Prospettive assistenziali, n. 99, luglio-settembre 1992

 

 

COME E PERCHÉ RIDEFINIRE IL PROBLEMA "HANDICAP"

MARIO TORTELLO (*)

 

 

Questa nota non ha lo scopo di mettere a confronto le diverse definizioni di handicap (1), né pretende di formularne tout court una nuova. L'obiettivo è quello di sottolineare alcuni aspetti emergenti sui quali ci pare necessario fondare una ridefinizione del problema complessivo dell'handicap:

- la necessità di superare il luogo comune che identifica sempre e comunque la situazione di handicap con quella di una persona non-abile e che necessita di continua assistenza;

- l'esigenza di vedere riconosciuta la capaci­tà lavorativa (che può essere piena, ridotta o nul­la, anche in riferimento alla relativa situazione di collocamento al lavoro);

- l'urgenza di giungere ad una distinzione an­che lessicale fra handicap intellettivo e malattia mentale, non per determinare nuove discrimina­zioni e conseguenti emarginazioni, ma per evi­denziare le diverse esigenze e prevedere inter­venti idonei di integrazione sociale.

 

Partire dalle esigenze delle persone

Può sembrare pleonastico sostenere che, af­finché gli interventi sociali siano adeguati, oc­corre che essi partano dalle effettive esigenze delle persone e dei nuclei familiari. Per le perso­ne con handicap questa necessità si manifesta in misura maggiore degli altri cittadini, proprio in relazione ai loro bisogni aggiuntivi rispetto a quelli del resto della popolazione.

Non di interventi assistenziali hanno priorita­riamente bisogno tutte le persone con handicap, ma - e questo ci sembra il punto centrale del problema - di poter essere sostenute nella ri­cerca della massima indipendenza e della mas­sima autonomia possibile e, di conseguenza, nel poter usufruire del massimo inserimento socia­le, scolastico e lavorativo.

Non è sufficiente sapere se la persona handi­cappata è spastica, cieca, sorda...

Non è sufficiente sapere se ha il 40, il 60 e il 100 per cento di invalidità.

Non è sufficiente, perché non permette di ca­pire i suoi bisogni in misura adeguata e di trova­re le risposte conseguenti.

C'è bisogno di sapere, semmai:

- come e quanto questa persona è autonoma; - se può, e in quale misura, diventarlo con l'aiuto di ausili e con l'adattamento dell'ambien­te, con una attività di riabilitazione, con l'aiuto di un'altra persona, ecc.;

- se tale autonomia aumenta o regredisce a seconda delle persone che la circondano (si­gnificativo è l'esempio che si riferisce ai diversi livelli di autonomia di un bambino handicappato a casa e a scuola);

- se è necessario un intervento (e quale) in grado di mantenere certi livelli di autonomia ed evitare regressioni in certi casi irreversibili.

 

Classificazioni obsolete

Tuttavia, per ciò che riguarda l'handicap, sia­mo ancora fermi a classificazioni create alcuni decenni or sono. Si continua a parlare, cioè:

- di handicappati fisici (para e tetraplegici, spastici, mutilati),

- di handicappati sensoriali (ciechi, sordi),

- di handicappati psichici.

Anche l'ulteriore specificazione è estrema­mente generica: lieve, medio, medio-grave, gra­ve e gravissimo.

È chiaro, invece, che differenti sono gli inter­venti sociali necessari a dare idonee risposte al­le diverse situazioni di handicap (pensioni, inva­lidità, inserimento lavorativo...) e che, ai fini di stabilire tipologia e durata della prestazione, non è sufficiente il solo riferimento a questa ob­soleta classificazione.

La legge-quadro sull'handicap (2) non fa ec­cezione.

Recita l'art. 3, comma 1:

«È persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficol­tà di apprendimento, di relazione o di integrazio­ne lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione».

Nel definire poi all'art. 3, comma 3, la situazio­ne che «assume connotazione di gravità», il le­gislatore parla di «un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione».

Quali possono essere le conseguenze negati­ve di tale classificazione?

Innanzitutto, questo modo con cui si continua a definire l'handicap, che mette in primo piano i diversi deficit, finisce con il connotare negativa­mente le persone handicappate. Infatti, esse per definizione avrebbero per sempre qualcosa di "mancante" che li differenzia senza scampo dal­le persone cosiddette nella norma.

Anche il generico riferimento alle cosiddette capacità residue rispetto alla minorazione può essere oggetto di nuove discriminazioni e pro­vocare ulteriori ripiegamenti su semplici (e poco onerosi) interventi assistenziali.

L'identificazione dell'handicap con il deficit ri­schia non solo di avvolgere il cieco, il sordo, l'in­valido per tutta la vita, ma di interessare tutto il suo essere: essere "handicappato" significhe­rebbe, pertanto, avere sempre e comunque una ridotta capacità lavorativa, essere un malato permanente o, peggio, un soggetto bisognoso di assistenza continua.

Anche altre denominazioni rischiano, a nostro avviso, di connotare negativamente la persona con handicap: c'è chi parla di in-validi, chi di in­-abili, chi di dis-abili. Pur ammettendo che la pa­rola handicap può assumere una valenza nega­tiva, i termini ora ricordati possono far ritenere genericamente che tutti gli handicappati sono automaticamente da considerare né abili, né va­lidi.

Ora, poiché nell'attuale società il concetto di abilità è molto importante ai fini dell'inserimento lavorativo e sociale, lasciar intendere che tutti gli handicappati sono persone disabili può avere gravi conseguenze negative ai fini di una reale integrazione.

Va osservato, al riguardo, che vi sono ancora associazioni che conservano la denominazione "in-validi": civili, del lavoro, di guerra... A volte, sono le associazioni stesse ad incentivare la ca­ratterizzazione negativa degli handicappati; ad esempio, richiedendo agli assessorati all'assi­stenza di provvedere ai loro aderenti mediante servizi e prestazioni che nulla hanno a che fare con gli interventi di competenza assistenziale. Trasporti per handicappati, attività di formazione professionale o prelavorativa, attività ricreative, sostegno alla frequenza scolastica sono alcuni esempi di gestione spesso richiesta ed assicu­rata dal settore assistenziale che finiscono con l'emarginare gli handicappati, separandoli dagli utenti "normali" degli stessi servizi.

Come osserva giustamente Gianni Selleri, «le associazioni storiche operano soprattutto nella prospettiva dell'assistenzialismo, dell'ottenimen­to dei risarcimenti e di privilegi; ciò ha determi­nato una separazione psicologica e sociale degli handicappati» (3).

Per converso, si può ricordare che una delle rivendicazioni costantemente avanzate a Torino dal Coordinamento sanità e assistenza fra i mo­vimenti di base (CSA) in questi ultimi 22 anni, è stata la richiesta che nei confronti degli handi­cappati intervengano i settori della casa, della sanità, dell'istruzione, della formazione profes­sionale, del lavoro, dei trasporti, ecc., compe­tenti nei confronti della popolazione non handi­cappata.

 

Fuori dal tunnel dell'assistenza

È evidente a tutti che ad un determinato deficit non corrisponde automaticamente una certa dif­ficoltà. L'handicap che ne consegue dipende da molti fattori: dal grado della minorazione, dal­l'autonomia acquisita, dall'ambiente fisico e so­ciale circostante...

È stato giustamente osservato che «il lavoro è un valore che contribuisce a realizzare la perso­na umana, oltre che a fornirgli la possibilità di sostentamento, di produzione di materiale e quindi di autonomia». Pertanto, «se riconoscia­mo la centralità della persona, a maggior ragio­ne va ribadito il principio dell'inserimento della persona handicappata a pieno titolo nella socie­tà attraverso il lavoro, il solo mezzo che permet­te il raggiungimento di una vera autonomia, non­ché fattore determinante per la realizzazione della persona».

Non solo, ma va riconosciuto che il diritto al lavoro è il «fulcro culturale attorno al quale rico­struire la cultura dell'integrazione (...) dal quale prendono forma e consistenza il diritto alla for­mazione professionale, alla scuola, ai servizi di territorio, al poter restare il più a lungo possibile a casa propria, nel proprio ambiente» (4).

Del resto, va ribadito che solo una parte molto limitata di handicappati ha bisogno di prestazio­ni assistenziali. Tutti, invece, hanno il diritto di poter accedere ai normali servizi abitativi, edu­cativi, formativi, culturali, di trasporto, sportivi... E si tratta di interventi che debbono essere garan­titi non dal settore assistenziale, ma da quei set­tori che si occupano della casa, dell'istruzione, della formazione professionale, dei trasporti pubblici per tutti i cittadini.

Tornando alla definizione di handicap data dalla legge-quadro, dobbiamo osservare innan­zitutto, sin a partire dal titolo, che non viene data la priorità alla predisposizione di quei servizi e di quegli interventi che possono assicurare il rag­giungimento della massima autonomia possibile per ciascun soggetto; ma alla assistenza. Recita il titolo della legge 104/1992: "Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate". Secondo il legi­slatore, la tutela dei diritti viene dopo l'intervento assistenziale.

 

Una definizione di handicap troppo rigida

Rileggiamo la definizione di handicap conte­nuta all'art. 3, comma 1.

Questa formulazione non tiene conto, a nostro avviso, di quattro aspetti fondamentali da pren­dere in considerazione se si vuole veramente partire dalle esigenze delle persone handicap­pate:

1) non tiene conto della dinamicità della situa­zione e cioè del profondo intreccio fra deficit, capacità residue dei soggetti, strumenti tecno­logici, situazioni familiari e sociali, influenza dell'ambiente;

2) non tiene conto della modificabilità della si­tuazione; merita ricordare che, alla fine del '700, Jean-Marc Gaspard Itard, occupandosi del­l'educazione dell'enfant sauvage dell'Aveyron, parte proprio dal rifiuto del pessimismo medico e indica tra i presupposti indispensabili per fis­sare gli obiettivi pedagogici la fondamentale convinzione della perfettibilità di tutti gli esseri umani (5);

3) non tiene conto delle estreme diversità del­le conseguenze delle diverse tipologie di handi­cap; ad esempio, non si può generalizzare, met­tendo insieme l'handicap fisico con quello intel­lettivo;

4) non distingue l'handicap intellettivo (cioè, l'insufficienza mentale) dall'handicap psichico (cioè, la malattia mentale). Gli insufficienti intel­lettivi sono soggetti con caratteristiche molto di­verse da quelle dei malati mentali; quindi, anche le esigenze non sono assimilabili. Crediamo sia importante approfondire questo problema, pro­prio perché la mancanza di chiarezza di tali aspetti ha avuto come conseguenza, per anni, l'esclusione degli insufficienti intellettivi dal lavo­ro. Gli stessi ricorsi presentati negli anni scorsi alla Corte Costituzionale hanno confuso i due gruppi di soggetti con gravissime conseguenze per gli handicappati intellettivi. Molti di essi, in­fatti, sono stati così respinti dal collocamento al lavoro obbligatorio e costretti alla dipendenza familiare o assistenziale.

 

Handicap intellettivo e malattia mentale

Noi crediamo sia importante insistere sulla differenza tra handicap intellettivo e malattia mentale. Sul tema, è stata diffusa da Bruxelles, nel 1981, una apposita "Raccomandazione", cu­rata dalla Lega internazionale delle Associazioni per persone portatrici di handicap (6).

Tale "Raccomandazione" precisa che «nel si­gnificato oggi generalmente attribuito a questo termine, il ritardo intellettivo si compone di due elementi essenziali inerenti all'età biologica e al­la cultura sociale:

a) funzionamento delle facoltà intellettive de­cisamente inferiore alla media e corrispondente, in termini di età, ai primi anni di vita;

b) notevole difficoltà di adattamento alle esi­genze culturali della società».

L'handicap intellettivo «non costituisce di per sé una malattia; si tratta molto semplicemente della manifestazione di tutta una serie di situa­zioni dovute a disordini biologici o a lesioni or­ganiche, nonché ad altri motivi molto più com­plessi di natura sociale o psicologica. In molti casi, addirittura, l'origine precisa del ritardo in­tellettivo permane sconosciuta».

Poiché il ritardo intellettivo «è un problema che investe fondamentalmente lo sviluppo dell'individuo, i servizi dovrebbero proporsi co­me obiettivo quello di sollecitare la persona nel processo di apprendimento e potenziamento delle proprie capacità, in modo tale da accre­scere la sua competenza e autonomia. A questo scopo, si rivela molto più efficace l'applicazione di metodi d'apprendimento piuttosto che il ricor­so a cure mediche».

Dopo aver sottolineato che cosa si intende, invece, per disturbi psichiatrici, la "Raccoman­dazione" osserva che «le persone portatrici di un handicap intellettivo hanno delle esigenze proprie diverse da quelle dei malati di mente» e che «è giunto il momento di separare nettamen­te i servizi»: «La legislazione stessa dovrebbe prevedere delle disposizioni amministrative di­verse per la malattia mentale e per il ritardo in­tellettivo».

 

Nuovi riferimenti per una definizione di handicap

Tornando alla definizione di handicap conte­nuta nella legge-quadro, è chiaro che per mol­tissime persone handicappate - a partire da quelle con deficit fisici - questo modo di conti­nuare ad identificare l'handicap non solo non è applicabile, ma può ostacolare di fatto il rag­giungimento di successivi traguardi.

Per tutti, sia sufficiente citare l'ex presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt. Chi può considerarlo un dis-abile (cioè un non-vali­do) perché poliomielitico? Anzi, nel suo campo di lavoro era un abilissimo.

Vi è chi può osservare che se Roosevelt non fosse stato un bianco americano benestante e colto, ma un nero della Savana africana costret­to a procurarsi il cibo cacciando, non avrebbe avuto la stessa felice sorte. Ma si può replicare, anche, che la felice sorte di Roosevelt è dovuta al fatto che la sua compromissione era solo fisi­ca, che egli non ha accettato che tale compro­missione diventasse un tutt'uno con la sua per­sona (non si è cioè ritenuto un dis-abile), che, trovato un ambiente accettante o almeno non ostile, ha avuto a disposizione strumenti tecnici adeguati, ecc.

E la triste sorte del nero della Savana sarebbe toccata anche ad un bianco rifiutato dalla sua famiglia o che si fosse intestardito a fare, al di là delle aspettative dell'ambiente, un lavoro ritenu­to non idoneo rispetto alle sue compromissioni, senza consentire una progressiva evoluzione della sua autonomia.

Sia sufficiente ricordare, a questo proposito, l'importanza da un lato di un collocamento al la­voro "mirato" e non generico e, d'altro lato, di in­terventi di integrazione e di socializzazione che vengano predisposti «nel pieno rispetto delle scelte culturali della persona handicappata» (legge n. 104/1992, art. 12, comma 5). Si tratta di aspetti che, a nostro avviso, debbono diventa­re elementi centrali della nuova legge sul collo­camento obbligatorio.

A questo punto, possiamo dire che se il deficit che sta alla base dell'handicap è sinonimo di minorazione fisica, sensoriale, intellettiva o as­sociate, avere una minorazione non significa tout court essere minorato (il che nel linguaggio comune viene inteso in senso estensivo, cioè ri­guardante tutta la persona), né tanto meno es­sere dis-abile. Questo ci sembra essere il punto centrale del problema.

Restiamo convinti, perciò, che per una diversa impostazione dei problemi delle persone con handicap siano necessari alcuni nuovi riferi­menti, non ancora rintracciabili nelle varie defi­nizioni di handicap e non chiaramente indicati dalla legge-quadro.

1. Un primo riferimento fondamentale ci pare quello della autonomia. Per le persone con han­dicap, i deficit e le relative compromissioni com­portano difficoltà nella loro autonomia personale e limitazioni nelle scelte professionali. Tali diffi­coltà e tali limitazioni sono legate alle capacità dei soggetti di utilizzare tutte le loro potenzialità, agli strumenti tecnologici disponibili e alla situa­zione familiare e sociale in cui la persona è in­serita.

2. Mediante adeguati servizi, molte persone con handicap fisici e sensoriali possono rag­giungere livelli di professionalità e conseguire capacità lavorative pari a quelle degli altri citta­dini.

3. Per le persone con handicap intellettivo, idonei interventi sono in grado di assicurare li­velli di autonomia e capacità lavorative per lo svolgimento di mansioni semplici nei normali posti di lavoro.

4. Per le persone con gravi compromissioni sul piano intellettivo, essendo di conseguenza escluse le possibilità di inserimento lavorativo, è necessario assicurare comunque prestazioni fi­nalizzate al raggiungimento della massima auto­nomia possibile e dirette a garantire condizioni di vita adeguate alle loro esigenze.

Partendo da tali premesse, è evidente che per le persone con handicap, è necessaria una inte­sa fra vari settori (sanità, scuola, formazione professionale, casa, lavoro, trasporti, ecc.) per creare le condizioni favorevoli non solo alla cura ed alla riabilitazione, ma anche per un adeguato inserimento sociale, fondato non sull'assisten­zialismo, ma sulla massima autonomia possibile dei soggetti. Ovviamente, l'assistenza deve es­sere riservata alle persone incapaci di provve­dere autonomamente a se stesse.

Questa autonomia si raggiunge non solo me­diante una attiva collaborazione dei soggetti in­teressati e dei loro familiari e mettendo a dispo­sizione le necessarie tecnologie, ma anche con­sentendo alle persone con handicap di utilizzare i servizi e le strutture disponibili per i cittadini non handicappati. Da qui, l'esigenza dell'inseri­mento prescolastico, scolastico e lavorativo, l'uso delle normali abitazioni, dei trasporti pub­blici, eccetera.

Potremmo ora, sotto il profilo dell'autonomia e tenendo presenti i riferimenti citati, riprendere e rileggere tutti i problemi che riguardano le per­sone handicappate:

- il diritto ad essere sostenute nella ricerca della massima autonomia personale;

- il diritto ad una scuola dell'infanzia e dell'obbligo per tutti, senza una esclusione a priori sulla base di impossibili criteri di presunta gravità;

- il diritto a vedere individuate, riconosciute e valorizzate le proprie potenzialità;

- il diritto a veder riconosciuta la capacità la­vorativa;

- il diritto alle cure sanitarie; non a qualunque cura o a qualunque servizio (ad esempio, la ria­bilitazione va garantita per quanto possibile là dove le persone con handicap vivono, per impe­dire il ricovero in strutture speciali);

- il diritto a vivere come gli altri, con gli altri.

 

Il diritto a vedere riconosciuta la capacità lavorativa

È necessario, ancora, soffermarsi su uno dei diritti poc'anzi citati: il diritto a veder riconosciu­ta la capacità lavorativa (7). E ciò per alcuni mo­tivi:

1. per l'importanza che il lavoro ha nella con­quista dell'autonomia e anche solo di una relati­va autonomia;

2. per l'importanza che il problema riveste proprio in ordine alla definizione di handicap: non si può negare che esistono persone handi­cappate con piena capacità lavorativa, persone handicappate con ridotta capacità lavorativa, persone handicappate con nulla capacità lavo­rativa. È logico che gli strumenti per favorire l'in­tegrazione lavorativa non possono essere eguali per tutti; che senso avrebbe, ad esempio, dare incentivi ai datori di lavoro per assumere una persona handicappata con piena capacità lavo­rativa?;

3. per l'orientamento, a nostro avviso preoc­cupante, assunto in questi ultimi anni da al­cune Regioni italiane che hanno legiferato in materia (8). La prima inaccettabile impostazione di tali leggi riguarda la erogazione di contributi anche nel caso di assunzione di persone con handicap in grado di svolgere attività lavorative con un rendimento uguale alle persone non handicappate. La seconda fonte di allarme è che le incentivazioni previste per le cooperative non riguardano le altre aziende pubbliche e pri­vate che assumono persone handicappate aventi le stesse caratteristiche;

4. mentre abbastanza numerose sono le leggi regionali che favoriscono economicamente le cooperative che assumono handicappati (senza riferimento alla capacità lavorativa, che può es­sere anche piena), non si sono compiuti passi avanti rispetto alla legge relativa al collocamen­to obbligatorio di handicappati nelle normali aziende pubbliche e private. Sono trascorsi ben ventiquattro anni dal 1968 e nemmeno la legge 104/1992 vi provvede, rimandando a successi­ve disposizioni.

 

Qualche esempio della legislazione regionale

 

1. Legge della Regione Lazio

La Legge della Regione Lazio n. 9 del 14 gen­naio 1987 stabilisce che «per cooperative inte­grate si intendono le imprese cooperative che abbiano fra i loro soci lavoratori una percentuale non inferiore a130 per cento di cittadini che pre­sentino una riduzione permanente delle proprie capacità lavorative causate da invalidità fisiche, psichiche o sensoriali. Di questa percentuale al­meno il 50 per cento deve essere costituito da persone con invalidità superiore a uguale ai due terzi».

I contributi assegnati riguardano:

a) il concorso alla formazione del capitale so­ciale per un importo non superiore a tre volte la quota del capitale sottoscritto e versato;

b) l'attuazione di progetti di sviluppo in misura non superiore al 50 per cento della spesa totale riconosciuta ammissibile;

c) il rimborso delle spese sostenute per l'adeguamento del posto di lavoro o per modifi­cazioni di attrezzature e/o strumentazioni resesi necessarie per l'inserimento dei lavoratori por­tatori di handicaps fino ad un massimo di 5 mi­lioni;

d) gli oneri previdenziali ed assistenziali obbli­gatori effettivamente sostenuti, relativi ai lavora­tori handicappati;

e) le borse di lavoro nominative fino ad un importo massimo di lire 5 milioni a soci lavora­tori di cooperative integrate od a dipendenti del­le stesse portatori di handicaps finalizzate in particolare all'avvio di nuove produzioni che richiedono una fase di apprendimento o tiroci­cinio.

 

2. Legge della Regione Veneto

Secondo la legge della Regione Veneto 19 marzo 1987 n. 20, «si intendono cooperative di promozione e solidarietà umana e civile quelle di produzione e lavoro e di servizi che annoverano fra i soci persone in condizione di disagio fisico, psichico e relazionale, ivi compresi i detenuti o i dimessi dal carcere».

Alle società cooperative che «annoverano tra i soci lavoratori almeno il 30% di persone in condi­zione di documentato disagio fisico, psichico e relazionale, sono assegnati contributi annui in ra­gione di L. 4.000.000 per socio in condizione di disagio e regolarmente inquadrato ai fini contri­butivi e previdenziali e per un importo complessi­vo non superiore a L. 48.000.000 per ciascuna cooperativa».

Inoltre la Regione eroga contributi alle coope­rative (che possono anche avere nemmeno un lavoratore handicappato o in condizione di disa­gio) che gestiscono servizi socio-educativo-as­sistenziali per il concorso nelle spese:

a) di dotazione di attrezzature necessarie al servizio;

b) di partecipazione di soci ai corsi, seminari e stages attinenti all'area di attività della società cooperativa medesima.

La legge 20/1987 precisa che i contributi di cui sopra «sono assegnati fino a un massimo del 50 per cento delle spese ammissibili».

 

3. Legge della Regione Trentino-Alto Adige

In base alla legge 22 ottobre 1988 n. 24 del­la Regione Trentino-Alto Adige, «la coopera­tiva di solidarietà sociale ha come scopo la promozione umana e l'integrazione sociale dei soggetti, soci e non soci, socialmente svantag­giati (...)».

Ai sensi dell'art. 3 della legge suddetta «sono socialmente svantaggiati coloro che per cause oggettive e soggettive non sono in grado, senza adeguato intervento, di integrarsi positivamente nell'ambiente in cui vivono sotto il profilo fisico, psicologico, familiare, culturale, professionale ed economico, nonché con riguardo all'età, ed in genere, coloro che sono ritenuti bisognosi di in­tervento socio-assistenziale».

L'art. 6 precisa che «le cooperative di produ­zione e lavoro integrate hanno lo scopo dell'inse­rimento lavorativo permanente di invalidi fisici, psichici, sensoriali, nonché dell'inserimento tem­poraneo degli altri soggetti di cui all'art. 3, biso­gnosi di avviamento al lavoro. Almeno il 30 per cento dei soci lavoratori retribuiti, che ad esse partecipano, deve presentare una riduzione per­manente non inferiore ai due terzi delle proprie capacità lavorative».

 

4. Legge della Regione Piemonte

Con la legge 16 agosto 1989 n. 48, la Regione Piemonte ha emanato norme per promuovere e favorire «la cooperazione sociale, come efficace strumento per il reinserimento lavorativo, econo­mico e sociale dei cittadini svantaggiati».

La legge suddetta considera soggetti svan­taggiati:

«a) gli invalidi fisici, psichici e sensoriali con re­sidua capacità lavorativa e con invalidità non in­feriore al 45%;

b) i soggetti in stato di emarginazione tem­poranea o permanente segnalati dai servizi so­cio-sanitari degli Enti locali e delle Unità so­cio-sanitarie locali o dagli organi giudiziari e per i quali sia avviato un progetto di recupero so­ciale».

I contributi regionali sono erogati alle coope­rative che annoverano al loro interno, in qualità di soci o, qualora non ne abbiano i requisiti giu­ridici, in qualità di dipendenti, soggetti svantag­giati:

a) «in grado di svolgere in modo prevalente­mente autonomo il proprio lavoro, impiegati in at­tività produttive di beni e di servizi regolarmente remunerate, in numero non inferiore al 40% dei soci»;

b) «i quali necessitano per lo svolgimento del proprio lavoro di adeguati supporti forniti an­che attraverso l'utilizzo delle risorse umane e materiali del volontariato, al fine di favorir­ne l'inserimento, l'integrazione sociale e l'avvia­mento al lavoro; in tali cooperative i soggetti svantaggiati devono essere presenti in numero non inferiore al 40% dei soci lavoratori e dei di­pendenti».

Alle cooperative di cui alla precedente lettera a), la Regione Piemonte concede «un contributo annuale a parziale copertura degli oneri previ­denziali-assistenziali di legge regolarmente ver­sati all'INPS per soggetti svantaggiati, inseriti co­me soci lavoratori o, qualora non ne abbiano i re­quisiti giuridici, come dipendenti, in misura pari a:

«a) 50% degli oneri per i primi 10 soci lavorato­ri svantaggiati;

«b) 40% degli oneri per i soci lavoratori svan­taggiati da 11 a 50;

«c) 25% degli oneri per i soci lavoratori svan­taggiati da 51 ed oltre».

Inoltre la Regione Piemonte, oltre a promuove­re «l'affidamento di forniture e servizi da parte degli enti locali alle cooperative», concede con­tributi in conto capitale per l'avvio dei progetti di sviluppo nella misura dell'80% della spesa rite­nuta ammissibile, con un tetto massimo di 50 milioni per ciascun progetto.

 

5. Legge della Regione Lombardia

La Regione Lombardia ha emanato la legge 27 novembre 1989 n. 67 con lo scopo di «contri­buire a rendere effettivo il diritto al lavoro e alla elevazione professionale dei cittadini in stato o a rischio di emarginazione».

La Regione interviene con incentivi finanziari così articolati:

a) «per le nuove cooperative o le cooperative che si sono formate da meno di un anno dalla data di presentazione della richiesta, contributi per le spese di costituzione e di primo impianto nei limiti del 75% delle spese previste nel proget­to di realizzazione dell'iniziativa per il primo anno e del 50% per il secondo anno»;

b) «contributi in conto capitale per l'acquisto di beni strumentali e per costi pluriennali ammortiz­zabili fino al 70% dell'investimento previsto»;

c) «contributi a consorzi cooperativi promossi (...), in base a progetti per attività consortili relati­ve a prestazioni di servizi, concessione di finan­ziamenti ed anticipazioni, qualificazione e forma­zione professionale, assistenza e promozione di nuove iniziative»;

d) «contributi a fondo perduto per ogni nuova assunzione di soggetti» in stato o a rischio di emarginazione, «qualora il soggetto assunto presti la propria opera lavorativa per almeno sei mesi».

 

Alcune osservazioni critiche sulla legislazione regionale

Dall'analisi delle leggi delle Regioni Lazio, Ve­neto, Trentino-Alto Adige, Piemonte e Lombar­dia, risulta confermato che le incentivazioni eco­nomiche vengono erogate alle cooperative an­che nei casi di assunzione di handicappati con piena capacità lavorativa. Anzi, le Regioni Vene­to e Trentino-Alto Adige prevedono che i fondi possano essere assegnati anche a persone senza alcun handicap. La legge del Veneto si ri­ferisce a persone «in condizione di disagio fisi­co, psichico e relazionale», senza alcuna altra precisazione. Anche la legge del Trentino-Alto Adige attribuisce fondi per l'inserimento lavora­tivo di cittadini anche non handicappati, riguar­dando quelli definiti in modo assolutamente ge­nerico «socialmente svantaggiati». La legge pie­montese concerne non solo gli handicappati ve­ri e propri, ma anche «i soggetti in stato di emar­ginazione temporanea o permanente»; quella della Lombardia include anche coloro che sono «in stato o a rischio di emarginazione».

Si osservi che né il "disagio", né lo "svantag­gio sociale", né lo "stato o rischio di emargina­zione" sono oggetto di una qualsiasi regolamen­tazione a livello nazionale e regionale. Ne deriva il rischio che i fondi vengano utilizzati per soggetti che nulla hanno a che vedere con l'handicap.

A ben vedere, poi, tutti i cittadini sono "a ri­schio di emarginazione".

Ricordiamo, inoltre, che i contributi regionali vengono erogati, in base alle leggi sopra citate, esclusivamente alle cooperative e non alle altre organizzazioni aziendali che intendono assume­re handicappati: esclusione che solleva dubbi sulla volontà di un reale inserimento lavorativo delle persone con menomazioni fisiche, senso­riali e/o intellettive.

Altro aspetto preoccupante è il rapporto istitu­zionale delle cooperative con gli assessorati re­gionali e locali all'assistenza, anziché a quelli preposti alle attività imprenditoriali. È questo un elemento che caratterizza di per sé in senso as­sistenzialistico non solo la cooperativa, ma an­che il tipo di inserimento dei soggetti handicap­pati, oltre che - evidentemente - di quelli che handicappati non sono.

Tale orientamento delle Regioni è purtroppo stato assunto anche dalla legislazione naziona­le. E ciò è tanto più preoccupante in riferimento ad una mancata reimpostazione del problema dell'handicap, sulla base dei nodi emergenti che sono stati citati. È significativo che la legge-qua­dro sull'handicap, all'art. 18, non ribadisce il di­ritto all'integrazione lavorativa, ma finanzia istitu­zioni ed organizzazioni che svolgono non meglio precisate attività dirette a favorire l'inserimento al lavoro.

Ci pare dunque chiaro che l'obiettivo politico è quello di orientare gli inserimenti lavorativi de­gli handicappati soprattutto in enti, istituzioni, associazioni, cooperative e non nelle normali aziende, a fianco degli altri lavoratori.

 

Necessità di una ridefinizione dell'handicap

C'è da augurarsi che la legge di riforma del collocamento obbligatorio possa ora riprendere il suo cammino tenendo conto anche di queste considerazioni, eliminando così alcune macro­scopiche contraddizioni oggi presenti. II testo li­cenziato dal Senato non distingue le persone handicappate con totale, ridotta o nulla capacità lavorativa. In compenso, prevede agevolazioni ai datori di lavoro anche per l'assunzione di handi­cappati con totale capacità lavorativa.

A questo scopo, verrebbe istituito un Fondo occupazione disabili. Tale fondo funzionerebbe prevalentemente grazie alle sanzioni che i datori di lavoro dovrebbero pagare se non assumono gli handicappati. Paradossalmente, se tutti i da­tori assumessero gli handicappati previsti dalla quota di legge, il Fondo non potrebbe funzionare e lo Stato non saprebbe dove reperire le risorse per dare gli incentivi economici previsti. Una non chiara ridefinizione del problema dell'handicap comporta anche questi assurdi.

 

 

 

(*) Direttore delle collana "Quaderni di promozione so­ciale".

(1) Per un inquadramento ed una disamina delle diverse definizioni di handicap a livello internazionale, italiano e regionale, cfr., fra gli altri: S. BEGHELLI, Alunni con handi­cap: classificazione, certificazione, programmazione, Ed. Juvenilia, Bergamo, 1985, in particolare la parte I. Cfr., inol­tre: A. OSSICINI, Oltre le barriere, Bariletti Editori, Roma, 1991, in particolare i capitoli 4 e 5. Nella Appendice 1 è ri­portata per esteso la proposta di classificazione dell'Orga­nizzazione Mondiale della Sanità.

(2) Cfr.: Legge 5 febbraio 1992, n. 104, "Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle per­sone handicappate", in Gazzetta ufficiale, n. 39 del 17 feb­braio 1992, suppl. ord.

 (3) Cfr.: G. SELLERI, "Handicappati fisici e handicappati sociali", in Il Mulino, n. 312, luglio-agosto 1987.

(4) Cfr.: "Handicappati e società: quali valori, quali diritti, quali doveri", in Prospettive assistenziali, n. 88, ottobre-di­cembre 1989, pp. 23-26.

(5) Cfr.: A. CANEVARO, J. GAUDREAU, L'educazione de­gli handicappati, Nis, Roma, 1988, pp. 47 e segg. Si noti che Itard lo fa in aperta contraddizione con Pinel, lo psi­chiatra che pure passerà alla storia come colui che «tolse le catene ai pazzi», ma che nei confronti del selvaggio dell'Aveyron firma una inappellabile diagnosi di irrecupe­rabilità. Oggi, rispetto ai tempi di Itard, abbiamo a disposi­zione molti più strumenti di analisi e di intervento, eppure il giudizio sulla presunta "non educabilità" di alcune persone con handicap, sulla presunta impossibilità di far raggiun­gere livelli anche minimi - ma vitali - di autonomia, rischia di essere sostanzialmente quello di Pinel nei confronti del sauvage.

(6) Cfr.: "Ritardo mentale o malattia mentale?", in Conoscere l'handicap, n. 1, settembre/dicembre 1987, pp. 52-58. Anche Ossicini conviene che «le classificazioni sto­riche non sono più valide. Oltretutto, esistono molte altre cause e forme di quello che viene chiamato ritardo menta­le». Cfr.: A. OSSICINI, cit., pp. 44 e segg.

(7) Cfr.: "Handicappati e società: quali strategie per il la­voro", in Prospettive assistenziali, n. 93, gennaio-marzo 1991, pp. 30-39.

(8) Cfr., ad esempio: Legge Regione Veneto n. 20 del 19 marzo 1987; Legge Regione Trentino Alto-Adige n. 24 del 22 ottobre 1988; Legge Regione Piemonte n. 48 del 16 agosto 1989; Legge Regione Lombardia n. 67 del 27 no­vembre 1989.

 

 

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