HANDICAPPATI, SOCIETA’
E LAVORO
CARLO MARIA MARTINI (*)
Il mio intervento vorrebbe suscitare alcuni semplici
interrogativi, tra i molti che ho avvertito e sentito nei numerosi incontri
fatti in questi anni con gli handicappati, le loro famiglie, le autorità e coloro che hanno a cuore i problemi dei disabili.
Vorrei anzitutto richiamare quanto ho scritto l'anno
scorso a questo proposito nella mia Lettera pastorale
«Farsi prossimo». «Una visione della vita esclusivamente in chiave di benessere
porta o a escludere gli handicappati, perché inadatti
a usufruire del benessere, o a tentare delle socializzazioni, nel senso di
forzate immissioni nel mondo del benessere. Invece una
visione etica dell'handicap, senza rinnegare i vantaggi del benessere,
dischiude più ampie possibilità di vita e di reale valorizzazione sociale delle
persone handicappate».
In questa prospettiva acquista senso l'interrogativo
che viene rivolto alla nostra società: «A cinque anni dall'anno internazionale dell'handicappato quali
cambiamenti esso ha prodotto nella comunità cristiana e civile lombarda?».
Dobbiamo riconoscere che l'anno internazionale dell'handicappato
non ha fatto scomparire - e forse nemmeno diminuire - la precarietà della vita
di quanti vivono nel bisogno. Alle tante promesse
proclamate nei numerosi convegni e iniziative che hanno caratterizzato quell'anno, non è seguito talora
un puntuale impegno legislativo e sociale, volto a valorizzare la persona
dell'handicappato e la sua irrinunciabile dignità umana e sociale.
Certamente in questi cinque anni, c'è stato un
mutamento qualitativo di mentalità e cultura, si è diffusa una maggiore
conoscenza e socializzazione della problematica dell'handicap all'interno
della comunità cristiana e civile, si sono sviluppate reali dinamiche di integrazione, di comprensione e di accettazione.
Sono sorte, inoltre, esperienze di condivisione che
hanno prodotto il diffondersi di modelli sociali e di comportamento nei quali l'handicappato viene sempre più
valorizzato come persona.
Tuttavia, il disagio è ancora diffuso perché troppe
questioni fondamentali non sono risolte e gli stessi interventi al servizio
degli handicappati avvertono la fatica di non avere la
continuità, globalità e supporti adeguati.
Come dicevo prima, questi
nostri fratelli chiedono l'attuazione di tante promesse ricevute, denunciano
situazioni insostenibili, sono spesso sfiduciati e non nascondono una certa
amarezza.
Ho quindi pensato di raccogliere qualcuna di queste
situazioni, nel desiderio che nascano risposte
concrete.
Gli handicappati psichici gravi
La prima riguarda gli handicappati gravi, in particolare psichici, che hanno compromessa, in maniera
duratura, l'autonomia di vita.
E vero che si sono realizzate molte esperienze di
condivisione e di aiuto ma sono insufficienti per
rappresentare una reale inversione di tendenza al processo di emarginazione o
di affidamento (troppe volte ancora necessario) del soggetto grave
all'istituto, come unica risposta alla mancanza di risorse adeguate sul
territorio.
Vanno allora valorizzate modalità di
intervento quali: comunità di vita, comunità-alloggio, comunità di pronto
intervento, famiglie affidatarie, piano di assistenza domiciliare, centri
educativi diurni, collegamento di famiglie con amici, nello spirito ad esempio
di «Fede e Luce». Tali interventi hanno il merito culturale e sociale di riportare
sul territorio le problematiche dell'handicappato grave, di non sradicarlo dal
suo contesto di vita, di creare adeguata solidarietà
alle famiglie, di sviluppare una forte creatività e integrazione, di porre in
primo piano interrogativi che cercano di capire cause e responsabilità per
poter sviluppare un concreto progetto di prevenzione. E, soprattutto,
rispondono a una visione di umanità, solidarietà,
rispetto della vita, che raggiunge una profonda radicalità.
Una comunità che non si pone questi obiettivi, pur se
sono di difficile attuazione, non esprime e non interpreta tutta la carica di
solidarietà che l'umanità sofferente invoca e che può sorprendentemente aiutare
a scoprire.
Ho più volte affermato l'urgenza di «dare voce a chi
non ha voce»: nel nostro caso significa aprire e
difendere, per i fratelli con handicap gravi e per le loro famiglie, orizzonti
di vita proprio sul luogo e nell'ambiente in cui vivono.
Tutto questo ha evidentemente bisogno di un supporto
legislativo e istituzionale, di un trasferimento di risorse economiche
indirizzate a tale priorità sociale e al decisivo criterio di salvaguardare e
proteggere maggiormente i più deboli.
Sono convinto che non è ancora
stato fatto tutto quanto si poteva e che, da parte nostra, è necessario
contribuire a superare la sfiducia e la stanchezza che emerge da più parti. Non
possiamo proclamare il valore intangibile della vita senza poi impegnarci a
qualificare, in umanità e dignità, quella dei più deboli che vivono al limite della disperazione o della solitudine o dell'abbandono!
Gli handicappati fisici
La seconda situazione riguarda la possibilità, per
gli handicappati fisici, di muoversi liberamente con il conseguente
abbattimento di ogni tipo di barriere architettoniche.
Sono ancora troppi gli ostacoli presenti nel tessuto
urbanistico e dei trasporti, nelle nostre città; mancano una cultura e una
progettazione che tengano conto dei riferimenti legislativi.
Credo che, a monte, ci sia
bisogno di un «pensare senza barriere», quindi di un modello di riferimento
che non sia soltanto il cittadino sano.
Possiamo allora dire che il
problema dell'abbattimento delle barriere architettoniche e di una conseguente
progettazione urbanistica - pubblica e privata - senza barriere, è una scelta
di civiltà significativa.
Tale risoluzione potrà incidere positivamente sulla
qualità di vita di tutti i cittadini, non soltanto degli handicappati.
L'inserimento degli handicappati nella scuola
Il principio, sancito con apposita
legislazione, di inserire gli handicappati nella scuola di tutti, sta vivendo
una fase di difficoltà, con il pericolo di impoverire una così importante e
significativa conquista socio-culturale.
Molte famiglie esprimono la preoccupazione di un
inserimento che rischia di trasformarsi in «parcheggio», perché non aiuta a
sviluppare le potenzialità di socializzazione e di
conoscenza dei loro figli handicappati.
Non tocca certamente a noi
individuare soluzioni e proposte per il sistema scolastico. Tuttavia la comunità cristiana, con il suo apporto
di qualificato e motivato volontariato, è chiamata a dare il proprio contributo
per sostenere un così alto obiettivo di natura sociale.
Si tratta quindi di conoscere i soggetti, di creare con loro dei rapporti, di sostenere le famiglie
nella fatica quotidiana e nelle giuste richieste che avanzano, di creare
insomma quel clima di solidarietà attiva che può diventare un'importante
premessa per una reale integrazione.
Anche i genitori che partecipano alla vita scolastica
dovrebbero educarsi ed educare i figli ad accettare e
facilitare l'obiettivo dell'inserimento scolastico degli handicappati.
L'handicappato a scuola con gli altri ragazzi, lungi
dal frenare il cammino scolastico - come alcuni temono - può in realtà essere
una feconda possibilità di crescita umana e di sensibilizzazione a valori di uguaglianza e di solidarietà.
Il diritto al lavoro dell'handicappato
Mi permetto, infine, di richiamare una questione molto sentita e che è fonte di crescente preoccupazione
negli ultimi tempi. Si tratta del diritto al lavoro, oggi gravemente
compromesso per i portatori di handicap. Il problema è esemplare e centrale se
affermiamo la dignità dell'handicappato, e non deve sembrarci irrilevante e
inevitabile di fronte alla crisi attuale del lavoro.
In diverse occasioni ho insistito sulla necessità di
considerare il lavoro come un'autentica possibilità di crescita umana, e non
unicamente come possibilità di guadagno e di produzione materiale. Il Santo
Padre Giovanni Paolo II ci ha ripetutamente richiamati a questo proposito.
Se dunque il lavoro è un valore che
contribuisce a realizzare la persona umana, esso va difeso e protetto anche là
dove l'autonomia umana è più compromessa. E l'handicappato che possiede residue capacità lavorative ha più che mai esigenza di lavorare.
Tempo fa, in occasione di un Convegno promosso dalla
Caritas per discutere su un intervento legislativo
che riduceva drasticamente il diritto al lavoro dell'handicappato, ho ribadito con forza l'insegnamento dell'enciclica «Laborem Exercens» là dove
affermava appunto questo diritto. Da allora, si è fatto molto cammino per
sensibilizzare le coscienze ma gli interventi ministeriali
hanno continuato a perseguire la strada di ridurre, di fatto, la possibilità
del lavoro, anzi escludendolo per gli handicappati psichici.
Si è così creata una situazione intollerabile per
tante famiglie e per moltissimi handicappati che vedono riconosciuto, al
massimo, il proprio diritto ad avere «monetizzato» l'handicap.
So perfettamente che la cultura economica più diffusa
e l'attuale crisi dell'occupazione comprendono a fatica le ragioni della
nostra difesa. Essa però si basa anche su una ragione sociale incontestabile.
Perché difendere e proteggere socialmente la produttività dell'handicappato,
trasferire le risorse economiche dell'area assistenziale
a quella del sostegno del lavoro, significa compiere un'operazione economica
saggia.
Anche per il problema del lavoro, si tratta dunque di
tradurre in pratica tutto quanto è stato detto nell'anno internazionale
dell'handicappato. Dobbiamo impedire ad ogni costo che il portatore di
handicap si veda costretto a chiudersi in casa più di altri, vedendo frustrate
le possibilità di recupero della sua dignità sociale.
Conclusione
Ho segnalato alcuni dei problemi che interpellano la
società civile affinché non si consolidi una caduta di
attenzione per la condizione esistenziale dei fratelli handicappati sia a
livello politico istituzionale sia a livello sociale.
Noi avvertiamo che la difesa della dignità della
persona ha bisogno di un grande consenso culturale e
sappiamo che la Regione lombarda, ad esempio, è impegnata in un generoso
compito di attuazione di una nuova norma nel campo socio-assistenziale.
Auspichiamo quindi che essa contribuisca a favorire un intervento sempre più globale, in coerenza alla natura del bisogno, e che si
sviluppi un privilegio dei servizi territoriali alla persona, una verifica
puntuale e rigorosa sulla qualità delle prestazioni offerte, approntando
anche un piano di sostegno alle famiglie e valorizzando la solidarietà di
base.
Ci preoccupa, infatti, una certa redifinizione
della «cronicità» e della «irrecuperabilità» da parte
della cultura e dei sistemi sanitari vigenti, che finisce per negare risorse
professionali, strumentali e finanziarie del comparto sanitario ad un bisogno
chiaramente sanitario. Perché
la persona gravissima, con poche possibilità di recupero fisico, non deve aver
diritto ad essere seguita in tutti i suoi bisogni, compresi proprio quelli
sanitari? La questione è fondamentale e si radica in quella difesa della vita
della persona che, dal momento del concepimento fino al suo ultimo istante, va
qualificata e non relegata a questione secondaria.
La comunità cristiana è chiamata a testimoniare
questo impegno. Essa, per prima, si deve interrogare se l'attuale ritardo
nelle istituzioni non sia lo specchio pure di una sua disattenzione sociale e
formativa.
La partecipazione dei cristiani e delle realtà
ispirate ai principi cristiani, va qualificata, inoltre, ai vari livelli di
programmazione e gestione, in termini di attiva progettualità e non solo di presenza e di difesa dei
diritti. Occorre, a tal fine, diffondere conoscenza, strumenti e competenze,
imparare a misurarsi con continuità con le situazioni
concrete delle persone handicappate che vivono sul territorio, avviare un
processo di formazione permanente del volontariato. Occorre orientare i
giovani verso professioni a contenuto sociale e sanitario, in un'ottica di interprofessionalità, di legame con le istanze emergenti
dal territorio, di attenzione alle persone maggiormente colpite.
Là dove viene celebrata
l'Eucaristia - pane spezzato per la vita del mondo -, non può non esserci il
risveglio e il richiamo incessante alla dimensione dell'accoglienza, a
diventare luogo ospitale particolarmente per i fratelli che vivono ai margini
della società e per coloro che sono nel dolore e in difficoltà.
Ce lo chiedono gli handicappati con accorata urgenza.
(*) Arcivescovo di Milano.
www.fondazionepromozionesociale.it