COME E
PERCHÉ RIDEFINIRE IL PROBLEMA "HANDICAP"
MARIO TORTELLO (*)
Questa nota non ha lo scopo di mettere a confronto le
diverse definizioni di handicap (1), né pretende di formularne tout court una
nuova. L'obiettivo è quello di sottolineare alcuni aspetti emergenti sui quali
ci pare necessario fondare una ridefinizione del problema complessivo
dell'handicap:
- la necessità di superare il luogo comune che
identifica sempre e comunque la situazione di handicap con quella di una
persona non-abile e che necessita di continua assistenza;
- l'esigenza di vedere riconosciuta la capacità
lavorativa (che può essere piena, ridotta o nulla, anche in riferimento alla
relativa situazione di collocamento al lavoro);
- l'urgenza di giungere ad una distinzione anche lessicale
fra handicap intellettivo e malattia mentale, non per determinare nuove
discriminazioni e conseguenti emarginazioni, ma per evidenziare le diverse
esigenze e prevedere interventi idonei di integrazione sociale.
Partire dalle esigenze delle persone
Può sembrare pleonastico sostenere che, affinché gli
interventi sociali siano adeguati, occorre che essi partano dalle effettive
esigenze delle persone e dei nuclei familiari. Per le persone con handicap
questa necessità si manifesta in misura maggiore degli altri cittadini, proprio
in relazione ai loro bisogni aggiuntivi rispetto a quelli del resto della
popolazione.
Non di interventi assistenziali hanno prioritariamente
bisogno tutte le persone con handicap, ma - e questo ci sembra il punto centrale
del problema - di poter essere sostenute nella ricerca della massima
indipendenza e della massima autonomia possibile e, di conseguenza, nel poter
usufruire del massimo inserimento sociale, scolastico e lavorativo.
Non
è sufficiente sapere se la persona handicappata è spastica, cieca, sorda...
Non
è sufficiente sapere se ha il 40, il 60 e il 100 per cento di invalidità.
Non è sufficiente, perché non permette di capire i
suoi bisogni in misura adeguata e di trovare le risposte conseguenti.
C'è
bisogno di sapere, semmai:
-
come e quanto questa persona è autonoma; - se può, e in quale misura,
diventarlo con l'aiuto di ausili e con l'adattamento dell'ambiente, con una
attività di riabilitazione, con l'aiuto di un'altra persona, ecc.;
- se tale autonomia aumenta o regredisce a seconda
delle persone che la circondano (significativo è l'esempio che si riferisce ai
diversi livelli di autonomia di un bambino handicappato a casa e a scuola);
- se è necessario un intervento (e quale) in grado di
mantenere certi livelli di autonomia ed evitare regressioni in certi casi
irreversibili.
Classificazioni obsolete
Tuttavia, per ciò che riguarda l'handicap, siamo
ancora fermi a classificazioni create alcuni decenni or sono. Si continua a
parlare, cioè:
-
di handicappati fisici (para e
tetraplegici, spastici, mutilati),
-
di handicappati sensoriali (ciechi,
sordi),
-
di handicappati psichici.
Anche l'ulteriore specificazione è estremamente
generica: lieve, medio, medio-grave, grave e gravissimo.
È chiaro, invece, che differenti sono gli interventi
sociali necessari a dare idonee risposte alle diverse situazioni di handicap
(pensioni, invalidità, inserimento lavorativo...) e che, ai fini di stabilire
tipologia e durata della prestazione, non è sufficiente il solo riferimento a
questa obsoleta classificazione.
La
legge-quadro sull'handicap (2) non fa eccezione.
Recita
l'art. 3, comma 1:
«È persona handicappata colui che presenta una
minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è
causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione
lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di
emarginazione».
Nel definire poi all'art. 3, comma 3, la situazione
che «assume connotazione di gravità», il legislatore parla di «un intervento
assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in
quella di relazione».
Quali
possono essere le conseguenze negative di tale classificazione?
Innanzitutto, questo modo con cui si continua a
definire l'handicap, che mette in primo piano i diversi deficit, finisce con il
connotare negativamente le persone handicappate. Infatti, esse per definizione
avrebbero per sempre qualcosa di "mancante" che li differenzia senza
scampo dalle persone cosiddette nella norma.
Anche il generico riferimento alle cosiddette capacità residue rispetto alla
minorazione può essere oggetto di nuove discriminazioni e provocare ulteriori
ripiegamenti su semplici (e poco onerosi) interventi assistenziali.
L'identificazione dell'handicap con il deficit rischia
non solo di avvolgere il cieco, il sordo, l'invalido per tutta la vita, ma di
interessare tutto il suo essere: essere "handicappato" significherebbe,
pertanto, avere sempre e comunque una ridotta capacità lavorativa, essere un
malato permanente o, peggio, un soggetto bisognoso di assistenza continua.
Anche altre denominazioni rischiano, a nostro avviso,
di connotare negativamente la persona con handicap: c'è chi parla di in-validi, chi di in-abili, chi di dis-abili. Pur
ammettendo che la parola handicap può
assumere una valenza negativa, i termini ora ricordati possono far ritenere
genericamente che tutti gli handicappati sono automaticamente da considerare né
abili, né validi.
Ora, poiché nell'attuale società il concetto di abilità è molto importante ai fini
dell'inserimento lavorativo e sociale, lasciar intendere che tutti gli
handicappati sono persone disabili può avere gravi conseguenze negative ai fini
di una reale integrazione.
Va osservato, al riguardo, che vi sono ancora
associazioni che conservano la denominazione "in-validi": civili, del
lavoro, di guerra... A volte, sono le associazioni stesse ad incentivare la caratterizzazione
negativa degli handicappati; ad esempio, richiedendo agli assessorati all'assistenza
di provvedere ai loro aderenti mediante servizi e prestazioni che nulla hanno a
che fare con gli interventi di competenza assistenziale. Trasporti per
handicappati, attività di formazione professionale o prelavorativa, attività
ricreative, sostegno alla frequenza scolastica sono alcuni esempi di gestione
spesso richiesta ed assicurata dal settore assistenziale che finiscono con
l'emarginare gli handicappati, separandoli dagli utenti "normali"
degli stessi servizi.
Come osserva giustamente Gianni Selleri, «le associazioni storiche operano
soprattutto nella prospettiva dell'assistenzialismo, dell'ottenimento dei
risarcimenti e di privilegi; ciò ha determinato una separazione psicologica e
sociale degli handicappati» (3).
Per converso, si può ricordare che una delle
rivendicazioni costantemente avanzate a Torino dal Coordinamento sanità e
assistenza fra i movimenti di base (CSA) in questi ultimi 22 anni, è stata la
richiesta che nei confronti degli handicappati intervengano i settori della
casa, della sanità, dell'istruzione, della formazione professionale, del
lavoro, dei trasporti, ecc., competenti nei confronti della popolazione non
handicappata.
Fuori dal tunnel dell'assistenza
È evidente a tutti che ad un determinato deficit non
corrisponde automaticamente una certa difficoltà. L'handicap che ne consegue
dipende da molti fattori: dal grado della minorazione, dall'autonomia
acquisita, dall'ambiente fisico e sociale circostante...
È stato giustamente osservato che «il lavoro è un
valore che contribuisce a realizzare la persona umana, oltre che a fornirgli
la possibilità di sostentamento, di produzione di materiale e quindi di
autonomia». Pertanto, «se riconosciamo la centralità della persona, a maggior
ragione va ribadito il principio dell'inserimento della persona handicappata a
pieno titolo nella società attraverso il lavoro, il solo mezzo che permette
il raggiungimento di una vera autonomia, nonché fattore determinante per la
realizzazione della persona».
Non solo, ma va riconosciuto che il diritto al lavoro
è il «fulcro culturale attorno al quale ricostruire la cultura
dell'integrazione (...) dal quale prendono forma e consistenza il diritto alla
formazione professionale, alla scuola, ai servizi di territorio, al poter
restare il più a lungo possibile a casa propria, nel proprio ambiente» (4).
Del resto, va ribadito che solo una parte molto
limitata di handicappati ha bisogno di prestazioni assistenziali. Tutti,
invece, hanno il diritto di poter accedere ai normali servizi abitativi, educativi,
formativi, culturali, di trasporto, sportivi... E si tratta di interventi che
debbono essere garantiti non dal settore assistenziale, ma da quei settori
che si occupano della casa, dell'istruzione, della formazione professionale,
dei trasporti pubblici per tutti i cittadini.
Tornando alla definizione di handicap data dalla
legge-quadro, dobbiamo osservare innanzitutto, sin a partire dal titolo, che
non viene data la priorità alla predisposizione di quei servizi e di quegli
interventi che possono assicurare il raggiungimento della massima autonomia
possibile per ciascun soggetto; ma alla assistenza. Recita il titolo della
legge 104/1992: "Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i
diritti delle persone handicappate". Secondo il legislatore, la tutela
dei diritti viene dopo l'intervento assistenziale.
Una definizione di handicap troppo rigida
Rileggiamo
la definizione di handicap contenuta all'art. 3, comma 1.
Questa formulazione non tiene conto, a nostro avviso,
di quattro aspetti fondamentali da prendere in considerazione se si vuole
veramente partire dalle esigenze delle persone handicappate:
1) non tiene conto della dinamicità della situazione
e cioè del profondo intreccio fra deficit, capacità residue dei soggetti, strumenti
tecnologici, situazioni familiari e sociali, influenza dell'ambiente;
2) non tiene conto della modificabilità della situazione;
merita ricordare che, alla fine del '700, Jean-Marc Gaspard Itard, occupandosi
dell'educazione dell'enfant sauvage dell'Aveyron, parte proprio dal
rifiuto del pessimismo medico e indica tra i presupposti indispensabili per fissare
gli obiettivi pedagogici la fondamentale convinzione della perfettibilità di tutti gli esseri umani (5);
3) non tiene conto delle estreme diversità delle
conseguenze delle diverse tipologie di handicap; ad esempio, non si può
generalizzare, mettendo insieme l'handicap fisico con quello intellettivo;
4) non distingue l'handicap intellettivo (cioè,
l'insufficienza mentale) dall'handicap psichico (cioè, la malattia mentale).
Gli insufficienti intellettivi sono soggetti con caratteristiche molto diverse
da quelle dei malati mentali; quindi, anche le esigenze non sono assimilabili.
Crediamo sia importante approfondire questo problema, proprio perché la
mancanza di chiarezza di tali aspetti ha avuto come conseguenza, per anni,
l'esclusione degli insufficienti intellettivi dal lavoro. Gli stessi ricorsi
presentati negli anni scorsi alla Corte Costituzionale hanno confuso i due
gruppi di soggetti con gravissime conseguenze per gli handicappati
intellettivi. Molti di essi, infatti, sono stati così respinti dal
collocamento al lavoro obbligatorio e costretti alla dipendenza familiare o
assistenziale.
Handicap intellettivo e malattia mentale
Noi crediamo sia importante insistere sulla
differenza tra handicap intellettivo e malattia mentale. Sul tema, è stata
diffusa da Bruxelles, nel 1981, una apposita "Raccomandazione", curata
dalla Lega internazionale delle
Associazioni per persone portatrici di handicap (6).
Tale "Raccomandazione" precisa che «nel significato
oggi generalmente attribuito a questo termine, il ritardo intellettivo si
compone di due elementi essenziali inerenti all'età biologica e alla cultura
sociale:
a) funzionamento delle facoltà intellettive decisamente
inferiore alla media e corrispondente, in termini di età, ai primi anni di
vita;
b)
notevole difficoltà di adattamento alle esigenze culturali della società».
L'handicap intellettivo «non costituisce di per sé
una malattia; si tratta molto semplicemente della manifestazione di tutta una
serie di situazioni dovute a disordini biologici o a lesioni organiche,
nonché ad altri motivi molto più complessi di natura sociale o psicologica. In
molti casi, addirittura, l'origine precisa del ritardo intellettivo permane
sconosciuta».
Poiché il ritardo intellettivo «è un problema che
investe fondamentalmente lo sviluppo dell'individuo, i servizi dovrebbero
proporsi come obiettivo quello di sollecitare la persona nel processo di
apprendimento e potenziamento delle proprie capacità, in modo tale da accrescere
la sua competenza e autonomia. A questo scopo, si rivela molto più efficace
l'applicazione di metodi d'apprendimento piuttosto che il ricorso a cure
mediche».
Dopo
aver sottolineato che cosa si intende, invece, per disturbi psichiatrici, la
"Raccomandazione" osserva che «le persone portatrici di un handicap
intellettivo hanno delle esigenze proprie diverse da quelle dei malati di
mente» e che «è giunto il momento di separare nettamente i servizi»: «La
legislazione stessa dovrebbe prevedere delle disposizioni amministrative diverse
per la malattia mentale e per il ritardo intellettivo».
Nuovi riferimenti per una definizione di handicap
Tornando alla definizione di handicap contenuta
nella legge-quadro, è chiaro che per moltissime persone handicappate - a
partire da quelle con deficit fisici - questo modo di continuare ad
identificare l'handicap non solo non è applicabile, ma può ostacolare di fatto
il raggiungimento di successivi traguardi.
Per tutti, sia sufficiente citare l'ex presidente
degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt. Chi può considerarlo un dis-abile (cioè un non-valido) perché
poliomielitico? Anzi, nel suo campo di lavoro era un abilissimo.
Vi è chi può osservare che se Roosevelt non fosse
stato un bianco americano benestante e colto, ma un nero della Savana africana
costretto a procurarsi il cibo cacciando, non avrebbe avuto la stessa felice
sorte. Ma si può replicare, anche, che la felice sorte di Roosevelt è dovuta al
fatto che la sua compromissione era solo fisica, che egli non ha accettato che
tale compromissione diventasse un tutt'uno con la sua persona (non si è cioè
ritenuto un dis-abile), che, trovato un ambiente accettante o almeno non
ostile, ha avuto a disposizione strumenti tecnici adeguati, ecc.
E la triste sorte del nero della Savana sarebbe
toccata anche ad un bianco rifiutato dalla sua famiglia o che si fosse
intestardito a fare, al di là delle aspettative dell'ambiente, un lavoro ritenuto
non idoneo rispetto alle sue compromissioni, senza consentire una progressiva
evoluzione della sua autonomia.
Sia sufficiente ricordare, a questo proposito,
l'importanza da un lato di un collocamento al lavoro "mirato" e non
generico e, d'altro lato, di interventi di integrazione e di socializzazione
che vengano predisposti «nel pieno rispetto delle scelte culturali della
persona handicappata» (legge n. 104/1992, art. 12, comma 5). Si tratta di
aspetti che, a nostro avviso, debbono diventare elementi centrali della nuova
legge sul collocamento obbligatorio.
A questo punto, possiamo dire che se il deficit che
sta alla base dell'handicap è sinonimo di minorazione fisica, sensoriale,
intellettiva o associate, avere una minorazione
non significa tout court essere minorato
(il che nel linguaggio comune viene inteso in senso estensivo, cioè riguardante
tutta la persona), né tanto meno essere dis-abile. Questo ci sembra essere il
punto centrale del problema.
Restiamo convinti, perciò, che per una diversa impostazione
dei problemi delle persone con handicap siano necessari alcuni nuovi riferimenti,
non ancora rintracciabili nelle varie definizioni di handicap e non
chiaramente indicati dalla legge-quadro.
1. Un primo riferimento fondamentale ci pare quello
della autonomia. Per le persone con
handicap, i deficit e le relative compromissioni comportano difficoltà nella
loro autonomia personale e limitazioni nelle scelte professionali. Tali difficoltà
e tali limitazioni sono legate alle capacità dei soggetti di utilizzare tutte
le loro potenzialità, agli strumenti tecnologici disponibili e alla situazione
familiare e sociale in cui la persona è inserita.
2. Mediante adeguati servizi, molte persone con
handicap fisici e sensoriali possono raggiungere livelli di professionalità e
conseguire capacità lavorative pari a quelle degli altri cittadini.
3. Per le persone con handicap intellettivo, idonei
interventi sono in grado di assicurare livelli di autonomia e capacità
lavorative per lo svolgimento di mansioni semplici nei normali posti di lavoro.
4. Per le persone con gravi compromissioni sul piano
intellettivo, essendo di conseguenza escluse le possibilità di inserimento
lavorativo, è necessario assicurare comunque prestazioni finalizzate al
raggiungimento della massima autonomia possibile e dirette a garantire
condizioni di vita adeguate alle loro esigenze.
Partendo da tali premesse, è evidente che per le
persone con handicap, è necessaria una intesa fra vari settori (sanità,
scuola, formazione professionale, casa, lavoro, trasporti, ecc.) per creare le
condizioni favorevoli non solo alla cura ed alla riabilitazione, ma anche per
un adeguato inserimento sociale, fondato non sull'assistenzialismo, ma sulla
massima autonomia possibile dei soggetti. Ovviamente, l'assistenza deve essere
riservata alle persone incapaci di provvedere autonomamente a se stesse.
Questa autonomia si raggiunge non solo mediante una
attiva collaborazione dei soggetti interessati e dei loro familiari e mettendo
a disposizione le necessarie tecnologie, ma anche consentendo alle persone
con handicap di utilizzare i servizi e le strutture disponibili per i cittadini
non handicappati. Da qui, l'esigenza dell'inserimento prescolastico,
scolastico e lavorativo, l'uso delle normali abitazioni, dei trasporti pubblici,
eccetera.
Potremmo ora, sotto il profilo dell'autonomia e
tenendo presenti i riferimenti citati, riprendere e rileggere tutti i problemi
che riguardano le persone handicappate:
-
il diritto ad essere sostenute nella ricerca della massima autonomia personale;
- il diritto ad una scuola dell'infanzia e
dell'obbligo per tutti, senza una esclusione a priori sulla base di impossibili
criteri di presunta gravità;
-
il diritto a vedere individuate, riconosciute e valorizzate le proprie
potenzialità;
-
il diritto a veder riconosciuta la capacità lavorativa;
- il diritto alle cure sanitarie; non a qualunque
cura o a qualunque servizio (ad esempio, la riabilitazione va garantita per
quanto possibile là dove le persone con handicap vivono, per impedire il
ricovero in strutture speciali);
-
il diritto a vivere come gli altri, con gli altri.
Il diritto a vedere riconosciuta la capacità
lavorativa
È necessario, ancora, soffermarsi su uno dei diritti
poc'anzi citati: il diritto a veder riconosciuta la capacità lavorativa (7). E
ciò per alcuni motivi:
1. per l'importanza che il lavoro ha nella conquista
dell'autonomia e anche solo di una relativa autonomia;
2. per l'importanza che il problema riveste proprio
in ordine alla definizione di handicap: non si può negare che esistono persone
handicappate con piena capacità
lavorativa, persone handicappate con ridotta
capacità lavorativa, persone handicappate con nulla capacità lavorativa. È logico che gli strumenti per favorire
l'integrazione lavorativa non possono essere eguali per tutti; che senso
avrebbe, ad esempio, dare incentivi ai datori di lavoro per assumere una
persona handicappata con piena capacità lavorativa?;
3. per l'orientamento, a nostro avviso preoccupante,
assunto in questi ultimi anni da alcune Regioni italiane che hanno legiferato
in materia (8). La prima inaccettabile impostazione di tali leggi riguarda la
erogazione di contributi anche nel caso di assunzione di persone con handicap
in grado di svolgere attività lavorative con un rendimento uguale alle persone
non handicappate. La seconda fonte di allarme è che le incentivazioni previste
per le cooperative non riguardano le altre aziende pubbliche e private che
assumono persone handicappate aventi le stesse caratteristiche;
4. mentre abbastanza numerose sono le leggi regionali
che favoriscono economicamente le cooperative che assumono handicappati (senza
riferimento alla capacità lavorativa, che può essere anche piena), non si sono
compiuti passi avanti rispetto alla legge relativa al collocamento
obbligatorio di handicappati nelle normali aziende pubbliche e private. Sono
trascorsi ben ventiquattro anni dal 1968 e nemmeno la legge 104/1992 vi
provvede, rimandando a successive disposizioni.
Qualche esempio della legislazione regionale
1. Legge della Regione Lazio
La Legge della Regione Lazio n. 9 del 14 gennaio
1987 stabilisce che «per cooperative integrate
si intendono le imprese cooperative che abbiano fra i loro soci lavoratori una
percentuale non inferiore a130 per cento di cittadini che presentino una
riduzione permanente delle proprie capacità lavorative causate da invalidità
fisiche, psichiche o sensoriali. Di questa percentuale almeno il 50 per cento
deve essere costituito da persone con invalidità superiore a uguale ai due
terzi».
I
contributi assegnati riguardano:
a) il concorso alla formazione del capitale sociale
per un importo non superiore a tre volte la quota del capitale sottoscritto e
versato;
b) l'attuazione di progetti di sviluppo in misura non
superiore al 50 per cento della spesa totale riconosciuta ammissibile;
c) il rimborso delle spese sostenute per
l'adeguamento del posto di lavoro o per modificazioni di attrezzature e/o
strumentazioni resesi necessarie per l'inserimento dei lavoratori portatori di
handicaps fino ad un massimo di 5 milioni;
d) gli oneri previdenziali ed assistenziali obbligatori
effettivamente sostenuti, relativi ai lavoratori handicappati;
e) le borse di lavoro nominative fino ad un importo
massimo di lire 5 milioni a soci lavoratori di cooperative integrate od a
dipendenti delle stesse portatori di handicaps finalizzate in particolare
all'avvio di nuove produzioni che richiedono una fase di apprendimento o tirocicinio.
2. Legge della Regione Veneto
Secondo la legge della Regione Veneto 19 marzo 1987
n. 20, «si intendono cooperative di
promozione e solidarietà umana e civile quelle di produzione e lavoro e di
servizi che annoverano fra i soci persone in condizione di disagio fisico,
psichico e relazionale, ivi compresi i detenuti o i dimessi dal carcere».
Alle società cooperative che «annoverano tra i soci lavoratori almeno il 30% di persone in condizione
di documentato disagio fisico, psichico e relazionale, sono assegnati
contributi annui in ragione di L. 4.000.000 per socio in condizione di disagio
e regolarmente inquadrato ai fini contributivi e previdenziali e per un
importo complessivo non superiore a L. 48.000.000 per ciascuna cooperativa».
Inoltre la Regione eroga contributi alle cooperative
(che possono anche avere nemmeno un lavoratore handicappato o in condizione di
disagio) che gestiscono servizi socio-educativo-assistenziali per il concorso
nelle spese:
a)
di dotazione di attrezzature necessarie al servizio;
b) di partecipazione di soci ai corsi, seminari e
stages attinenti all'area di attività della società cooperativa medesima.
La legge 20/1987 precisa che i contributi di cui
sopra «sono assegnati fino a un massimo
del 50 per cento delle spese ammissibili».
3. Legge della Regione Trentino-Alto Adige
In base alla legge 22 ottobre 1988 n. 24 della
Regione Trentino-Alto Adige, «la cooperativa
di solidarietà sociale ha come scopo la promozione umana e l'integrazione
sociale dei soggetti, soci e non soci, socialmente svantaggiati (...)».
Ai sensi dell'art. 3 della legge suddetta «sono socialmente svantaggiati coloro che
per cause oggettive e soggettive non sono in grado, senza adeguato intervento,
di integrarsi positivamente nell'ambiente in cui vivono sotto il profilo
fisico, psicologico, familiare, culturale, professionale ed economico, nonché
con riguardo all'età, ed in genere, coloro che sono ritenuti bisognosi di intervento
socio-assistenziale».
L'art. 6 precisa che «le cooperative di produzione e lavoro integrate hanno lo scopo
dell'inserimento lavorativo permanente di invalidi fisici, psichici, sensoriali, nonché
dell'inserimento temporaneo degli altri soggetti di cui all'art. 3, bisognosi
di avviamento al lavoro. Almeno il 30 per cento dei soci lavoratori retribuiti,
che ad esse partecipano, deve presentare una riduzione permanente non inferiore
ai due terzi delle proprie capacità lavorative».
4. Legge della Regione Piemonte
Con la legge 16 agosto 1989 n. 48, la Regione
Piemonte ha emanato norme per promuovere e favorire «la cooperazione sociale, come efficace strumento per il reinserimento
lavorativo, economico e sociale dei cittadini svantaggiati».
La
legge suddetta considera soggetti svantaggiati:
«a) gli
invalidi fisici, psichici e sensoriali con residua capacità
lavorativa e con invalidità non inferiore al 45%;
b) i
soggetti in stato di emarginazione temporanea o permanente segnalati dai
servizi socio-sanitari degli Enti locali e delle Unità socio-sanitarie locali
o dagli organi giudiziari e per i quali sia avviato un progetto di recupero sociale».
I contributi regionali sono erogati alle cooperative
che annoverano al loro interno, in qualità di soci o, qualora non ne abbiano i
requisiti giuridici, in qualità di dipendenti, soggetti svantaggiati:
a) «in grado di
svolgere in modo prevalentemente autonomo il proprio lavoro, impiegati in attività
produttive di beni e di servizi regolarmente remunerate, in numero non
inferiore al 40% dei soci»;
b) «i quali
necessitano per lo svolgimento del proprio lavoro di adeguati supporti forniti
anche attraverso l'utilizzo delle risorse umane e materiali del volontariato,
al fine di favorirne l'inserimento, l'integrazione sociale e l'avviamento al
lavoro; in tali cooperative i soggetti svantaggiati devono essere presenti in
numero non inferiore al 40% dei soci lavoratori e dei dipendenti».
Alle cooperative di cui alla precedente lettera a),
la Regione Piemonte concede «un
contributo annuale a parziale copertura degli oneri previdenziali-assistenziali
di legge regolarmente versati all'INPS per soggetti svantaggiati, inseriti come
soci lavoratori o, qualora non ne abbiano i requisiti giuridici, come
dipendenti, in misura pari a:
«a) 50% degli oneri per i primi 10 soci
lavoratori svantaggiati;
«b)
40% degli oneri per i soci lavoratori svantaggiati
da 11 a 50;
«c) 25% degli oneri per i soci
lavoratori svantaggiati da 51 ed oltre».
Inoltre la Regione Piemonte, oltre a promuovere «l'affidamento di forniture e servizi da
parte degli enti locali alle cooperative», concede contributi in conto
capitale per l'avvio dei progetti di sviluppo nella misura dell'80% della spesa
ritenuta ammissibile, con un tetto massimo di 50 milioni per ciascun progetto.
5. Legge della Regione
Lombardia
La Regione Lombardia ha emanato la legge 27 novembre
1989 n. 67 con lo scopo di «contribuire
a rendere effettivo il diritto al lavoro e alla elevazione professionale dei
cittadini in stato o a rischio di emarginazione».
La
Regione interviene con incentivi finanziari così articolati:
a) «per le
nuove cooperative o le cooperative che si sono formate da meno di un anno dalla
data di presentazione della richiesta, contributi per le spese di costituzione
e di primo impianto nei limiti del 75% delle spese previste nel progetto di
realizzazione dell'iniziativa per il primo anno e del 50% per il secondo anno»;
b) «contributi
in conto capitale per l'acquisto di beni strumentali e per costi pluriennali
ammortizzabili fino al 70% dell'investimento previsto»;
c) «contributi
a consorzi cooperativi promossi (...), in base a progetti per attività
consortili relative a prestazioni di servizi, concessione di finanziamenti ed
anticipazioni, qualificazione e formazione professionale, assistenza e
promozione di nuove iniziative»;
d) «contributi
a fondo perduto per ogni nuova assunzione di soggetti» in stato o a rischio
di emarginazione, «qualora il soggetto
assunto presti la propria opera lavorativa per almeno sei mesi».
Alcune osservazioni critiche sulla legislazione
regionale
Dall'analisi delle leggi delle Regioni Lazio, Veneto,
Trentino-Alto Adige, Piemonte e Lombardia, risulta confermato che le
incentivazioni economiche vengono erogate alle cooperative anche nei casi di
assunzione di handicappati con piena capacità lavorativa. Anzi, le Regioni Veneto
e Trentino-Alto Adige prevedono che i fondi possano essere assegnati anche a
persone senza alcun handicap. La legge del Veneto si riferisce a persone «in condizione di disagio fisico, psichico
e relazionale», senza alcuna altra precisazione. Anche la legge del
Trentino-Alto Adige attribuisce fondi per l'inserimento lavorativo di
cittadini anche non handicappati, riguardando quelli definiti in modo
assolutamente generico «socialmente
svantaggiati». La legge piemontese concerne non solo gli handicappati veri
e propri, ma anche «i soggetti in stato
di emarginazione temporanea o permanente»; quella della Lombardia include
anche coloro che sono «in stato o a
rischio di emarginazione».
Si osservi che né il "disagio", né lo
"svantaggio sociale", né lo "stato o rischio di emarginazione"
sono oggetto di una qualsiasi regolamentazione a livello nazionale e
regionale. Ne deriva il rischio che i fondi vengano utilizzati per soggetti che
nulla hanno a che vedere con l'handicap.
A
ben vedere, poi, tutti i cittadini sono "a rischio di
emarginazione".
Ricordiamo, inoltre, che i contributi regionali
vengono erogati, in base alle leggi sopra citate, esclusivamente alle
cooperative e non alle altre organizzazioni aziendali che intendono assumere
handicappati: esclusione che solleva dubbi sulla volontà di un reale
inserimento lavorativo delle persone con menomazioni fisiche, sensoriali e/o
intellettive.
Altro aspetto preoccupante è il rapporto istituzionale
delle cooperative con gli assessorati regionali e locali all'assistenza,
anziché a quelli preposti alle attività imprenditoriali. È questo un elemento
che caratterizza di per sé in senso assistenzialistico non solo la
cooperativa, ma anche il tipo di inserimento dei soggetti handicappati, oltre
che - evidentemente - di quelli che handicappati non sono.
Tale orientamento delle Regioni è purtroppo stato
assunto anche dalla legislazione nazionale. E ciò è tanto più preoccupante in
riferimento ad una mancata reimpostazione del problema dell'handicap, sulla
base dei nodi emergenti che sono stati citati. È significativo che la legge-quadro
sull'handicap, all'art. 18, non ribadisce il diritto all'integrazione
lavorativa, ma finanzia istituzioni ed organizzazioni che svolgono non meglio
precisate attività dirette a favorire
l'inserimento al lavoro.
Ci pare dunque chiaro che l'obiettivo politico è
quello di orientare gli inserimenti lavorativi degli handicappati soprattutto
in enti, istituzioni, associazioni, cooperative e non nelle normali aziende, a
fianco degli altri lavoratori.
Necessità di una ridefinizione
dell'handicap
C'è da augurarsi che la legge di riforma del
collocamento obbligatorio possa ora riprendere il suo cammino tenendo conto
anche di queste considerazioni, eliminando così alcune macroscopiche
contraddizioni oggi presenti. II testo licenziato dal Senato non distingue le
persone handicappate con totale, ridotta o nulla capacità lavorativa. In
compenso, prevede agevolazioni ai datori di lavoro anche per l'assunzione di
handicappati con totale capacità lavorativa.
A questo scopo, verrebbe istituito un Fondo occupazione disabili. Tale fondo
funzionerebbe prevalentemente grazie alle sanzioni che i datori di lavoro
dovrebbero pagare se non assumono gli handicappati. Paradossalmente, se tutti i
datori assumessero gli handicappati previsti dalla quota di legge, il Fondo
non potrebbe funzionare e lo Stato non saprebbe dove reperire le risorse per
dare gli incentivi economici previsti. Una non chiara ridefinizione del
problema dell'handicap comporta anche questi assurdi.
(*) Direttore delle collana "Quaderni di promozione sociale".
(1) Per un inquadramento ed una
disamina delle diverse definizioni di handicap a livello internazionale,
italiano e regionale, cfr., fra gli altri: S. BEGHELLI, Alunni con handicap: classificazione, certificazione, programmazione,
Ed. Juvenilia, Bergamo, 1985, in particolare la parte I. Cfr., inoltre: A.
OSSICINI, Oltre le barriere,
Bariletti Editori, Roma, 1991, in particolare i capitoli 4 e 5. Nella Appendice
1 è riportata per esteso la proposta di classificazione dell'Organizzazione
Mondiale della Sanità.
(2) Cfr.: Legge 5 febbraio 1992, n.
104, "Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti
delle persone handicappate", in Gazzetta
ufficiale, n. 39 del 17 febbraio 1992, suppl. ord.
(3) Cfr.: G.
SELLERI, "Handicappati fisici e
handicappati sociali", in Il Mulino,
n. 312, luglio-agosto 1987.
(4) Cfr.: "Handicappati e
società: quali valori, quali diritti, quali doveri", in Prospettive assistenziali, n. 88,
ottobre-dicembre 1989, pp. 23-26.
(5) Cfr.: A. CANEVARO, J. GAUDREAU, L'educazione degli handicappati, Nis, Roma, 1988, pp. 47 e segg. Si noti che Itard lo
fa in aperta contraddizione con Pinel, lo psichiatra che pure passerà alla
storia come colui che «tolse le catene ai pazzi», ma che nei confronti del
selvaggio dell'Aveyron firma una inappellabile diagnosi di irrecuperabilità.
Oggi, rispetto ai tempi di Itard, abbiamo a disposizione molti più strumenti
di analisi e di intervento, eppure il giudizio sulla presunta "non
educabilità" di alcune persone con handicap, sulla presunta impossibilità
di far raggiungere livelli anche minimi - ma vitali - di autonomia, rischia di
essere sostanzialmente quello di Pinel nei confronti del sauvage.
(6) Cfr.: "Ritardo mentale o
malattia mentale?", in Conoscere
l'handicap, n. 1, settembre/dicembre 1987, pp. 52-58. Anche Ossicini
conviene che «le classificazioni storiche non sono più valide. Oltretutto,
esistono molte altre cause e forme di quello che viene chiamato ritardo mentale». Cfr.: A. OSSICINI,
cit., pp. 44 e segg.
(7) Cfr.: "Handicappati e
società: quali strategie per il lavoro", in Prospettive assistenziali, n.
93, gennaio-marzo 1991, pp. 30-39.
(8) Cfr., ad esempio: Legge Regione
Veneto n. 20 del 19 marzo 1987; Legge Regione Trentino Alto-Adige n. 24 del 22
ottobre 1988; Legge Regione Piemonte n. 48 del 16 agosto 1989; Legge Regione
Lombardia n. 67 del 27 novembre 1989.
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