare l'obiettivo dell'inserimen­to scolastico degli handicappati.

L'handicappato a scuola con gli altri ragazzi, lungi dal frenare il cammino scolastico - come alcuni temono - può in realtà essere una fe­conda possibilità di crescita umana e di sensibi­lizzazione a valori di uguaglianza e di solidarietà.

 

Il diritto al lavoro dell'handicappato

Mi permetto, infine, di richiamare una questio­ne molto sentita e che è fonte di crescente preoccupazione negli ultimi tempi. Si tratta del diritto al lavoro, oggi gravemente compromesso per i portatori di handicap. Il problema è esem­plare e centrale se affermiamo la dignità dell'han­dicappato, e non deve sembrarci irrilevante e inevitabile di fronte alla crisi attuale del lavoro.

In diverse occasioni ho insistito sulla necessità di considerare il lavoro come un'autentica possi­bilità di crescita umana, e non unicamente come possibilità di guadagno e di produzione mate­riale. Il Santo Padre Giovanni Paolo II ci ha ri­petutamente richiamati a questo proposito.

Se dunque il lavoro è un valore che contri­buisce a realizzare la persona umana, esso va difeso e protetto anche là dove l'autonomia uma­na è più compromessa. E l'handicappato che pos­siede residue capacità lavorative ha più che mai esigenza di lavorare.

Tempo fa, in occasione di un Convegno pro­mosso dalla Caritas per discutere su un inter­vento legislativo che riduceva drasticamente il diritto al lavoro dell'handicappato, ho ribadito con forza l'insegnamento dell'enciclica «Laborem Exercens» là dove affermava appunto questo di­ritto. Da allora, si è fatto molto cammino per sensibilizzare le coscienze ma gli interventi mi­nisteriali hanno continuato a perseguire la strada di ridurre, di fatto, la possibilità del lavoro, anzi escludendolo per gli handicappati psichici.

Si è così creata una situazione intollerabile per tante famiglie e per moltissimi handicappati che vedono riconosciuto, al massimo, il proprio di­ritto ad avere «monetizzato» l'handicap.

So perfettamente che la cultura economica più diffusa e l'attuale crisi dell'occupazione compren­dono a fatica le ragioni della nostra difesa. Essa però si basa anche su una ragione sociale incon­testabile. Perché difendere e proteggere social­mente la produttività dell'handicappato, trasferi­re le risorse economiche dell'area assistenziale a quella del sostegno del lavoro, significa com­piere un'operazione economica saggia.

Anche per il problema del lavoro, si tratta dun­que di tradurre in pratica tutto quanto è stato detto nell'anno internazionale dell'handicappato. Dobbiamo impedire ad ogni costo che il portato­re di handicap si veda costretto a chiudersi in casa più di altri, vedendo frustrate le possibilità di recupero della sua dignità sociale.

 

Conclusione

Ho segnalato alcuni dei problemi che interpel­lano la società civile affinché non si consolidi una caduta di attenzione per la condizione esi­stenziale dei fratelli handicappati sia a livello politico istituzionale sia a livello sociale.

Noi avvertiamo che la difesa della dignità del­la persona ha bisogno di un grande consenso cul­turale e sappiamo che la Regione lombarda, ad esempio, è impegnata in un generoso compito di attuazione di una nuova norma nel campo so­cio-assistenziale. Auspichiamo quindi che essa contribuisca a favorire un intervento sempre più globale, in coerenza alla natura del bisogno, e che si sviluppi un privilegio dei servizi territo­riali alla persona, una verifica puntuale e rigo­rosa sulla qualità delle prestazioni offerte, ap­prontando anche un piano di sostegno alle fa­miglie e valorizzando la solidarietà di base.

Ci preoccupa, infatti, una certa redifinizione della «cronicità» e della «irrecuperabilità» da parte della cultura e dei sistemi sanitari vigen­ti, che finisce per negare risorse professionali, strumentali e finanziarie del comparto sanitario ad un bisogno chiaramente sanitario. Perché la persona gravissima, con poche possibilità di re­cupero fisico, non deve aver diritto ad essere seguita in tutti i suoi bisogni, compresi proprio quelli sanitari? La questione è fondamentale e si radica in quella difesa della vita della persona che, dal momento del concepimento fino al suo ultimo istante, va qualificata e non relegata a questione secondaria.

La comunità cristiana è chiamata a testimonia­re questo impegno. Essa, per prima, si deve in­terrogare se l'attuale ritardo nelle istituzioni non sia lo specchio pure di una sua disattenzione sociale e formativa.

La partecipazione dei cristiani e delle realtà ispirate ai principi cristiani, va qualificata, inol­tre, ai vari livelli di programmazione e gestione, in termini di attiva progettualità e non solo di presenza e di difesa dei diritti. Occorre, a tal fine, diffondere conoscenza, strumenti e competenze, imparare a misurarsi con continuità con le situa­zioni concrete delle persone handicappate che vivono sul territorio, avviare un processo di for­mazione permanente del volontariato. Occorre orientare i giovani verso professioni a contenuto sociale e sanitario, in un'ottica di interprofessio­nalità, di legame con le istanze emergenti dal territorio, di attenzione alle persone maggiormen­te colpite.

Là dove viene celebrata l'Eucaristia - pane spezzato per la vita del mondo -, non può non esserci il risveglio e il richiamo incessante alla dimensione dell'accoglienza, a diventare luogo ospitale particolarmente per i fratelli che vivono ai margini della società e per coloro che sono nel dolore e in difficoltà.

Ce lo chiedono gli handicappati con accorata urgenza.

 

 

(*) Arcivescovo di Milano.

 

 

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