Prospettive assistenziali, n. 39, luglio-settembre
1977
DECENTRAMENTO,
UNITA LOCALE DEI SERVIZI E PARTECIPAZIONE: REGOLAMENTO DEL COMUNE DI TORINO E
PROBLEMI GENERALI
ALBERTO DRAGONE
Nel n. 35 di Prospettive Assistenziali avevamo
analizzato la legge nazionale n. 278 dell'8-476 «Norme sul decentramento e la partecipazione dei cittadini nella amministrazione del comune» e la
proposta di regolamento presentata dalla Giunta comunale di Torino. A distanza
di un anno crediamo opportuno aggiornare i lettori rispetto a questo problema,
non solo con il resoconto di quanto avvenuto da allora a Torino, ma anche
tentando di fare il punto del dibattito politico su questo problema,
soprattutto per gli aspetti che riguardano più direttamente i rapporti tra
decentramento e Unità locale dei servizi.
Proposta della Giunta
e regolamento definitivo
Da quando, nel giugno del '76,
Si tratta ora di fare un resoconto
di quanto è avvenuto da allora fino all'approvazione del testo definitivo.
Innanzi tutto è opportuno sottolineare l'ampio impegno espresso dai movimenti di base
torinesi nella fase di consultazione, per migliorare
quanto possibile il testo di regolamento predisposto dalla Giunta.
L'obiettivo era quello di far
emergere nel regolamento il riconoscimento di ruolo autonomo al movimento di
base, alla partecipazione. Come infatti ricordavano le
ACLI in un loro documento del settembre '76: «... gli attuali elementi di nuova
statualità o comunque di rivitalizzazione di
istituzioni statuali sono stati possibili grazie al nascere ed allo svilupparsi
di un forte movimento di partecipazione, senza il cui stimolo nessuno degli
attuali processi di democratizzazione e di decentramento democratico delle
istituzioni si sarebbe aperto. Processi in sé positivi
e dalle ACLI sempre auspicati e considerati come obiettivi da perseguire ma
che possono isterilirsi, trasformarsi in strumenti di pura cattura ed
organizzazione del consenso e comunque di semplice efficientismo anziché di
reale cambiamento.
«L'unica vera garanzia contro questi
rischi di involuzione è per noi rappresentata dallo
sviluppo e dalla capacità di incidere delle organizzazioni sociali,
sindacali, dei gruppi di base che si riconoscono e si sono riconosciuti appieno
nel movimento di partecipazione autonomo e dialettico in questi anni.
«Per noi esso è oggi più che mai,
anche per quanto riguarda queste note, il riferimento centrale per sviluppare
osservazioni critiche e proposte. È fra l'altro questo movimento di partecipazione,
di cui le ACLI sono parte, che ha innescato nell'area metropolitana torinese e
nella città le lotte concrete (piano dei servizi, uso delle
aree industriali, metropolitana, centro direzionale, seconda pista
dell'aeroporto di Caselle, città satellite di Borgaro,
autostrade Torino-Pinerolo e Torino-Oulx,
ecc.) per cambiare nella nostra realtà la tipologia dello sviluppo.
«Le ACLI Torinesi proprio in queste
lotte condotte per mutare radicalmente il modello di sviluppo della città di
Torino, subalterno agli interessi del monopolio, nel
contesto della Regione e dell'area metropolitana, hanno ormai da molto tempo
rilevato come:
«- il confronto costante e
dialettico, correttamente favorito e non solo accettato o subito, con le forze
sindacali e sociali nonché coi gruppi di
partecipazione sia essenziale non solo per un modo di governare diverso che si
caratterizzi per un metodo più democratico, ma anche per grossi obiettivi alternativi
allo sviluppo socio-economico della città che si vuole caratterizzato dal
decongestionamento urbano dell'area metropolitana torinese e dal riequilibrio
tra Regione e polo di Torino;
«- occorra salvaguardare e
valorizzare, nella nuova fase aperta dal decentramento, il prezioso patrimonio originale, accumulato in questi anni dai
comitati spontanei di quartiere; patrimoni che costituiscono una testimonianza
viva della fecondità delle esperienze autonome di partecipazione e di lotta,
tipiche del movimento di base. Il decentramento e l'istituzione dei consigli di quartiere deve dunque garantire gli strumenti
necessari per esperienze autonome di partecipazione che possano non solo
essere continuate ma svilupparsi adeguatamente».
Le fasi principali attraverso cui si
è arrivati alla stesura definitiva di regolamento, approvata il 1° febbraio
1977, possono essere così sintetizzate:
a) richiesta che la consultazione,
pur iniziando, come previsto dalla Giunta, nel mese di luglio, termini alla
fine di settembre, per permettere un dibattito realmente approfondito nella
città e più allargato rispetto alle ipotesi iniziali;
b) movimenti di base, Coordinamento
dei comitati di quartiere e Sindacati precisano, a mano a mano che il
dibattito interno si approfondisce, le proprie
richieste di modifica;
c) il PSI,
alla ricerca di un nuovo rapporto con i propri elettori ed in genere di un
nuovo ruolo all'interno della sinistra, operando trasformazioni sia interne
(nel mese di luglio cambia la segreteria provinciale) che esterne, recepisce
la richiesta di base e chiede anch'esso lo slittamento di tempi della
consultazione mentre si impegna al massimo riconoscimento della partecipazione,
forse al di là delle possibilità lasciate dalla legge nazionale (vedi la
possibilità di utilizzare il referendum abrogativo e consultivo);
d) approvazione, l'11 ottobre, da
parte del Consiglio comunale di un regolamento
sostanzialmente rispondente alle richieste emerse durante la consultazione;
e) provvedimento del CO.RE.CO. dell'8
novembre che annulla la delibera comunale, chiedendo modifiche a ben 17 dei
34 articoli in cui era articolato il regolamento (1);
f) in data 1° febbraio 1977 il
Consiglio comunale approva (delibera n. 196) la seconda stesura di
regolamento che tiene conto delle osservazioni del CO.RE.CO.;
g) ancora il CO.RE.CO., in data 1° marzo, blocca la delibera comunale, con
motivazioni quanto mai sottili: un «anche» di troppo all'art. 13 e un
«particolare» che non dovrebbe esserci all'art. 26;
h) il Consiglio comunale modifica il
testo come richiesto dal CO.RE.CO. per evitare inutili ed incredibili ulteriori ritardi e finalmente per la metà di marzo Torino
ha il suo regolamento, con cui andare alle elezioni.
____________
Vedremo ora di mettere a confronto
il testo previsto dalla prima bozza presentata dalla Giunta e quello approvato
definitivamente dal Consiglio comunale l'1-2-77 (2), tenendo presente le
modifiche esistenti rispetto al testo dell'11 ottobre, certamente più avanzato
di quello definitivo e tenendo anche conto che li
esamineremo essenzialmente per gli aspetti che riguardano la partecipazione.
BOZZA DELLA GIUNTA (giugno '76) |
REGOLAMENTO APPROVATO l'1-2-77 |
Principi generali sulla partecipazione |
|
Il Consiglio di quartiere
«istituisce rapporti di consultazione e di collaborazione con i rappresentanti
dei Sindacati dei lavoratori, delle organizzazioni di categoria, di associazioni di altri organismi sociali». |
Il Consiglio di quartiere
«programma e coordina le proprie attività riconoscendo particolare rilevanza
ai rapporti con i comitati di quartiere, con i consigli sindacali di zona e
di fabbrica, con gli organi collegiali della scuola
e con ogni altra forma associativa democratica e rappresentativa presente
nel quartiere, al fine di favorire ed estendere la partecipazione dei
cittadini alla formazione delle decisioni e al controllo sulla gestione dei
servizi del quartiere». |
Istituti della partecipazione (3) |
|
Non previsti in quanto tali, ma
come iniziativa dei Consigli di quartiere: - le assemblee ordinarie (due all'anno) e straordinarie di cittadini del quartiere
convocate dai Consigli di quartiere. (In merito ai punti precedenti l'art.
18 prevede che «il Consiglio di quartiere assuma di volta in volta, le più
opportune iniziative in relazione all'esito delle consultazioni»); |
Sono previsti come distinti dagli
organi del decentramento e indicati nei seguenti: - le assemblee di cittadini del
quartiere e le consultazioni dei cittadini e delle forze sociali sono indette
«per consentire la più larga partecipazione al processo di formazione dei
provvedimenti» e possono essere convocate dal Consiglio
di quartiere o su richiesta del Consiglio comunale, da una Commissione di
lavoro del quartiere, di una Commissione consiliare comunale, di 300
elettori del quartiere, di comitati spontanei di quartiere, delle
organizzazioni sindacali, degli organi collegiali delle scuole e di altre
forze sociali che presentano richiesta sottoscritta da 300 elettori del
quartiere. Le assemblee sono obbligatorie per
la discussione dei regolamenti proposti dal Consiglio di quartiere, per la
stesura del rapporto sullo stato e sui -problemi del quartiere e
per la predisposizione del piano di lavoro del
quartiere; - le proposte di deliberazione,
che possono essere presentate ai Consigli di quartiere da
almeno 300 elettori e «vengono poste all'ordine del giorno del
Consiglio di quartiere entro 40 giorni dalla presentazione, sentito il parere
della Commissione competente. Il primo firmatario della proposta
o un suo delegato, ha il diritto di esporla agli organi del quartiere»; |
- presentazione
di petizioni scritte e di proposte di deliberazione al Consiglio di
quartiere firmate da almeno 1/10 degli elettori del quartiere. Il Consiglio di quartiere deve
esprimersi entro 60 giorni dal ricevimento e può convocare una
assemblea se decide di trasmetterla per competenza al Consiglio
comunale. |
- le petizioni, sottoscritte da
almeno 1/10 degli elettori «sono poste all'ordine del giorno del Consiglio di quartiere che può deliberare in merito o, se del caso,
formulare al riguardo pareri da trasmettere al Consiglio comunale « il quale
deve esprimere le proprie determinazioni entro 60 giorni»; - le interrogazioni che possono
essere presentate da almeno 100 elettori. |
Informazioni e notizie |
|
Entro 3 mesi dall'elezione dei Consigli di quartiere,
all'interno degli uffici comunali, sarà istituito apposito
ufficio volto a fornire ai quartieri informazioni, notizie, dati, atti e
documenti necessari per lo svolgimento dei loro compiti. Le
deliberazioni e gli avvisi di convocazione della Giunta e del Consiglio di
quartiere debbono essere affissi, oltre che nella Casa Comunale,
anche nei centri civici». |
«Il Comune e i Consigli di
quartiere curano la -più ampia informazione dei cittadini sui rispettivi
programmi e realizzazioni, nonché sui dibattiti
svolti nei rispettivi consigli». «Ad ogni elettore del quartiere
deve essere garantita la più ampia libertà di informazione,
intesa come diritto alla conoscenza di tutti quei dati che riguardano
l'interesse collettivo, o che sono necessari per lo svolgimento di attività
di lavoro e di ricerca concernenti il quartiere. L'accesso alle informazioni
avviene tramite le Commissioni di quartiere». |
Commissioni di lavoro dei Consigli di quartiere |
|
Il Consiglio di quartiere entro
due mesi dalla sua elezione stabilisce i criteri di funzionamento e di
nomina per l'istituzione di Commissioni di lavoro su determinati settori di intervento e su specifici argomenti. Le Commissioni di lavoro devono
essere presiedute da un consigliere. |
Il Consiglio di quartiere entro
due mesi dalla sua elezione stabilisce i criteri di composizione e di
funzionamento delle Commissioni di lavoro distinte
in: - permanenti che devono garantire
il costante collegamento tra attività istituzionale e istanze
partecipative: pertanto sono aperte al contributo dei cittadini e delle
organizzazioni democratiche operanti nel quartiere; - non permanenti, per finalità
particolari. Non è precisato chi debba essere il coordinatore delle Commissioni di lavoro. |
Centri civici |
|
Il Centro civico assolve la funzione di decentrare a livello di quartiere
l'attività amministrativa e dei servizi comunali. Ogni centro civico sarà dotato di
strutture idonee ad agevolare la partecipazione dei cittadini alla vita
della comunità di quartiere. |
Il Centro civico è la sede dove
trovano ubicazione gli organi del decentramento. In esso
sono depositati i verbali contenenti gli atti degli organi del decentramento,
perché possano essere consultati dai cittadini. Il Centro civico è dotato di
strutture idonee ad agevolare la partecipazione dei
cittadini alla vita della comunità del quartiere ed è aperto alle forze
sociali, politiche e culturali democratiche e rappresentative operanti
nell'ambito territoriale del quartiere. Al fine di raggiungere le medesime finalità, il Consiglio di quartiere dispone
dell'uso dei fabbricati di proprietà civica assegnati ad esso, che possono
essere concessi alle organizzazioni predette. |
Valutazioni specifiche
e generali
Per quanto lo schema sia sintetico è evidente che il regolamento è stato
notevolmente migliorato durante la consultazione e nonostante gli arretramenti
seguiti alle osservazioni del CO.RE.CO. non c'è dubbio che può rappresentare
una buona base per impostare il lavoro dei futuri Consigli, a meno che le
indicazioni del regolamento, come purtroppo si sta già verificando in questi
mesi di «intervallo», non vengano ignorate nei provvedimenti dei singoli assessorati.
Fra l'altro è chiaro che l'approvazione del regolamento è solo il primo passo per
l'avvio dei Consigli: rimangono da precisare la data delle elezioni (si era
parlato dell'autunno, in concomitanza delle elezioni dei distretti scolastici,
ma già circolavano voci insistenti di ulteriori slittamenti a primavera, se
non addirittura al 1980!), e la predisposizione delle delibere quadro fondamentali
perché i consigli possano poi operare uniformemente tra loro e rispetto alla
politica comunale.
Ed è chiaro altrettanto che il
movimento di base dovrà essere molto attento in questa fase, per evitare che le
conquiste acquisite sul regolamento vadano via via scomparendo negli altri atti che riguardano la
creazione dei Consigli di quartiere.
Fin qui la cronaca dei fatti
torinesi, da cui vorremmo prendere lo spunto per alcune considerazioni
generali, che tengano conto del dibattito che sta avvenendo a livello
nazionale su questi problemi.
In primo luogo non ci sembra inutile
risottolineare quale deve essere per noi il rapporto tra decentramento e partecipazione.
Schematicamente (4) ricordiamo che se entrambe le
cose fanno parte di un unico processo di cambiamento della realtà
istituzionale del paese nel senso di un nuovo rapporto delle articolazioni
dello Stato tra di loro e nei confronti del cittadino, esse non sono
assimilabili o identificabili perché il decentramento rappresenta la
modificazione istituzionale dell'apparato pubblico, mentre la partecipazione è
essenzialmente un metodo di governare la cosa pubblica, nel senso di riconoscere
alle organizzazioni autonome e spontanee dei cittadini (sindacato, consigli di
zona, comitati di quartiere, associazioni, ecc.) un ruolo di costante
confronto e controllo sulla gestione delle istituzioni.
Questo significa che il
decentramento può favorire la partecipazione in quanto comporta l'individuazione
di un livello gestionale più vicino e più «a
dimensione» del cittadino, ma certamente il Consiglio di quartiere non può
essere «organo che esprime e promuove la partecipazione popolare» come invece
ha affermato Marcello Stefanini, membro del Comitato
Centrale del PCI, nella sua relazione generale del convegno nazionale del
partito comunista dal titolo «Decentramento e partecipazione: l'iniziativa dei
comunisti per la attuazione della legge sui consigli
di circoscrizione», svoltosi a Bologna il 19-20 novembre 1976. Infatti se la partecipazione è momento autonomo e
spontaneo, non può certo essere né promossa né organizzata, né tanto meno
istituzionalizzata.
Questa affermazione non parte da
concezioni «separatiste» nei confronti dello Stato, tipiche di certe componenti anche consistenti dell'area cattolica o
democristiana (5).
Concezioni, tra l'altro, che nascono
non a caso oggi, quando si è ormai avviata, speriamo irreversibilmente, la conquista delle istituzioni da parte
della classe operaia, attraverso le vittorie elettorali dei partiti della sinistra.
Ma è proprio qui
il punto: la conquista delle istituzioni deve essere attuata tramite le organizzazioni
che per questo sono nate: i partiti. Al movimento, crediamo, spetta un altro ruolo, sganciato
dai limiti oggettivi caratteristici di chi deve gestire: i limiti di potere (condizionamenti nazionali e
internazionali, interessi di gruppi economici, interessi di partiti, limiti
ideologici, ecc.); giuridici (ad
esempio limiti legislativi, funzione spesso repressiva
degli organi tutori, mancato o incompleto trasferimento di competenze, ecc.); finanziari (connessi per lo più alla
negativa politica finanziaria del potere centrale nei confronti delle autonomie
regionali e locali); burocratici
(spinte corporative degli apparati amministrativi e tecnici, ecc.). Un ruolo
di continua pressione popolare, di verifica e di controllo, non per sfiducia
nei partiti o nelle istituzioni, ma perché solo questa eterna
dialettica significa stato democratico e popolare, partecipazione autentica e
non cattura del consenso.
Inoltre non bisogna dimenticare che nessuno
ha la verità in tasca e che la conquista delle istituzioni se è incominciata, è
ancora lontana dall'essere finita.
L'autogestione
Ci sembrano in questo senso un po' futuristico-demagogiche certe altre proposte di autogestione che provengono dal PSI, come nel caso di
quanto affermato dal compagno Artali, responsabile
dell'Ufficio partecipazione ed autogestione del partito socialista al
seminario sul decentramento, svoltosi ad Arezzo (6): «l'autogestione coincide
con la democrazia realizzata nel e dal socialismo e quindi la proposta
dell'autogestione è la proposta della società socialista». Di qui quasi che la
società socialista ci fosse già (ci scusi Artali per
la forzatura di interpretazione, per altro leggera)
ecco, per esempio, una indicazione concreta per i regolamenti dei Consigli di
quartiere: «un altro assai importante momento di "partecipazione e di autogestione
può essere previsto attraverso l'istituzione dei Comitati di gestione dei
servizi e dei beni sociali presenti nella circoscrizione».
Ci sembra quindi prioritario oggi
alla prosecuzione della riappropriazione dello Stato
da parte della classe operaia attraverso i partiti e il rafforzamento del
movimento di base che, di concerto con essi se
possibile, ma con assoluta autonomia, si crei tutta la mobilitazione necessaria
per andare avanti su questa strada.
Da queste considerazioni conseguono
due fatti: da un lato l'istituzione dei Consigli di quartiere non deve
significare la fine dei comitati spontanei e delle altre organizzazioni che
storicamente si sono formate a livello di territorio, dall'altro le liste
elettorali di quartiere dovrebbero rispecchiare questa impostazione
ed essere quindi di partito, a parte i casi in cui a livello di territorio si
siano consolidati precedentemente «cartelli» unitari perché in questo caso non
avrebbe senso scomporre artificiosamente realtà politiche significative. Ma altrove
si dovrebbe evitare di «dissanguare» il movimento di
base, con la corsa all'accaparramento del «basista» da inserire nelle liste di
cartello, oppure con la creazione, anche qui artificiosa, di liste «civiche» in
cui immettere quanti hanno portato avanti l'attività di base in questi anni.
Con questo non si vuole
evidentemente dire che nessuno dei movimenti di base
deve presentarsi alle elezioni, o che chi si presenta è cattivo; solo che
bisogna avere la chiarezza di scegliere a che livello operare: se a quello di
base o a quello di istituzione. Sono due livelli diversi, e non bisogna
confonderli, pena l'immobilismo dell'uno o dell'altro.
Consigli di quartiere
e Unità locali
E veniamo all'ultimo punto, forse il
più interessante per i lettori di Prospettive
assistenziali, e cioè il rapporto tra Consigli di
quartiere e Unità locali.
Come avevamo
già affermato nell'articolo precedente, i movimenti di base impegnati nel settore
dei servizi hanno elaborato una ipotesi di riforma che ha come obiettivo la
creazione delle Unità locali di tutti i servizi, con un unico organo di governo
responsabile della gestione dei servizi stessi, nella prospettiva della
rifondazione dei comuni.
Di qui l'esigenza di suddividere il
territorio regionale in area di intervento aggregando
i Comuni piccoli e disaggregando quelli troppo grossi in modo da avere una
certa quale uniformità tra le diverse zone.
Per mantenere il principio della individuazione di un unico ambito territoriale per i
diversi interventi, i movimenti di base hanno sempre identificato il
decentramento amministrativo dei grossi comuni con la suddivisione del
territorio in Unità locali e la creazione del nuovo livello di gestione, e la
partecipazione con il nuovo metodo di gestione dei servizi. Questo tipo di rapporto
non è preso in considerazione dalle forze politiche quanto invece sarebbe necessario.
Sia nella relazione di Marcello Stefanini al convegno del PCI di cui abbiamo già riferito,
che nella documentazione relativa al seminario sul
decentramento del PSI (vedi la nota n. 6), i riferimenti al rapporto
decentramento-Unità locali sono piuttosto scarsi.
In entrambi i documenti si parla di
decentramento inserito all'interno di un progetto più complessivo di riforma
della struttura statale, si accenna in varie parti ai compiti delle Regioni,
dei Comprensori, degli altri Enti territoriali (si fa ancora riferimento alle
Province, pure in un discorso di prospettiva, quasi ignorando il dibattito da
tempo in corsa sulla loro eliminazione), ma quando si arriva alle Unità locali
diventa difficile capire quali indicazioni politiche vengano date.
Il PSI sbrigativamente afferma che «per
garantire un effettivo potere di proposta, di controllo e di gestione è
opportuno stabilire, nei vari regolamenti, che il Consiglio di quartiere
esercita i propri poteri anche in relazione agli atti degli enti para-comunali
e degli enti strumentali, tipo consorzi».
Stefanini invece, al
paragrafo tredici della sua relazione afferma: «Tale
esigenza si manifesta anche quando si affrontano i problemi della gestione di
certi servizi. Se la gestione deve essere
democratica, essa deve far capo ai Consigli di circoscrizione. Eppure, in
omaggio al criterio di efficienza, o per obiettive
esigenze di gestione dei servizi a livello intercomunale, talvolta i Comuni
costituiscono Consorzi, cioè organizzano strumenti di gestione che però non
hanno un carattere democratico, non consentono la partecipazione dei cittadini,
settorializzano di nuovo il potere globale ed unitario
che deve avere il Comune e che è condizione di efficienza. L'istituzione dei
Consigli di circoscrizione pone l'esigenza di rivedere non solo la legislazione
in questa materia, ma anche l'opportunità di farvi
sempre ricorso. Basti pensare ai problemi che si pongono nel rapporto tra
compiti del Consiglio di circoscrizione e Consorzi socio-sanitari. La
diffusione dei Consorzi lungi dal facilitare la partecipazione
democratica, riduce l'autonomia comunale, vincola il bilancio tagliandolo in
settori non più mutabili e più sono i Consorzi più il bilancio è vincolato in
"strisce" tra loro separate e ciò non consente certo un controllo
democratico, una elasticità al bilancio che è condizione per il realizzarsi
concreto della partecipazione. A questo proposito è forse necessaria una maggiore
coerenza nelle scelte che si compiono ai diversi livelli, rispetto
all'ispirazione unitaria del processo di trasformazione democratica dello Stato che guida la nostra azione politica».
Con lui concordiamo solo per l'ultima
frase, perché è evidente che all'interno del PCI, se non altro, c'è ancora
molta confusione di idee sulle prospettive di
rifondazione delle autonomie locali.
Non si vede
infatti come sia possibile esaltare l'autonomia comunale quando per
esempio in Piemonte (ma il discorso è generalizzabile a tutte le altre
Regioni) su 1209 comuni complessivi, Torino conta circa 1.200.000 abitanti, 7
hanno una popolazione compresa tra le 50.000 e le 110.000 unità, mentre ben
1094 contano meno di 5000 anime!
Parlare di autonomia
per questi Comuni significa condannare le amministrazioni e la popolazione a
decidere solo sulle panchine e sulle fognature, tagliandoli realmente fuori da
ogni prospettiva di reale autonomia, che non può non passare attraverso la
creazione dei Consorzi, come primo passo verso la rifondazione del Comune su
un ambito economico, geografico, demografico che ne giustifichi l'esistenza.
Che oggi, transitoriamente, il
Consorzio sia un ente «indiretto» e quindi meno
democratico del Comune è vero, ma partecipare alla decisione del colore con
cui verniciare le panchine non è certamente prospettiva solleticante.
Oltretutto non è con gli Enti eletti
direttamente che si garantisce la partecipazione
(trent'anni di amministrazioni comunali a prevalenza DC ne sono un chiaro
esempio), ma solo, e ritorniamo al discorso di prima, attraverso l'impegno
politico di tutti gli amministratori, siano essi eletti direttamente o no dalla
popolazione, di avere un corretto rapporto di confronto con le organizzazioni democratiche
di base.
Inoltre i timori di settorializzazione cui accenna ancora Stefanini
non hanno più senso se il Consorzio non è visto come ente tecnico costituito
per ogni singolo problema, ma nell'ottica dell'Unità
locale, e cioè come «proposta politico-organizzativa
per l'unificazione (e non il semplice coordinamento) di tutti i servizi di base
che riguardano i cittadini intesi come singoli e parte della collettività. Come
indicazioni di massima nell'Unità locale dovrebbero confluire i servizi assistenziali (fino al superamento della concezione stessa
dell'assistenza), sanitari, abitativi, prescolastici e scolastici, culturali,
ricreativi, sociali ecc., in un assetto globale del territorio. I riferimenti
di fondo assunti per la definizione dell'Unità locale
sono:
- risposta globale
alle esigenze dei cittadini e della popolazione;
- partecipazione intesa come
determinazione collettiva dei bisogni, acquisizione di tutti gli elementi
necessari, possibilità di elaborazione e di iniziative
autonome da parte dei gruppi interessati con esclusione di ogni loro gestione
diretta dei servizi o di cogestione, confronto con il minor numero possibile di
controparti o interlocutori» (7).
Se invece si punta, come vuole
Si tratta quindi di fare chiarezza
su questo punto per evitare che altrove si verifichi
quanto sta avvenendo a Bologna. Infatti nella
relazione degli assessori Loperfido e Formaglini al Consiglio comunale del 27-5-77 (n. 5 dell'ordine
del giorno «Consorzi socio-sanitari dell'area metropolitana»), leggiamo: «Il
Quartiere è il Comune, la sua espressione decentrata ed ha quindi, in sede
decentrata, rispetto al Consorzio, gli attributi del
Comune. Il suo ruolo si definisce pertanto su questi attributi, arricchendosi
di quelli che gli sono propri: di promotore e di referente della partecipazione
dei cittadini; di perno della articolazione della
gestione sociale dei servizi, dalla quale potrà trarre indicazioni, suggerimenti,
critiche utili alla formazione dell'indirizzo politico e della programmazione.
Sul piano delle competenze, se riconosciamo nel Consorzio un organismo di gestione unilaterale di tutti i servizi e gli interventi
previsti dal relativo Statuto, ai Consorzi vanno trasferiti tutti i compiti di
natura sanitaria e socio-assistenziale, i mezzi ed il personale concernente e
ai Consorzi va devoluta la responsabilità di amministrazione di tutto ciò. Di
tale gestione e amministrazione il Consorzio risponde politicamente agli Enti
consorziati e in particolare ai Quartieri. I Quartieri svolgeranno il ruolo di orientamento e di verifica a partire dalla e con il
coinvolgimento della partecipazione democratica che costituisce la loro
fondamentale ragione di essere. A questo fine riteniamo essenziale la funzione
della Commissione sicurezza sociale di quartiere sia in quanto strumento
specializzato del Consiglio di quartiere sia in quanto leva di promozione della partecipazione, anche organizzata, intorno
ai servizi (e particolarmente quelli che funzionano sul territorio del
Quartiere). È forse utile precisare peraltro (soprattutto per esigenze di
chiarimento che derivano dalla realtà in essere, frutto a loro volta di realtà
storica) che non deve farsi rientrare nei compiti
della commissione di quartiere la "direzione" del personale operante
nei servizi che, viceversa, deve rispondere esclusivamente al Consorzio. I
rapporti della Commissione o comunque del Quartiere
con tale personale devono essere un derivato del rapporto politico tra gli
organi di Quartiere e l'organismo consortile».
Si arriva cioè
all'assurda situazione di aver decentrato poteri ai quartieri ed ora, dato che
essi non coincidono con il Consorzio per la gestione dei servizi (che nel caso
di Bologna oltretutto è un consorzio Comune-Provincia), essi vengono privati
dei poteri acquisiti per cederli al Consorzio.
La soluzione corretta ci sembra
quindi, come già accennato, quella di identificare il decentramento con le
Unità locali (come a Torino dove i 23 quartieri corrispondono alle 23 Unità
locali, oltre che ai 23 distretti scolastici) per mantenere sempre identiche
le varie suddivisioni territoriali.
Consorzi e
decentramento
La conseguenza è che il
decentramento ha significato solo nei casi di città che comprendono più Unità
locali. Nei casi invece in cui più Comuni costituiscano una Unità
locale, e quindi per i Comuni piccoli, oltre che per molte cittadine oltre i
40.000 abitanti che in base alla legge nazionale «potrebbero» decentrarsi, ci
sembra molto valido quanto affermato, pur sinteticamente, nell'articolo di
«Controcittà» (8) intitolato «Quartieri e consorzi»:
«Creare un consorzio significa
aggiungere le competenze dei Comuni che lo compongono in quest'unica struttura.
E le principali competenze da accentrare riguardano
proprio i servizi, che sono anche i principali settori oggetto di un eventuale
decentramento. Non si vede quindi come sia possibile
decentrare ai Consigli di quartiere ciò che invece è necessario aggregare nel
Consorzio. È per questo motivo che riteniamo, oggi, inconciliabili le due
strategie, e che sosteniamo l'assoluta priorità della creazione dei consorzi. A meno che dietro questa apparente confusione d'idee, esista
un altro disegno politico, e cioè il pensare che le due cose siano
contemporaneamente realizzabili: con il Consorzio si accentrano competenze e
gestione, con il decentramento, si "realizza", istituzionalizzandola,
la partecipazione democratica dei cittadini. Comunque,
la posizione di "Controcittà" non può essere che di un totale
dissenso, perché, come abbiamo più volte affermato "La partecipazione, in
quanto espressione e movimento spontaneo dei cittadini, in quanto controllo
democratico nei confronti del l'amministrazione pubblica, non può essere
regolamentata, ma solo favorita e riconosciuta". Pertanto la partecipazione
non va confusa con il decentramento. Con questo non si vuole escludere a priori
la possibilità di realizzare forme di decentramento
in città con alcune decine di migliaia di abitanti (che devono consorziarsi
con altre). Ma questa prospettiva va vista in un altro ambito: quello
dell'organizzazione interna dell'Unità locale, e cioè
dei cosiddetti "compartimenti" (aree con 5-10.000 abitanti) che
dovrebbero costituire la base operativa per i servizi del territorio. Ma appare evidente l'inutilità di porsi questo tipo di
problema prima di aver costituito concretamente le Unità locali stesse».
A questo punto non ci resta che
sperare che il dibattito interno dei partiti sia più approfondito di quanto sia avvenuto fino ad ora, anche per saper far fronte in
maniera adeguata alle prossime importanti scadenze: attuazione della 382,
riforma sanitaria ecc. Sono scadenze ormai prossime che potrebbero
rappresentare una vera «svolta» nel paese. Sarebbe drammatico se le forze di
sinistra perdessero questo appuntamento, come è già
accaduto in passato (per esempio con lo scioglimento dell'ONMI) anche se per
problemi minori, trovandosi impreparate ad affrontare le nuove situazioni.
Sarebbe altrettanto grave che, prese
da problemi di «governo», dovessero adattarsi a gestirli in modo
antidemocratico, con il rischio di rompere l'alleanza che finora li ha legati
alle realtà di base.
(1) A seguito del
provvedimento del CO.RE.CO. l'11 novembre il Coordinamento dei comitati di
quartiere approvò il seguente ordine del giorno:
L'assemblea
dei comitati di quartiere di Torino riunita l'11 novembre 1976, dopo un
approfondito dibattito sulla «Non approvazione» della
delibera n. 1814/76 dell'8 ottobre u.s. relativa al «Regolamento
per la partecipazione dei cittadini all'Amministrazione del Comune» da parte
del CO.RE.CO. (Comitato Regionale di Controllo), in attuazione della
legge nazionale n. 278/76;
in attesa di poter
meglio conoscere sia i motivi per cui sono stati respinti - del tutto o in
parte - ben 17 dei 34 articoli del Regolamento che il comportamento dei singoli
componenti,
ALL'UNANIMITÀ
DENUNCIA
la gravità politica di
tale provvedimento chiaramente contrastante con la volontà espressa dai
cittadini, dalle forze politiche e sindacali, dai movimenti di base, dalle
principali associazioni culturali, sportive, assistenziali e religiose, espressione
reale della popolazione cittadina;
RIBADISCE la validità dei
contenuti del Regolamento voluto dai cittadini e approvato all'unanimità dai
partiti democratici, impegnandosi a sostenere nelle sedi e con i modi più
opportuni le scelte qualificanti in esso contenute soprattutto relative alla
effettiva partecipazione dei cittadini alla gestione ed al controllo della cosa
pubblica;
INVITA le forze
politiche democratiche a ribadire le scelte e gli
impegni assunti con l'approvazione della delibera bocciata, procedendo alla
stesura di un nuovo Regolamento formalmente più corretto, avvalendosi - come
nel passato - del confronto costruttivo con le forze di base;
AUSPICA che i membri
del CO.RE.CO. di nomina democratica, nello svolgere la loro importante
funzione, sappiano tener conto a fianco della interpretazione
letterale della legge, troppo spesso ancora di matrice fascista ed attentatrice
dello spirito innovatore della Costituzione Repubblicana e quindi della volontà
reale dei cittadini e dei partiti di rispettiva appartenenza.
(2) Il testo di
riferimento rimane questo, nonostante le osservazioni del CO.RE:CO.,
perché, come abbiamo visto, esse erano puramente formali e a parte l'«anche» e
il «particolare», tutto il resto è rimasto identico a prima. Tra l'altro la
loro eliminazione non ha neanche comportato la presentazione di una diversa
delibera, che quindi è rimasta la n. 196.
(3) Nella versione
approvata l'11 ottobre erano anche previsti il referendum consultivo, che
poteva essere richiesto dal Consiglio di quartiere o da 1/10 degli elettori e
il referendum abrogativo, che veniva indetto su richiesta di almeno 300
elettori. Sono stati eliminati entrambi dopo le osservazioni avanzate dal
CO.RE.CO.
(4) Per
l'approfondimento vedi Prospettive
assistenziali, n. 19, «No delle ACLI alla cogestione»; n. 21, «Cogestione e
controllo democratico»; n. 29, «La partecipazione come
controllo democratico»; n. 32, «Partecipazione atipica
e conflitto nei rapporti tra cittadini, utenti e istituzioni assistenziali»;
n. 35, «Decentramento amministrativo e partecipazione: legge
nazionale e proposta di regolamento del Comune di Torino».
(5) Un esempio
significativo di questa concezione può essere rappresentato da un passo
estratto dal volumetto di G. FABI, Il mondo è una barriera, la situazione degli
handicappati motori, edito nel marzo 1977 dalla Jaca Book, notoriamente la casa editrice di Comunione e
Liberazione: «... A nostro avviso, per quanto attiene a questo servizio (come a
tutti i servizi sociali in genere), l'autogestione deve essere la norma ed
invece la gestione diretta da parte dell'ente pubblico deve essere l'eccezione
accettabile come supplenza all'insufficiente dinamica sociale in una determinata
zona o situazione (...). La gestione diretta dei servizi sociali da parte
dell'ente pubblico può essere uno fra gli strumenti decisivi di una tirannide
al cui cospetto molte altre tirannidi del passato
impallidirebbero (...). Riteniamo invece che un corretto approccio del problema
dei servizi sociali non possa che passare attraverso il pieno riconoscimento
del diritto di autogestione. D'altra parte
l'autogestione non può implicare l'autofinanziamento; se così fosse, infatti,
essa a lungo andare si deformerebbe e si degraderebbe.
Un diritto che si paga non è un diritto ma un
privilegio accessibile solo a chi ne può sostenere il prezzo. A nostro avviso
gli enti pubblici dovrebbero pertanto - nel quadro di
una pianificazione della spesa e di una scelta di priorità definite in sede
politica - approntare le strutture e mettere a disposizione i mezzi finanziari
necessari al loro funzionamento. Le une e gli altri dovrebbero poi essere
affidati ad apposite cooperative di gestione costituite
fra í potenziali utenti dei servizi medesimi e fra altre persone interessate.
Nella suddivisione delle strutture e dei mezzi disponibili, ad ogni cooperativa
presente in un determinato quartiere urbano o comprensorio, dovrebbero essere
assegnati tempi, spazi e mezzi in proporzione al numero dei soci che intendono
fruire del servizio in questione».
(6) Da Il compagno, periodico di orientamento
per i quadri periferici del PSI, anno IV, n. 3, marzo 1977.
(7) Vedi: Unità locale dei servizi: esperienze,
problemi aperti e prospettive dei servizi sociali e sanitari. Atti del convegno di Torino 6-7 marzo
(8) Mensile torinese
di informazione e collegamento per i movimenti di base, n. 7, luglio 1977.
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