gennaio 2008
CONCERNENTE LE CONTRIBUZIONI ECONOMICHE A CARICO DEI
PARENTI DEGLI ANZIANI MALATI CRONICI NON AUTOSUFFICIENTI
nei tre
provvedimenti in esame mai si fa cenno alla legge 328/2000[2] il
cui articolo 25 stabilisce che «al fine dell’accesso ai servizi disciplinati dalla presente legge, la
verifica della condizione economica del richiedente è effettuata secondo le
disposizioni previste dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, come
modificato dal decreto legislativo 31 marzo 2000, n. 130»[3].
Non
avendo considerato che la norma di cui sopra abroga le disposizioni della legge
1580/1931, nelle tre sentenze viene erroneamente
stabilito che è tuttora valida la richiesta di contributi economici ai
congiunti degli anziani assistiti.
La
sentenza del Tribunale di Milano n. 1609 datata 6 marzo 2007, si basa sulle
disposizioni contenute nella prima parte dell’articolo 1
della legge 1580/1931. Al riguardo il giudice
Renata Peregallo ha scritto nella sopra citata
sentenza che il testo sarebbe il seguente: «Allo
scopo di ottenere dai ricoverati che si trovino in condizioni di povertà, e in
caso di loro morte dagli eredi legittimi e testamentari, la rivalsa delle spese
di spedalità o manicomiali, le amministrazioni degli ospedali, dei Comuni o dei
manicomi pubblici, sulla base degli accertamenti eseguiti, comunicano, mediante
lettera raccomandata spedita per posta con ricevuta di ritorno, ai singoli
obbligati l’ammontare delle somme da rimborsare, i motivi per
cui viene chiesto il rimborso e le modalità di pagamento».
In
realtà l’articolo 1 della legge 1580/1931 prevede esattamente il contrario di
quel che ha indicato il giudice, in quanto sancisce che la rivalsa delle spese
di spedalità o manicomiali è esperibile esclusivamente nei confronti dei
ricoverati che «NON si trovino in condizioni di povertà».
Dunque, ammesso e non concesso che la legge 1580/1931
sia ancora in vigore, mentre il giudice di Milano sostiene erroneamente che il
signor R. D. G.
deve versare al Comune di Garbagnate la parte della
retta non corrisposta dal fratello A. D. G., in realtà al congiunto poteva
essere chiesto di provvedere al pagamento della degenza solamente se veniva
accertato che il ricoverato «NON» si trovava in condizioni di povertà[4].
Pertanto
il giudice, se riteneva ancora applicabile la legge 1580/1931, doveva in primo
luogo accertare quali erano le condizioni economiche del degente.
Tuttavia,
poiché la richiesta di contribuzione riguardava il periodo giugno-dicembre
2001, la legge 1580/1931 non è più applicabile in quanto nel frattempo sono
entrati in vigore sia il sopra riportato articolo 25 della legge 328/2000, sia
i decreti legislativi 109/1998 e 130/2000, in base ai quali (si veda il comma 2
ter dell’articolo 3 del testo unificato dei suddetti
decreti legislativi) per le contribuzioni relative alle
prestazioni socio-assistenziali fornite agli ultrasessantacinquenni non
autosufficienti e ai soggetti con handicap in situazione di gravità deve essere
presa in considerazione esclusivamente la situazione economica del diretto
interessato, senza alcun onere a carico dei parenti, compresi quelli conviventi[5].
Ignorando
le leggi sopra indicate e citando a sproposito[6] la
sentenza della Corte di Cassazione n. 3629/2004, il giudice del Tribunale di
Milano scrive che «la disciplina
contenuta nell’articolo 1 della legge 1580/1931 non può essere ritenuta
inoperante a seguito della soppressione dei manicomi e dell’istituzione del
Servizio sanitario nazionale che garantisce l’assistenza ospedaliera senza
l’imposizione di oneri (i c.d. tickets)
ulteriori rispetto al prelievo fiscale», senza nemmeno tener conto che
nella stessa sentenza 3629/2004
Nonostante
si riferiscano a degenze successive all’entrata in vigore della legge 328/2000
e dei decreti legislativi 109/1998 e 130/2000, anche le sentenze pronunciate
dal Tribunale di Trento (n. 764/07 del 29 giugno 2007) e da quello di Parma (n.
974/07 del 6 luglio 2007) pongono contributi a carico dei parenti di ricoverati
ultrasessantacinquenni, poiché si fondano erroneamente sulla vigenza della
legge 1580/1931 e sul richiamo alle sentenze della Corte di Cassazione, in
particolare la n. 481/1998 e la già citata n. 3629/2004[8]. È
quindi sperabile che gli interessati ricorrano contro i due provvedimenti
pronunciati sulla base di una legge non più in vigore.
Un autorevole parere
Nell’articolo “Ancora sul pagamento delle rette di
ricovero a carico dei parenti: errare humanum est, perseverare diabolicum”
(Prospettive assistenziali,
n. 138, 2002), Massimo Dogliotti, magistrato
della Corte di Cassazione e docente di diritto civile all’Università di Genova,
dopo aver rilevato che
Inoltre
ha asserito quanto segue: «In ogni caso,
seppur non si considerasse non abrogata già anteriormente,
è da ritenere che la legge n. 1580 sarebbe stata abrogata dal decreto
legislativo n. 109/1998, secondo il principio generale per cui la legge
posteriore abroga quella anteriore; infatti la rivalsa non potrebbe certo
riguardare le prestazioni strettamente cliniche e sanitarie, ma solo quelle
cosiddette “alberghiere” di permanenza e soggiorno nella struttura. Ma queste si inquadrerebbero sostanzialmente in quelle assistenziali
di cui alla legge n. 328/2000 e rientrerebbero nella previsione del decreto
legislativo 109/1998», come modificato dal decreto legislativo 130/2000.
Non applicabilità della legge 1580/1931
nei confronti delle persone in condizioni di povertà
Come è
stato rilevato in precedenza, la legge 1580/1931 prevedeva l’azione di rivalsa
esclusivamente nei confronti dei ricoverati che «NON si trovino in
condizioni di povertà».
Nonostante
l’estrema importanza di detta delimitazione dell’azione di rivalsa, è assai
preoccupante che
Circa l’individuazione delle condizioni economiche del
soggetto ricoverato, nella circolare applicativa emanata dal Ministero
dell’interno in data 29 gennaio
1932, prot. 25200-I[9] viene
precisato che «il criterio per
determinare il concetto di povertà agli effetti della ripetibilità
o meno delle spese di spedalità, deve essere quello di povertà relativa nel
senso che tale stato sia sufficiente ad escludere il rimborso delle spese».
Dunque,
secondo la legge 1580/1931 dovevano essere considerate povere le persone che
non avevano i mezzi economici sufficienti per il pagamento dell’intera retta,
interpretazione che è del tutto diversa rispetto a
quella espressa nelle prime sentenze emanate dalla Corte di Cassazione.
Questa
interpretazione è suffragata anche dalle indicazioni contenute nella richiamata
circolare del 29 gennaio
secondo detta
circolare ne consegue che «ammesso
l’accennato concetto della povertà relativa, l’azione per la rivalsa deve, nel
silenzio dell’articolo, ritenersi esperibile tanto se la condizione di povertà
non esisteva al momento del ricovero, quanto se sia venuta a mancare durante la
degenza o anche dopo che questa abbia avuto termine», chiarendo che «è ovvio che l’azione non è esperibile
quando la condizione di povertà, pur non esistendo al momento del ricovero, sia
successivamente sopravvenuta, e, comunque, sussista,
nel tempo in cui s’intenderebbe di esperimentare l’azione».
In
conclusione pare di poter affermare che la legge 1580/1931 non consentiva
l’azione di rivalsa nei confronti delle persone ricoverate in ospedale o in
manicomio qualora esse, pur essendo state in grado di provvedere autonomamente
alle loro esigenze prima del ricovero, non avevano i mezzi economici
sufficienti per la corresponsione dell’intera retta di degenza. In questi casi,
come è già stato ricordato, le spese di spedalità
erano interamente a carico dei Comuni.
Obblighi degli eredi e dei parenti
tenuti agli alimenti
La
legge 1580/1931 stabiliva che, per i ricoverati che «NON si trovino in
condizioni di povertà», la rivalsa delle spese di spedalità o manicomiali
doveva essere indirizzata agli eredi legittimi e testamentari. In sostanza,
essi erano tenuti a versare gli importi che il ricoverato, essendo
in possesso di sufficienti risorse economiche, avrebbe dovuto
corrispondere per la sua degenza.
Per
quanto riguarda i parenti tenuti agli alimenti, la
legge 1580/1931 precisava che la rivalsa «PUò» essere esercitata: non poneva quindi
alcun obbligo alle amministrazioni degli ospedali, ai comuni e ai manicomi pubblici.
stabiliva
inoltre che detti parenti dovevano essere «per legge tenuti agli alimenti durante il periodo di
ricovero» oltre che «in condizione di
sostenere, in tutto o in parte, l’onere delle degenze».
A
questo riguardo occorre ricordare, com’è ormai ampiamente riconosciuto, che,
essendo la richiesta degli alimenti una libera facoltà del soggetto bisognoso,
gli enti pubblici o privati non possono in nessun caso sostituirsi
all’interessato[10].
Ne
deriva che, nei casi in cui i soggetti ricoverati «NON» si trovavano in condizioni di povertà
(se poveri la degenza era gratuita) e non avevano presentato ai propri parenti
tenuti agli alimenti la richiesta di cui agli articoli 433 e seguenti del
codice civile, le rivalse non potevano essere indirizzate ai suddetti parenti,
ma solamente agli stessi ricoverati o, per quelli deceduti, esclusivamente ai
loro eredi legittimi e testamentari.
D’altra
parte i ricoverati, sulla base delle considerazioni svolte in precedenza, se
avevano i mezzi per vivere ma non le risorse
economiche per pagare la degenza, non avevano alcuna necessità di chiedere gli
alimenti in quanto gli oneri relativi al ricovero erano a carico dei Comuni.
Nella
sentenza della Corte di Cassazione n. 481/1998[11] viene asserito che la legge 1580/1931 «anche dopo l’entrata in vigore della legge 833/1978 presenta – pur nel
quadro affatto peculiare delle vigenti norme sul Servizio sanitario nazionale –
un indubbio margine di applicabilità proprio alla ipotesi – alla quale non fa
ostacolo la sussistenza di una “degenza” geriatrica anziché di un ricovero per
terapie – di un servizio socio-assistenziale che reso a domanda, con
anticipazione degli oneri da parte del Comune, e con il diritto dell’ente di
agire direttamente nei riguardi del ricoverato (sulla base della convenzione
stipulata e nei limiti statuiti in attuazione delle norme regionali) e/o, in
via di “rivalsa”, nei riguardi di coloro
che sarebbero stati obbligati alla prestazione alimentare durante il
periodo di degenza».
Al
riguardo va rilevato che nella legge 1580/1931 non vi erano cenni di sorta in
merito agli oneri di natura assistenziale o
alberghiera, in quanto si faceva esclusivamente riferimento alle «spese di spedalità o manicomiali»
(articolo 1, comma 1), alle «spese di
spedalità» (articolo 1, comma 2) e alla «rivalsa
della spedalità» (articolo 3, comma 3): la natura delle prestazioni previste
dalla legge 1580/1931 era sempre e solo sanitaria e mai socio-assistenziale o
socio-sanitaria.
Pertanto,
nei casi in cui il ricoverato o i suoi eredi o i congiunti erano tenuti al
pagamento delle spese di spedalità ai sensi della
legge 1580/1931, il relativo importo era calcolato dall’Amministrazione
dell’ospedale o dal Comune sull’ammontare complessivo dei costi sostenuti,
senza alcuna ripartizione, allora non prevista, fra quota sanitaria e quota
alberghiera.
Dunque,
restano incomprensibili i motivi in base ai quali
Poiché,
con l’entrata in vigore della Costituzione, viene
sancito (articolo 23) che «nessuna
prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alle
leggi», non si comprende in base a quale disposizione
Da
notare che, com’è ovvio, i Comuni, le Province, incluse quelle autonome di
Bolzano e Trento, e le Regioni, comprese quelle a statuto speciale, non hanno
alcuna competenza nei confronti dei parenti degli assistiti conviventi o non
conviventi.
Dunque,
anche in relazione al sopra citato articolo 23 della
Costituzione, le Regioni, le Province ed i Comuni dal 1° gennaio 1948, e cioè
da quando è entrata in vigore la stessa Costituzione, nulla potevano e possono imporre
ai congiunti degli assistiti.
Come
già osservato in precedenza, la normativa in materia attualmente
in vigore è costituita dall’articolo 25 della legge 328/2000 e dai decreti legislativi
109/1998 e 130/2000 in base ai quali nessun onere economico può essere richiesto
ai parenti, compresi quelli conviventi degli assistiti ultrasessantacinquenni
non autosufficienti e dei soggetti con handicap in situazione di gravità.
contrasta con
la realtà dei fatti l’affermazione della Corte di
Cassazione secondo cui la degenza “geriatrica” (così definita nella citata
sentenza n. 481/1998) sarebbe un «servizio
socio-assistenziale» e non un «ricovero
per terapie»[12].
È
invece vero che la degenza degli anziani cronici non autosufficienti è
determinata dalla presenza di malattie invalidanti o di loro esiti, d’altra
parte di entità così grave da causare spesso
sofferenze anche rilevanti.
Pertanto,
il ricovero presso le Rsa e le analoghe strutture non solo non è un «servizio socio-assistenziale» come
scrive
Peraltro
non si tratta nemmeno di un servizio «reso
a domanda» rientrando a pieno titolo fra i diritti esigibili delle persone
malate come stabiliscono l’articolo 54 della legge 289/2002, nonché
la normativa precedente a partire dalla legge 692/1955.
D’altra
parte occorre tener presente che, come risulta dalla
sentenza n. 10150/1996,
È
pertanto sorprendente che nella sentenza 481/1998 vengano
attribuite alla legge 1580/1931 definizioni che per la prima volta nella nostra
normativa vengono introdotte in linea di principio con la legge 730/1983 (legge
finanziaria 1984) mentre le percentuali della quota sanitaria e di quella
alberghiera sono state stabilite solamente mediante il sopra citato articolo 54
della legge 289/2002 (legge finanziaria 2003) che ha dato valore di legge alle
disposizioni del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29 novembre
2001 sui livelli essenziali di assistenza sanitaria. Da notare che in detto
decreto è precisato che «per le singole tipologie
erogative di carattere socio-sanitario (…) la componente sanitaria e quella sociale non risultano
operativamente distinguibili».
Non
si comprende, anche sotto questo aspetto, come
Nella
già nominata circolare del 9 gennaio 1932 del Ministero dell’interno viene ricordato che «per
ovvie considerazioni è, però, opportuno che le Amministrazioni dei Comuni (cui
gli ospedali […] sono tenuti a notificare l’eventuale ricovero) avvertano, a
loro volta, appena sia possibile, i congiunti dei ricoverati, e ciò anche allo
scopo di metterli in grado di provvedere, eventualmente, in altro modo
all’assistenza dei loro congiunti», aggiungendo la seguente
raccomandazione: «Si richiama su questo
punto la particolare attenzione delle LL. EE., con
preghiera di curare che a tale adempimento sia provveduto da parte delle
amministrazioni dei Comuni».
Occorre altresì considerare che il secondo comma
dell’articolo 3 della legge 1580/1931 stabiliva che
qualora la notifica relativa alla rivalsa «non
venga eseguita nel termine di cinque anni dalla effettiva cessazione del
ricovero, le amministrazioni degli ospedali, dei Comuni e dei manicomi pubblici
non potranno più avvalersi della procedura privilegiata stabilita con la
presente legge».
Ciò
premesso, è singolare che nelle sentenze pronunciate in merito alla legge
1580/1931,
È
significativo osservare che
Infatti, mentre nelle citate sentenze 481/1998 e 3822/2001
aveva sancito che i parenti erano tenuti senz’altro al pagamento delle somme
richieste dai Comuni, essendosi i giudici, accortisi che la rivalsa era
esperibile esclusivamente nei casi dei ricoverati che «NON si trovino in condizioni di
povertà», nella sentenza 3629/2004 ha previsto il rinvio al Tribunale del
capoluogo ligure l’esame della richiesta di pagamento avanzata dall’Asl 3 di
Genova nei riguardi del signor B. C. «al
fine di verificare la sussistenza del presupposto della situazione di indigenza cui l’articolo 1, comma terzo della legge
1580/1931 subordina l’azione di rivalsa»[14]
senza però nulla dire in merito all’osservanza o meno delle procedure stabilite
dalla suddetta legge.
Conclusioni
Sulla
base delle considerazioni svolte in precedenza sembra di poter affermare che le
sentenze della Corte di Cassazione sull’applicabilità della legge 1580/1931, «inopinatamente» riportata in vita, si sono
ispirate ad argomentazioni più ideologiche che giuridiche, per
cui l’«indubbio margine di
applicabilità» contemplato dalla sentenza 481/1998 è stato probabilmente individuato
in base al pregiudizio secondo cui se i parenti non pagano, essi si orientano verso
l’abbandono dei loro congiunti, dimenticando che si tratta di persone colpite
da patologie invalidanti e quindi necessitanti in primo luogo di cure sanitarie
che le leggi vigenti stabiliscono essere gratuite[15].
Detta
logica, purtroppo cavalcata da moltissime Regioni e da numerosi Comuni e fatta
propria anche dai Ministeri della sanità e della solidarietà sociale, è quella
che ha determinato la caduta in povertà di centinaia di migliaia di famiglie[16] ed
ha lasciato (si vedano le liste di attesa per le cure
domiciliari, semiresidenziali e residenziali) centinaia di migliaia di anziani
malati cronici non autosufficienti privi delle necessarie prestazioni previste
dalle leggi vigenti a carico del Servizio sanitario nazionale.
[1] Sono stati preannunciati appelli contro le tre sentenze.
[2] Le richieste riguardano periodi di ricovero successivi all’entrata in vigore della legge 328/2000 perché disposti dopo il 1° gennaio 2001.
[3] Com’è noto tutte le prestazioni socio-assistenziali, comprese quelle definite “alberghiere”, sono disciplinate dalla legge 328/2000.
[4] Occorre tener presente che nel 1931 le cure sanitarie erano fornite gratuitamente ai malati in condizione di povertà.
[5] Si ricorda che il 6° comma dell’articolo 2 del testo unificato dei decreti legislativi 109/1998 e 130/2000 vieta agli enti pubblici di sostituirsi al soggetto bisognoso nella richiesta ai congiunti degli alimenti di cui agli articoli 433 e seguenti del Codice civile.
[6] A sproposito, in quanto la sentenza n. 3629/2004 si riferisce ad una richiesta di contributi per una degenza relativa al 1995 e cioè prima dell’entrata in vigore della legge 328/2000.
[7] Come
si vedrà in seguito l’azione di rivalsa non è
subordinata alla condizione di «indigenza»
del ricoverato, ma a quella della sua povertà relativa.
[8] Si
ricorda nuovamente che, pur essendo successive all’entrata in vigore della
legge 328/2000 e dei decreti legislativi 109/1998 e 130/2000, tutte le sentenze
finora emanate dalla Corte di Cassazione si
riferiscono a rivalse richieste per degenze anteriori al 1° gennaio 2001.
[9] Cfr. Giuliano Mazzoni e Riccardo Catelani, Codice della legislazione assistenziale, Istituto Poligrafico delle Stato, Roma, 1958.
[10] Il primo comma dell’articolo 438 del Codice civile si
esprime nei seguenti termini: «Gli
alimenti possono essere richiesti solo da chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio
mantenimento».
[11] Si tratta della prima sentenza emanata dalla Corte di Cassazione in merito all’applicabilità della legge 1580/1931.
[12] Se
si trattasse, come in effetti è, di «ricovero per terapie», verrebbero meno
le argomentazioni della sentenza della Cassazione n. 481/1998 e di quelle
successive.
[13] A conferma della valenza eminentemente sanitaria delle prestazioni rivolte agli anziani non autosufficienti, si ricorda che in Piemonte vi sono Rsa, residenze sanitarie assistenziali, gestite direttamente da Asl.
[14] Si
veda quanto precisato in precedenza circa la condizione di indigenza.
[15] Resta accettabile la richiesta di contribuzioni al malato, da calcolare sulla base delle sue personali risorse economiche.
[16] Si
ricorda nuovamente che nel documento “Legge quadro per la realizzazione del
sistema integrato di interventi e servizi sociali”
predisposto nell’ottobre 2000 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Ufficio del Ministro per la solidarietà sociale viene affermato che «nel corso del 1999, due milioni di famiglie
italiane sono scese sotto la soglia della povertà a fronte del carico di spese
sostenute per la “cura” di un componente affetto da una malattia cronica».