emoriale delle vittime dell'emarginazione sociale

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  Cresciuta in un cronicario

HANDICAP




Fra gli articoli di informazione e di denuncia che Neera Fallaci aveva pubblicato su Oggi (1) si segnala quello riguardante le persone con minorazioni fisiche e la creazione da parte di don Enrico Nardi di una piccola struttura di accoglienza a Pian di Scò (Arezzo), denominata “Casa serena”.

Angosciante la testimonianza di R.A. di 20 anni, le cui vicende erano frequentissime in quel periodo: «Mi chiamo R.A. Nei miei vent’anni di vita ho conosciuto tanta sofferenza e rari momenti di gioia. Sono spastica dalla nascita; cammino, muovo le mani, parlo con impaccio. Avevo poco più di tre anni quando venni ricoverata in un tristissimo ospizio che ricoverava sia vecchi sia bambini. Ricordo una brutta, lunga camerata, e la fatica che mi costava raggiungere il mio letto: era proprio l’ultimo, in fondo. Dopo una parentesi in famiglia e vari soggiorni in ospedale, feci il mio ingresso in un cronicario vicino a Milano. Avevo nove anni. Rimasi in quel posto fino a venti.

«A scuola me la cavavo: così, dopo le classi elementari, studiai altri tre anni. Quindi passai al laboratorio di maglieria, per imparare un mestiere nel limite delle mie possibilità. Nel reparto c’erano ragazze normali da un punto di vista fisico, ma con un quoziente d’intelligenza assai basso. Intuivo che il mio posto non era tra loro, tanto che mi lamentavo con le suore: «Fanno sentire mongoloide anche me!». Ma fu a sedici anni  che compresi in pieno l’ingiustizia dell’esistenza a cui mi si condannava. Entrai in ospedale per subire un intervento chirurgico al ginocchio. E, in ospedale, mi trovai finalmente fra tutte persone con la testa a posto: mi sentivo rivivere. Riprendere la via del cronicario fu un vero incubo: essere spastica mi precludeva già tante cose, perché farmi stare tra le insufficienti mentali? Perché essere trattata come le insufficienti mentali? Erano così profondi 1'amarezza, l’esasperazione, l’avvilimento, l’impotenza, che divenni una ribelle: m’impennavo per un nonnulla.

«Mi sottoposero a tests mentali per valutare la mia intelligenza:  non risultai un genio ma nemmeno una scema. Mi mandarono in un altro reparto tra deficienti un po’ meno gravi. Frequentavo anche le ragazze “recuperabili”, vale a dire quelle che, un domani, sarebbero uscite libere per godersi un’esistenza normale tra gente normale. E trovai un altro motivo di depressione. Non facevano che alludere al loro avvenire: “Mi sposerò… Avrò dei bambini… Farò… Dirò...”. E io? Quale avvenire mi era riservato? Avrei mai goduto il calore di una famiglia mia? Qualcuno avrebbe dato affetto a me, che ne aveva avuto solo qualche briciola? È un assillo (intendiamoci bene) che mi tormenta ancora. Ho vent’anni! Non ,riesco ad adagiarmi nella rassegnazione, anche se (me ne rendo conto) é improbabile si realizzino certi miei sogni.

«Intanto, ho avuto il primo colpo di fortuna, venendo a “Casa serena”. Qui siamo in poche ragazze, e intelligenti. Ci aiutiamo, ci vogliamo bene. Ho smesso di impennarmi a ogni sciocchezza. Contraccambio affetto e attenzioni, cercando di rendermi utile, Sto meglio anche fisicamente: la serenità dello spirito è utile anche al corpo, davvero. Otto mesi fa, quando arrivai, mi sentivo come legata, potevo camminare solo appoggiandomi al braccio di qualcuno. Oggi rinuncio anche al bastone (“il marito”, come lo chiamiamo). Mi capita di fare qualche capitombolo. Ma sono in grado di arrivare fino alla bottega per la spesa, vado al cinema o a prendere un gelato con le amiche: sulle mie gambe. Ho fatto amicizia anche col Signore. Qualche volta capita ancora che gli dica: “No!”, per il destino che mi è riservato. Mi scaldo quando desidero una cosa con tutta l’anima, e ci devo rinunciare. “Tutto proprio no, Signore!”. Poi finisco per riconciliarmi e a sperare per l’avvenire».

www.fondazionepromozionesociale.it



(1) Ricordiamo i seguenti articoli sui soggetti con handicap pubblicati da Neera Fallaci su Oggi: “Invecchieranno restando bambini”, n. 1, 1966; “Il calvario che dura tutta una vita”, n. 2, 1966 e “Ho condannato mio figlio a vivere”, n. 20, 1966.