emoriale delle vittime dell'emarginazione sociale

Stampa
  L'INCREDIBILE REPARTO PER BAMBINI “CRONICI” DELL’OSPEDALE INFANTILE BURLO GAROFALO DI TRIESTE

HANDICAP



Tratto da Prospettive assistenziali n. 43, 1978

 

Da Trieste Antonello Massaro ci scrive:

«Si parla spesso molto bene dell'Ospedale In­fantile Burlo Garofolo, si dice che è ben attrezzato, che vi è un personale competente, che è un ospedale all'avanguardia in Italia.

Non si parla mai però di uno dei suoi reparti, il più nascosto: il reparto «cronici». Si tratta di un piccolo edificio a due piani, che sorge iso­lato lontano dal grande edificio, dove circa 60 tra bambini e ragazzi di ambo i sessi sono rin­chiusi: sono ragazzi che, a causa di menomazio­ni fisiche e/o psichiche più o meno gravi, sono stati etichettati come «cronici», come persone quindi che «non sono in grado di svilupparsi» per le quali quindi «è inutile ogni tipo di cura».

Non dico che sia facile educare questi ragaz­zi, ma sostengo che è possibile farlo.

Certo, ci sono alcuni soggetti così gravemente danneggiati che non possono né potranno mai essere autosufficienti, ma questi sono una minima parte. I più, invece, se solo venissero aiu­tati nel loro sviluppo psico-fisico, se venissero sollecitati e anche, ad un certo momento, adde­strati, potrebbero attivamente inserirsi nella so­cietà.

Nel grande edificio dell'Ospedale infantile Burlo Garofalo sono ospitati i bambini non handicappati. Per loro si parla di: Day Hospital, deospedalizzazione, assistenza superiore al servizio ambulatoriale, camere quasi vuote e molto spazio. I pazienti beneficiano di tutti i vantaggi che offre l'ospedale: strumentazioni, esami, in­terventi polispecialistici. È inoltre evitato il trau­ma del ricovero e del distacco improvviso dalla famiglia in quanto i genitori possono essere sempre vicini ai figli.

Insomma l'ospedale infantile Burlo Garofalo è un'isola di felicità e di salute per i bambini e­senti da menomazioni fisiche e/o psichiche.

Invece, per i giovani handicappati che vivono o, meglio, vegetano in completa inattività all'in­terno del reparto «cronici», non esiste niente di tutto questo: non vi è un'assistenza psicofi­sica adeguata, non vi è spazio sufficiente per la loro riabilitazione fisica né per la loro espres­sione, le attività ricreative sono pressoché as­senti: nessuno si occupa dello sviluppo intel­lettuale del ragazzo, né di cercare di capire quali sono le sue attitudini; manca un contatto diretto con il mondo esterno: le rare gite fuori dall'o­spedale, cui non tutti possono partecipare, sono insufficienti palliativi. Il trauma del ricovero non solo non è evitato, ma non si cerca nemmeno di renderlo meno duro. Di riduzione della de­genza non si parla nemmeno: sono costretti a restare in questo luogo dove, pur non subendo maltrattamenti fisici, sono condannati all'inatti­vità. Provate a lasciare una persona normale per un mese senza fare assolutamente niente; per quanto possa essere forte psichicamente, co­me minimo quella diventa paranoica.

E come può, allora, un soggetto più debole re­sistere per anni a questa tortura? Non può resi­stere, ma deve adattarsi in qualche modo per sopravvivere, così si estrania completamente dalla vita e regredisce fino a forme di pura comunicazione affettiva, dipendenza assoluta, a­patia cronica: questo è ciò che succede ai ra­gazzi che vivono al reparto «cronici» dell'Ospedale infantile Burlo Garofolo. E la situazione è destinata a rimanere tale fino a quando verran­no trasferiti alla Villa Coslovich. E poi?

Premettendo che non il luogo, ma le condi­zioni di vita sono determinanti sulla formazione di una persona sul suo rapporto con la società, io mi domando: cambierà finalmente la situa­zione per questi giovani o sono destinati a vi­vere per sempre così?

Concludendo, non è possibile parlare della magnificenza del Grande Burlo dato che nel magnifico ingranaggio di questa macchina "perfet­ta" c'è una grossa rotellina che gira in senso contrario: è il Piccolo Burlo i cui giovani detenuti ci chiedono soltanto di rispettare il loro diritto alla vita.

Non condanniamo queste persone, le più in­nocenti, alla "morte in vita".

Non è giusto che queste persone siano rinchiuse e nascoste agli occhi dei «poveri cittadini, che soffrono nel vedere un handicappato e lo considerano un animale spregevole del quale avere al massimo compassione».

 
www.fondazionepromozionesociale.it