LA DIGNITà DEI POVERI E I LORO
DIRITTI
MAURO PERINO
*
Premessa
Nell’ultimo numero di questa rivista (1) ho cercato di fornire un
quadro sulla disuguaglianza economica e sulla povertà in Italia attingendo ai
dati contenuti nelle indagini del Censis, dell’Eurispes, di Bankitalia e
dell’Istat. Successivamente alla redazione dell’articolo, quest’ultimo istituto
ha diffuso il “Rapporto annuale 2007” che aggiorna l’analisi sulla situazione
confermando che «purtroppo l’Italia è un
Paese, in senso relativo, sempre più povero. Tra il 2000 e il 2007 il reddito
medio per abitante ha perso 13 punti nella classifica Ue a 15. Nel 2000
l’Italia aveva un reddito pro capite di quattro punti superiore a quello della
Unione Europea, mentre nel 2007 è sceso di oltre otto punti sotto la media» (2). «Inoltre, l’Italia è un Paese ad alta
diseguaglianza sociale e la metà dei nuclei familiari oggi vive con meno di
1.900 euro al mese» (3).
Secondo l’Istat, tra il 2005 e il 2006 l’incidenza di povertà non ha
infatti mostrato variazioni statisticamente significative rispetto al
territorio (4); sono tuttavia emerse «interessanti
dinamiche che hanno riguardato specifici sottogruppi di famiglie».
Nel Nord, dove l’incidenza della povertà è rimasta stabile, il
miglioramento della condizione degli anziani osservato negli anni precedenti
subisce una battuta di arresto: tra le famiglie con componenti anziani si passa
dal 6,3% al 7,9%.
In particolare si verifica un aumento dell’incidenza della povertà tra
gli anziani soli, da 5,8% a 8,2%, tra le coppie di anziani (se entrambi anziani
dal 6,3% all’8,1%) e tra i monogenitori anziani (dal 7,2% all’11,2%),
soprattutto donne anziane con figli.
Da ciò consegue che la povertà relativa risulta in crescita anche per
le famiglie con a capo una persona ritirata dal lavoro (da 5,2% a 6,9%), con
basso titolo di studio (da 7,7% a 9,5%) o formate da due componenti (da 4,2% a
5,4%).
La stessa tendenza si osserva per il Centro, dove l’incidenza della
povertà è crescente tra le famiglie con due o più anziani (da 9,2% a 11,9%), le
famiglie di altra tipologia (da 10,2% a 16,5%), in cui la persona di
riferimento è ritirata dal lavoro (da 7,2% a 8,8%), nonché le famiglie di tre
componenti (da 5,1% a 7,1%) che, nel 40% dei casi, sono anziani in coppia con
figlio o genitori soli anziani.
Gli unici segnali di miglioramento si rilevano, nel
Mezzogiorno, con riferimento ad alcune tipologie familiari ed in particolare
quelle con a capo una persona con meno di 35 anni (dal 24,9% al 20%).
Nell’ambito di questa ripartizione geografica si continua a registrare, tra le
famiglie con anziani, la tendenza al miglioramento osservata negli anni
precedenti.
Sebbene la diffusione del disagio continui ad essere
superiore alla media, l’incidenza di povertà passa dal 28,2% al 25,5%; in particolare
scende da 28,4% a 25,4% tra le famiglie con a capo una persona con 65 anni e
più, da 26,7% a 23,6% tra quelle con a capo una persona ritirata dal lavoro e
da 33,8% a 31,1% se la persona di riferimento ha conseguito al massimo la
licenza elementare.
Il ritorno della beneficenza emarginante
Dunque, a fronte di un quadro negativo sostanzialmente statico, l’unica
novità che si evidenzia è la dinamica regressiva che caratterizza, in
particolare, le famiglie con componenti anziani. Certo – come osserva Galapagos
– «si tratta di una povertà relativa,
almeno se confrontata con quella dei Paesi che molti si ostinano a chiamare del
“Terzo mondo”. Anche se relativa, però, è pur sempre povertà. E come tale
provoca sofferenze, anche psicologiche, e privazioni materiali» che hanno
attirato l’attenzione del nuovo Governo. Per lenire la condizione di assoluto
bisogno dei più poveri tra gli anziani «Tremonti,
che è uomo di mondo e conosce bene la realtà statunitense, ha fatto una
pensata: importare in Italia il food stamp. Un assegno (probabilmente una carta di credito prepagata) che sarà
elargita a 1,2 milioni di molto poveri. La pensata geniale è di associare
questo obolo alla Robin Hood tax, una tassa che colpirà le imprese più “odiate”
dagli italiani: compagnie petrolifere, banche e assicurazioni. Però, importando
dagli Usa il buono pasto per i poveri, il governo Berlusconi è stato un po’
stitico: non 75 euro al mese come negli Usa, ma appena 40. Come dire 1,33 euro
al giorno, neppure un cappuccino e cornetto» (5).
Per contrastare l’indigenza molti Paesi, anziché ricorrere a politiche
di integrazione, preferiscono la soluzione più antica del mondo: la
beneficenza. Negli Stati Uniti l’obolo (il sopracitato food stamp) è un buono per l’acquisto di cibo, del valore di 100
dollari al mese, che viene attualmente fornito ad una platea di 26 milioni di
persone molto povere. «Visto che la
popolazione Usa supera i 300 milioni, questo significa che circa 12 cittadini
su 100 hanno bisogno di un obolo mensile per poter sopravvivere. Recentemente
ci sono state molte proteste: l’aumento dei generi alimentari ha reso
insufficiente la somma elargita (…). Secondo molti esperti, sarebbe necessario
raddoppiare l’importo del food stamp.
Ma servirebbero troppi soldi, rispondono gli uomini di Bush. In realtà quei 100
dollari al mese moltiplicati per i cittadini che li percepiscono comportano una
spesa inferiore ai 30 miliardi di dollari l’anno. Non pochi, ma nulla se
confrontato con la spesa per la difesa (600 miliardi l’anno) e la spesa pubblica
complessiva che supera i 4 mila miliardi di dollari» (6).
Nella versione italiana la “carta acquisti” – prevista dal decreto
legge n.112 del 25 giugno 2008 poi convertito, con modificazioni, con legge 6
agosto 2008, n.133 (7) – è finalizzata, secondo quanto previsto dal comma 32
dell’articolo 81, a «soccorrere le fasce
deboli di popolazione in stato di particolare bisogno e su domanda di queste»
ed «è concessa ai residenti di
cittadinanza italiana che versano in condizione di maggior disagio economico» che
potranno utilizzarla per far fronte alle «straordinarie
tensioni cui sono sottoposti i prezzi dei generi alimentari e il costo delle
bollette energetiche, nonché il costo per la fornitura di gas da privati».
Per una più precisa individuazione dei beneficiari bisognerà però
attendere il decreto interdipartimentale del Ministro dell’economia e delle
finanze e del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali che,
ai sensi del comma 33, dovrà – entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore
del decreto – disciplinare: «a) i criteri
e le modalità di individuazione dei titolari del beneficio di cui al comma 32,
tenendo conto dell’età dei cittadini, dei trattamenti pensionistici e di altre
forme di sussidi e trasferimenti già ricevuti dalla Stato, della situazione
economica del nucleo familiare, dei redditi conseguiti, nonché di eventuali
ulteriori elementi atti a escludere soggetti non in stato di effettivo bisogno;
b) l’ammontare del beneficio unitario; c) le modalità e i limiti di utilizzo
del Fondo di cui al comma 29 e di fruizione del beneficio di cui al comma 32».
Il riferimento è al «Fondo
speciale destinato al soddisfacimento delle esigenze prioritariamente di natura
alimentare e successivamente anche energetiche e sanitarie dei cittadini meno
abbienti» che viene alimentato: «a)
dalle somme riscosse in eccesso dagli agenti della riscossione ai sensi
dell’articolo 82, comma 22; b) dalle somme conseguenti al recupero dell’aiuto
di Stato dichiarato incompatibile dalla decisione C (2008) 869 def. dell’11
marzo 2008 della Commissione; c) dalle somme versate dalle cooperative a
mutualità prevalente di cui all’articolo 82, commi 25 e 26; d) con versamenti
dal bilancio dello Stato; e) con versamenti a titolo spontaneo e solidale
effettuati da chiunque, ivi inclusi in particolare le società e gli enti che
operano nel comparto energetico».
Questi sono, per ora, gli unici punti fermi di una misura – di cui il
premier Berlusconi ed il Ministro Tremonti si dicono «eticamente molto fieri» – per l’attuazione della quale il
Ministero dell’economia e delle finanze «può
avvalersi di altre amministrazioni, di enti pubblici, di Poste italiane S.p.a,
di Sogei S.p.a o di Consip S.p.a». E per chiarire in cosa consista
l’importante ausilio richiesto, giova la lettura del comma 35, ove si afferma
che «il Ministero dell’economia e delle
finanze, ovvero uno dei soggetti di cui questo si avvale ai sensi del comma 34,
individua: a) i titolari del beneficio di cui al comma 32, in conformità alla
disciplina di cui al comma 33; b) il gestore del servizio integrato di gestione
delle carte acquisti e dei relativi rapporti amministrativi, tenendo conto
della disponibilità di una rete distributiva diffusa in maniera capillare sul
territorio della Repubblica, che possa fornire funzioni di sportello relative
all’attivazione della carta e alla gestione dei rapporti amministrativi, al
fine di minimizzare gli oneri, anche di spostamento, dei titolari del beneficio,
e tenendo conto altresì di precedenti esperienze in iniziative di erogazione di
contributi pubblici».
Alle pubbliche amministrazioni e agli enti pubblici «che detengono informazioni funzionali
all’individuazione dei titolari del beneficio di cui al comma 32 o
all’accertamento delle dichiarazioni da questi effettuate per l’ottenimento
dello stesso» viene inoltre richiesto, in base al comma 36, di fornire «in conformità alle leggi che disciplinano i
rispettivi ordinamenti, dati, notizie, documenti e ogni ulteriore
collaborazione richiesta dal Ministero dell’economia e delle finanze o dalle
amministrazioni o enti di cui questo si avvale, secondo gli indirizzi da questo
impartiti». Infine, al comma 37, viene previsto che il Ministero suddetto
promuova, attraverso apposite convenzioni, «il
concorso del settore privato al supporto economico in favore dei titolari delle
carte acquisti».
Prima di formulare qualunque osservazione sui contenuti del
provvedimento legislativo sin qui esaminato, occorre ricordare – con
riferimento alla legittimità dello stesso – che, secondo il disposto
dell’articolo 117, comma 2, lettera m) della Costituzione, allo Stato è
assegnata la competenza che riguarda esclusivamente la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale» e che ogni altra funzione legislativa e regolamentare in materia
socio-assistenziale è attribuita alle Regioni.
Per tali motivi – considerato che gli interventi previsti dai commi da
29 a 38-ter dell’articolo 81 della
legge 6 agosto 2008, n.133, hanno l’esplicita finalità di «soccorrere le fasce deboli di popolazione in stato di particolare
bisogno» (senza però determinare alcun livello essenziale per quanto
attiene alle prestazioni individuate) – sarebbe doveroso che una o più Regioni
presentassero alla Corte costituzionale istanza per promuovere una
dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme relative ai commi
citati e per richiedere che le somme previste vengano erogate alle Regioni
stesse.
Alla luce della disamina effettuata, risulta inoltre difficile
liberarsi dal dubbio che i presupposti della delega al Ministero a procedere,
con decreto, per l’attuazione del comma 32 non sia pienamente conforme con
quanto disposto dall’articolo 76 della Costituzione, nel quale viene precisato
che «l’esercizio della funzione
legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di
principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti
definiti».
è
infatti evidente che, nel testo della legge, oltre alla mancata definizione
delle modalità e dei limiti di utilizzo del fondo speciale, non vengono
indicati né l’ammontare complessivo dello stesso, né quello del beneficio
unitario. Infine non sono determinati i criteri di individuazione dei beneficiari.
Ma, venendo alle questioni di merito relative alla “carta acquisti”,
perché ricorrere all’utilizzo di uno strumento stigmatizzante che ripropone,
nella sostanza, la vecchia tessera annonaria aggiornandola con un modernissimo
codice a barre? Perché costringere le persone in difficoltà a certificare
pubblicamente – al supermercato o all’ufficio postale – il loro stato di
bisogno? «Per alcuni, con tutta
probabilità, tirare fuori questa card
avrà sicuramente il senso di una umiliazione, umiliazione che persone in quella
già precaria condizione economica non meritano. In più la distribuzione ai
pensionati più poveri di questa card reintroduce
nel nostro Paese uno strumento che se nell’immediato offre un sollievo sia pur
modestissimo ai più bisognosi, di fatto intacca il principio costituzionale di
uguaglianza, reintroducendo la categoria dei “poveri” destinatari di un
intervento “compassionevole” (…). Niente di più lontano da politiche proprie di
un moderno Stato sociale costruito su valori quali dignità, solidarietà e
redistribuzione» (8).
L’ipotesi – formulata dagli organi di informazione nella fase di
approvazione del decreto n.112/2008 – è infatti che i beneficiari della “carta
acquisti” verranno individuati tra i pensionati al minimo che fruiscono delle
maggiorazioni sociali da parte dell’Inps (Istituto nazionale della previdenza
sociale). Se così fosse, verrebbero escluse le migliaia di persone colpite da
handicap gravemente invalidanti – che ricevono dallo Stato la miserevole
pensione di 246,73 euro mensili (9) – ed inoltre si perpetuerebbe la prassi di
erogare benefici economici anche a chi povero non è. Come è avvenuto con
l’ultimo aumento delle pensioni basse che è stato destinato, per almeno un
quarto, a pensionati che vivono in famiglie certamente non povere (10).
Del resto è noto che i principali istituti di contrasto alla povertà
(pensione ed assegno sociale, integrazione sociale al minimo pensionistico,
pensione di invalidità civile e di guerra, assegni familiari) vengono applicati
a beneficiari selezionati sulla base del solo reddito dichiarato ai fini Irpef
(senza prendere cioè in considerazione il reale ammontare di tutte le risorse
economiche possedute ed il patrimonio) e pertanto «non stupisce (…) che una buona quota della spesa stanziata per ciascun
singolo istituto vada a favore di nuclei il cui reddito è superiore alla soglia
di povertà relativa, ancora prima del trasferimento (…); inoltre il contributo
di ogni singolo istituto nel ridurre la distanza del reddito familiare rispetto
alla soglia di povertà (…) è minimo. Ad esempio, il 30% della spesa per
pensione sociale è destinata a famiglie non povere, il 41% sesi considera la
pensione di invalidità, il 52% quella di guerra ed il 34% gli assegni
familiari. Il più elevato impatto contro la riduzione del divario di povertà è
svolto dagli assegni familiari, ma si tratta sempre di un contributo molto
modesto (- 15%)» (11).
Alla luce dei risultati distributivi della spesa
assistenziale, appare dunque evidente la pressante esigenza di condizionare gli
interventi di contrasto della povertà ad una efficace verifica dei mezzi, allo
scopo di riservare il sostegno economico ai soli nuclei posizionati sotto la
soglia di povertà. Ed anche se lo Stato è inadempiente, in ordine alla
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni socio-assistenziali, è
utile ricordare che «nessuna norma
impedisce a Regioni e Comuni di disciplinare e realizzare loro livelli
essenziali, che non avranno ovviamente la forza e gli effetti di quelli
previsti dalla Costituzione, ma solo quelli degli atti normativi con cui
vengono approvati» (12).
L’elemosina
è ancora una pratica
eticamente accettabile?
Se per lungo tempo si è contrastata l’emarginazione cercando di fare
uscire le persone dal circuito dell’assistenza – purtroppo non sempre con la
necessaria efficacia, in primo luogo a causa della mancata adozione dei
necessari atti normativi – adesso la tendenza sembra essersi invertita. Con
tutta evidenza si sta costruendo un sistema di sicurezza sociale
“compassionevole” che, come tale, si appella alla beneficenza e non alla
giustizia. Invece di pretendere dallo Stato, dalle Regioni e dai Comuni (per le
rispettive competenze) l’adozione di misure atte a garantire un reddito minimo
per chi è totalmente sprovvisto di mezzi, si preferisce il ricorso ad una
malintesa solidarietà tra i singoli. Del resto – come recita il titolo di un
articolo di Giuseppe Turati dedicato alla prolusione di Monsignor Angelo
Bagnasco alla 57ª Assemblea della Conferenza episcopale italiana – «la povertà non si risolve con l’ideologia:
serve la carità» (13). E dunque,
considerato che «la povertà in Italia
(anche in termini squisitamente economici) si sta diffondendo a macchia
d’olio», «la visita a domicilio con il “pacco viveri”, che da alcuni viene messa
in discussione come un servizio di altri tempi, viene invece rivalutata da
altri come una risposta adeguata alle necessità dei tempi presenti» (14).
Alla “ideologia” dell’eguaglianza dei cittadini proclamata (e promossa)
dall’articolo 3 della nostra Costituzione non resterebbe allora che
contrapporre la «pratica dell’elemosina,
che rappresenta un modo concreto di venire in aiuto a chi è nel bisogno e, al
tempo stesso, un esercizio ascetico per liberarsi dall’attaccamento ai beni
terreni»? (15). Quel che è certo è che «mentre
tutti parlano di crisi economica, di difficoltà a guadagnare abbastanza, di
sprechi della politica e di prezzi alle stelle, ecco che il Papa si mette a
parlare dell’elemosina ricordando a tutti qualcosa di essenziale. (…)
L’elemosina è un gesto semplice, realista, non eccezionale. Realista, perché
prende atto che il bisogno dei poveri attorno a noi è tale che tante nostre
pretese e lamenti suonano addirittura indegni. E si tratta di un gesto non
eccezionale, perché dovrebbe avvenire, come ricorda il Vangelo, senza che la
mano sinistra sappia cosa fa la destra, cioè nell’ordinarietà della vita di
ognuno» (16).
Ma, come osserva lo stesso Pontefice, «San Pietro cita tra i frutti
spirituali dell’elemosina il perdono dei peccati. “La carità – egli scrive – copre una moltitudine di peccati”. Come spesso ripete la liturgia
quaresimale, Iddio offre a noi peccatori la possibilità di essere perdonati. Il
fatto di condividere con i poveri ciò che possediamo ci dispone a ricevere tale
dono. Penso, in questo momento, a quanti avvertono il peso del male compiuto e,
proprio per questo, si sentono lontani da Dio, timorosi e quasi incapaci di
ricorrere a Lui. L’elemosina, avvicinandoci agli altri, ci avvicina a Dio e può
diventare strumento di autentica conversione e riconciliazione con Lui e con i
fratelli» (17). Dunque, con
l’elemosina, «c’è più soddisfazione nel
donare che nel ricevere» (18).
Tornano alla mente le riflessioni di Padre Turoldo: «In fatto di carità, anche i monsignori
romani sono sempre abbastanza disposti: a livello di elemosina la carità non
crea problemi. E’ a livello di giustizia che cominciano i guai. (…) La Chiesa
finora non ha mai sposato la possibilità di cambiare sistema: non ha mai
canonizzato i santi della giustizia, preferendo in assoluto quelli della
carità. Anzi, i caduti della giustizia non li considera neppure santi». Del
resto «nel codice di diritto canonico non
c’è mai stato – e non c’è ancora –
un posto, se non marginale, per i poveri:
i poveri, nel diritto, esistono soltanto come “oggetti” di elemosina» (19).
Ma – come osservava don
Tonino Bello – «di fronte a questa gente
non basta più commuoversi. (…) I soli sentimenti assistenziali potrebbero
perfino ritardare la soluzione del problema. Occorre chiedere “occhi nuovi”.
Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli. Occhi nuovi,
Signore. Non cataloghi esaustivi di miserie, per così dire, alla moda. Perché,
fino a quando aggiorneremo i prontuari allestiti dalle nostre superficiali
esuberanze elemosiniere e non aggiungeremo gli occhi, si troveranno sempre
pretestuosi motivi per dare assoluzioni sommarie alla nostra imperdonabile
inerzia» (20).
In ogni caso, nella pratica dell’elemosina, la persona debole occupa
una posizione marginale. «Viene sempre messo
in rilievo ciò che fanno i filantropi e non si parla mai, se non in termini
generici, dei bisogni vitali insoddisfatti, delle relative responsabilità delle
autorità e della necessità di provvedimenti che sanciscano diritti esigibili»
(21). Contro questo rischio, già il
Concilio Vaticano II aveva fornito precise indicazioni operative (purtroppo
quasi mai applicate): «Siano innanzitutto
adempiuti gli obblighi di giustizia, perché non avvenga che si offra come dono
di carità, quello che è già dovuto a titolo di giustizia; si eliminino non
soltanto gli effetti ma anche le cause dei mali; l’aiuto sia regolato in tal
modo che coloro i quali lo ricevono vengano, a poco a poco, liberati dalla
dipendenza altrui e diventino sufficienti a se stessi» (22).
Occorre inoltre ricordare che «il
bene comune, fin da San Tommaso, riguarda la struttura della comunità, è cioè
oggi le leggi della convivenza. Non riguarda invece, almeno primariamente,
l’opera di carità del singolo. Questa è sempre necessaria e doverosa: nessun ordinamento
giuridico può prevedere tutte le singole situazioni di sofferenza e di miseria.
Ma l’impegno del singolo, anche tramite le Caritas, le Ong (Organizzazioni non
governative) e le Onlus (Organizzazioni non lucrative di utilità sociale), ha
sempre il carattere di supplenza a un’insufficienza strutturale, sia a livello
di Stato che a quello di famiglia umana. Non sostituisce in alcun modo
l’impegno per una migliore strutturazione della polis, cioè per il vero bene comune. Né l’idea di supplenza, né tantomeno
quella di sostituzione, possono pacificare la coscienza del cristiano nella sua
responsabilità verso il bene comune: la loro necessità e anche urgenza devono
essere un segnale per un maggiore impegno nella vita politica» (23).
Mettere a disposizione del denaro per consentire ad una parte delle
persone in difficoltà di poter acquistare gli alimenti necessari per vivere può
apparire certamente positivo per i soggetti aiutati, ma non modifica
assolutamente le disastrose condizioni di vita delle decine di migliaia di
individui che hanno l’identica mancanza di mezzi economici. Anzi, ne perpetua
la condizione di emarginazione e – come nel caso eclatante dei bambini
costretti alla mendicità – di vero e proprio sfruttamento. è dunque condivisibile la decisione,
assunta dai parroci di Cremona assieme a Caritas, San Vincenzo e Ufficio
Migrantes, di «non (…) dare l’elemosina,
specialmente ai bambini che vengono sfruttati a questo scopo. Non bisogna farsi
vincere dall’emotività delle scene pietose. L’elemosina spesso serve solo a
tacitare la coscienza. La vera carità è fare uscire queste persone
dall’emarginazione, dare loro una dignità».
Infatti, come
chiarisce il direttore della Caritas di Cremona, Don Antonio Pezzetti, «non possiamo contribuire a perpetuare questo
sistema. Prendiamo il caso dei bambini che chiedono l’elemosina per strada. Il
loro vero bene è inserirli in un contesto educativo, non certo farli restare in
una condizione di schiavitù. Spesso si tratta di una organizzazione familiare,
che induce donne e bambini a questo “lavoro”. Dare la moneta significa
accettare la cosa e renderla addirittura economicamente vantaggiosa» (24).
Il volontariato consolatorio
Nonostante l’affermazione di Don Milani, secondo cui «la giustizia senza la carità è incompleta:
ma la carità senza la giustizia è falsa» – «un principio, questo, che corregge in profondità le tradizionali
impostazioni, perché se non nega la superiorità della carità, la vincola però
strettamente all’esercizio della giustizia» – il primato esclusivo
attribuito alla carità dalla cultura cattolica «si è tradotto in primo luogo nel primato accordato all’assistenza e in
secondo luogo in una concezione e in una pratica assistenzialistica del
servizio sociale. Perciò non solo i cattolici in generale si sono impegnati di
più nel settore assistenziale considerandolo privilegiato rispetto ad altri
settori dell’attività sociale e politica, ma anche (e di conseguenza) hanno
praticato l’assistenza in modo distorto, e cioè: a) con insufficiente
attenzione non solo alla tutela dei diritti ma anche alla rimozione delle cause
del bisogno, con una conseguente pratica assistenziale di carattere
tendenzialmente emarginante; b) con un atteggiamento privatistico, in
conseguenza del quale la discrezionalità dell’intervento prevale sul diritto
alla fruizione e si concede ampia delega al volontariato; c) accordando un
certo privilegio alle organizzazioni ecclesiali nella pratica dell’assistenza,
nella convinzione che in fatto di assistenza (in quanto è concepita come espressione
della carità) i cristiani abbiano una superiore “competenza”» (25).
Nel volontariato sociale di matrice cattolica si riscontra, a
tutt’oggi, la permanenza di questi problemi che possono essere ricondotti, in
sostanza, alla rinuncia all’azione politica che viene messa in discussione «come la pratica della giusta mediazione
degli interessi e dei bisogni, a favore dell’antipolitica, cioè della pratica
della soddisfazione immediata. E la stessa politica, come diventa sempre più
evidente, assume le forme dell’antipolitica, cioè passa attraverso il
privilegiamento della personalizzazione del rapporto sulla mediazione partitica
e dei risultati sulle procedure (che è di nuovo una vittoria dell’immediato
sulla mediazione). Quel che il ’68 pretendeva, e cioè “tutto e subito”, lo
pretendeva utopicamente come risultato della politica, mentre ora è rimasto il
“tutto e subito” giocato contro la politica e cioè primitivamente,
regressivamente» (26).
Non a caso l’ideologia liberistica si sposa con quella del volontariato
consolatorio: entrambe sono infatti accomunate dalla ripulsa dell’invadenza
della politica, dall’esaltazione dell’iniziativa privata, dal culto
dell’efficienza, dalla convinzione che la soluzione ai problemi del disagio
spetti in primo luogo alla società civile e che i poteri pubblici debbano
intervenire solo là dove la società si rivela carente. Questa concezione – che
viene interpretata come principio di sussidiarietà – si traduce nella rinuncia
a definire e a sostenere, sotto il profilo della normativa sociale, standard
adeguati di protezione delle fasce deboli, delegando alla società il compito di
autoregolarsi ed alla politica quello di turare le falle maggiori, al solo
scopo di ammortizzare i conflitti.
Ma «se l’ideologia del
volontariato difende il primato dell’etica e della carità e l’ideologia
liberistica il primato della libera iniziativa, il risultato comune è la
restrizione della politica, che si traduce, in un caso e nell’altro, nella
sostanziale indifferenza riguardo alla rimozione delle cause che provocano i
bisogni assistenziali e riguardo alla definizione di diritti esigibili. In
questo modo l’assistito resta quello che è sempre stato: non un soggetto di
diritti ma un oggetto della beneficenza privata e pubblica» (27).
Se è anche vera l’affermazione che la carità è molto più della
giustizia, essa deve però trovare in questa il suo limite, «limite che riguarda l’eguaglianza dei diritti, che deve essere
garantita al di là delle eccezionalità, discrezionalità e personalizzazione
dell’intervento caritatevole». Riconoscendo, in conclusione, che «fra carità e giustizia vi è (…) una
limitazione reciproca, e perciò una tensione irrisolvibile, che un cristiano
consapevole deve riconoscere, e patire, senza cercare facili scorciatoie» (28).
In quest’ottica si pone il Cardinale Martini, secondo il quale «la prima ragione etica che richiede ed
esige la realizzazione di uno Stato sociale può essere individuata nel diritto
inalienabile di tutti al soddisfacimento dei bisogni fondamentali. Si tratta di
un diritto universale, che riguarda ogni uomo per il solo fatto che è persona;
come tale è un diritto che si manifesta in tutta la sua urgenza nelle persone
più deboli, bisognose, povere». Di conseguenza, «proprio perché si tratta di un diritto inalienabile, ci troviamo di
fronte a una questione di giustizia e di verità: non è un problema la cui
soluzione può essere lasciata solamente alla carità volontaria o alla libera
iniziativa di qualcuno, che pure sono importanti e chiedono di essere promossi
e valorizzati; è un dovere di stretta giustizia della società e perciò lo
Stato, che ha responsabilità di governo della società, deve comunque provvedere
a che sia adempiuto» (29).
Ma è solo attraverso ad una azione politica,
eticamente fondata sui valori della Costituzione e doverosamente condotta da
tutte le formazioni sociali nelle quali si aggregano i cittadini della
Repubblica, che si può pensare di affrontare il problema della povertà. Si
tratta infatti di una questione che riguarda tutti (ognuno di noi può diventare
povero!) e che, pertanto, non può essere passivamente delegata ai partiti
politici ed alle istituzioni di governo. A maggior ragione in una fase in cui è
purtroppo dominante la concezione liberistica, secondo la quale è l’economia –
e quindi il mercato – che deve dettare le regole del modello di vita e dei
rapporti sociali.
Una società
che non si rispecchia
nei diritti fondamentali
In una società che «promuove e
incoraggia il consumismo e non accetta facilmente sistemi alternativi» per
cui «l’adesione incondizionata ai
precetti consumistici è la sola scelta possibile e l’unica che può procurare il
certificato di idoneità, cioè la non-esclusione» (30) anche i principi fondamentali della democrazia rappresentativa,
dell’universalità dei diritti, della legalità come condizione legittimante del
potere vengono messi pesantemente in discussione. Ed il sintomo più evidente di
questa tendenza è proprio l’inversione della dinamica egualitaria che aveva
rappresentato il “motore sociale” della modernità politica. Le distanze tra i
“primi” e gli “ultimi” crescono a ritmi elevati anche nei paesi più
industrializzati, dove erano state tenute sotto controllo grazie all’effetto
congiunto della crescita economica e di relativamente efficaci politiche
redistributive.
L’immagine che offrono oggi i Paesi più industrializzati è quella di un
rapido e brutale ritorno alle logiche di una società di caste. In sostanza la
deprivazione economica e sociale che colpisce ampie fasce della popolazione, si
converte in una deprivazione morale che non trova più anticorpi, anche perché
favorita da quella che Bauman definisce la “mixofobia” e cioè della paura di
mescolarsi. «I residenti poveri – quelli
che non hanno le risorse per mantenere lo status materiale e sociale adeguato –
vengono considerati una minaccia dai loro vicini e vengono spinti a spostarsi
in zone separate e ghettizzate». Ma anche «i residenti ricchi si
riuniscono in ghetti, cioè in aree privilegiate da cui escludono tutti gli
altri. (…) In questo modo si stabiliscono aree reciprocamente esclusive: i
ghetti dei poveri dove i ricchi non vanno per scelta e i ghetti dei ricchi dove
i poveri non hanno il permesso di andare». Con la conseguenza, sul piano
etico e sociale, che «più aumenta la
separazione territoriale più le persone si abituano a stare in un ambiente
uniforme, con altri simili a loro con i quali “socializzare” senza sforzi,
senza rischio di fraintendimenti e senza dover fare la fatica di interpretare
un diverso modo di intendere la vita, più diventano incapaci di elaborare
valori comuni e di vivere insieme» (31).
La società – in molte sue componenti – e le istituzioni che la
governano, non si rispecchiano più nel “collante” rappresentato dal
riconoscimento dei diritti fondamentali di cittadinanza, a considerarli come un
fattore che struttura la democrazia e non come un vincolo dal quale liberarsi
(32). Come afferma Stefano Rodotà «il
nudo esercizio del potere soffre le limitazioni che i diritti, storicamente,
gli impongono. E i tempi sembrano davvero propizi alle imprese dei realisti,
che trovano disponibili sapienza e strumenti approntati da scienziati politici
e giuristi per offrire argomenti e copertura alla riduzione dei diritti (…). Le
stesse teorie dalla giustizia restringono il loro raggio d’azione: si parla di società
decente, e non più di società giusta, nel senso che le istituzioni dovrebbero
limitarsi a evitare che le persone siano umiliate, che siano colpite dalla
crudeltà». La diffidenza per i diritti fondamentali è ormai diffusa perché
si vede in essi «una pericolosa
ideologia, una grammatica incapace di comprendere la vita, uno strumento
“insaziabile” che vuole sostituirsi alla politica e negare la sovranità
popolare, come accadrebbe quando si afferma che il riconoscimento di alcuni
diritti fondamentali individua materie che divengono “indecidibili” per lo
stesso legislatore» (33).
L’attitudine riduttiva è presente nei programmi dei maggiori partiti.
Ed anche quando si enfatizzano alcuni diritti sociali importanti (una giusta
retribuzione, la casa, la salute, ecc.) si percepisce che viene oscurato il
grande tema che sta dietro ad essi: quello dell’uguaglianza e della
responsabilità pubblica a promuovere l’incivilimento sociale, il governo della
propria vita e il libero sviluppo della personalità. «Qui si coglie (…) la (…) grave rinuncia a ricordare che la pretesa di
far valere questa o quella tavola dei valori contrasta con il fatto che l’unica
tavola di valori democraticamente legittimata è la Costituzione italiana. La
questione dei diritti, allora, mantiene una sua radicale essenzialità proprio
se si ha come obiettivo la ricostruzione di forme democratiche anche là dove
sembrano perdute o inaccessibili. Certo serve una cultura politica capace di
liberarsi da vecchi schemi, e una politica senza aggettivi che assume questo
come un compito al quale è legata quasi la sua sopravvivenza» (34).
Ma – come
puntualmente fa notare Monsignor Luigi Bettazzi – il nodo principale resta «quello
della distanza sempre maggiore che separa i poveri dai ricchi. Questa
divaricazione è andata aumentando negli anni man mano che la politica diventava
una guerra contro l’avversario e perdeva di vista la ricerca del bene comune
della società (…). A mio parere il bene comune si realizza se siamo capaci di
partire dagli ultimi della società, di migliorare le loro condizioni di vita
per portarli a livello dei primi. Se invece si parte dai problemi dei primi, di
coloro che stanno meglio, si finisce per aumentare le distanze tra gli strati
della società. In fondo il nodo delle scelte politiche è tutto qui» (35).
Per la pari dignità di tutte le persone
Se alle persone non si riconoscono i diritti fondamentali non si
riconosce ad esse alcuna dignità. Con la conseguente condanna ad una condizione
di emarginazione che immiserisce materialmente e moralmente chi ne è vittima
negando, di fatto, la vera libertà. Vi è dunque l’impellente necessità che non
solo le istituzioni, ma tutte le organizzazioni sociali, promuovano, con atti
concreti, tali diritti; ricordando che «la
Repubblica (…) richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale» e che alla stessa si impone di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico
e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (articoli 2 e 3 della
Costituzione).
L’assunzione di tale finalità comporta che l’attività dello Stato e
degli altri organi di governo della Repubblica, si indirizzi anche in tutte le
direzioni in cui si verificano situazioni di difficoltà dei cittadini e si
concretizzi attraverso la realizzazione di politiche di sicurezza sociale
finalizzate a garantire i diritti sociali, anche detti diritti di solidarietà.
La nostra Costituzione riconosce espressamente il diritto/dovere al lavoro
(articolo 4) e ad una retribuzione ad esso proporzionata e, in ogni caso,
sufficiente a garantire al lavoratore ed alla sua famiglia una esistenza libera
e dignitosa (articolo 36).
Inoltre i lavoratori hanno diritto che siano previsti ed assicurati mezzi
adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità
e vecchiaia, disoccupazione involontaria (articolo 38).
Ai non abbienti devono essere assicurati i mezzi per agire e difendersi
davanti ad ogni giurisdizione (articolo 24).
è
previsto che la Repubblica agevoli con misure economiche e altre provvidenze la
formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, in particolare
per le famiglie numerose (articolo 31).
Deve essere assicurata la tutela della salute come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della collettività, garantendo cure gratuite agli
indigenti (articolo 32).
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di
raggiungere i gradi più alti degli studi (articolo 34).
Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per
vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale, così come gli
inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento
professionale (articolo 38).
Alla luce di tali diritti costituzionali – che rappresentano
altrettanti doveri per le istituzioni e per tutte le formazioni sociali (dalle
organizzazioni sindacali e di categoria, alle associazioni di tutela ed al
volontariato, passando per gli ordini professionali e gli organismi che si
occupano di formazione o di studio e ricerca anche in ambito universitario) –
come spiegare la permanenza di ampie sacche di povertà in un paese, come
l’Italia, che si colloca tra i più ricchi del mondo? La ragione risiede, in
primo luogo, proprio nel mancato rispetto della pienezza del dettato
costituzionale. In particolare nei confronti delle persone più deboli e meno in
grado di rappresentarsi e di difendersi. Una condizione, questa, che non
necessariamente riguarda “gli altri”, ma nella quale può precipitare chiunque a
causa del progredire dell’età, dell’insorgere di una grave malattia o di un
evento invalidante.
Come osserva giustamente Vittorio Nozza, Presidente nazionale della
Caritas italiana, «il nostro Paese è
privo di un piano esplicito ed organico di lotta alla povertà. Invece ci sono
ragioni politiche ed etiche che impongono di avviare un concreto piano di lotta
alla povertà. Innanzitutto smuovendo l’inerzia politica: negli ultimi decenni
il problema è stato posto all’ordine del giorno, ma non è stato affrontato
adeguatamente. In secondo luogo, considerando la povertà e la famiglia: la
povertà si concentra infatti nelle famiglie con figli minori e con tre o più
figli, ma ha anche un’incidenza sulla natalità e provoca difficoltà nel creare
una famiglia da parte di moltissimi giovani; l’incertezza del lavoro e di un
reddito sicuro rende più difficile la scelta di mettere su casa e generare
figli. In terzo luogo, operando convintamente sul rapporto tra povertà e
democrazia: non va dimenticata la ricaduta negativa di una componente così
consistente e permanente di poveri nel tessuto democratico del Paese. Povertà
ed esclusione (sociale, ma anche dai diritti di cittadinanza) sono due realtà
impastate tra loro nei nostri territori. Le persone, private di quanto è
necessario per una vita dignitosa, difficilmente sono nella condizione di
vivere partecipazione, di assumere responsabilità, di contribuire allo sviluppo
del bene comune del Paese, come è chiesto ad ogni cittadino dalla Costituzione»
(36).
Per garantire condizioni di vita accettabili alle persone e ai nuclei
familiari, è dunque necessario promuovere – non solo a parole, ma nei fatti (e
quindi operando in primo luogo sul piano delle norme) – interventi che
assicurino ai cittadini condizioni autentiche di libertà e limitino le
situazioni di dipendenza e le richieste di assistenza. Per contrastare ed
interrompere il processo di esclusione sociale e di emarginazione che fa pagare
ai più deboli le conseguenze nefaste di una distorta organizzazione sociale, è
necessario che le situazioni create da tali fenomeni siano lette in termini
globali, ricercandone le cause profonde e verificando il senso dei rapporti
sociali, economici e politici esistenti.
Questo implica che le persone che vivono in condizione di povertà siano
coinvolte, in prima persona, nella scoperta delle cause della loro condizione e
nella gestione delle problematiche che da essa derivano. Occorre inoltre che,
attraverso la partecipazione attiva ed organizzata della cittadinanza, si conquisti
e si mantenga aperto lo spazio per far sì che le contraddizioni che l’attuale
dinamica sociale produce vengano assunte a livello della società nel suo
complesso e non si abbattano solamente su chi non ha voce né forza per
difendersi.
Ma «se si vuole veramente
riconoscere la dignità delle persone (…) i gruppi di volontariato e le
organizzazioni di tutela degli assistiti devono ripensare al loro ruolo.
Occorre passare dal volontariato consolatorio (che non incide sulle cause
dell’emarginazione sociale e quindi non svolge alcuna attività di prevenzione
del disagio) al volontariato dei diritti, caratterizzato dal concreto
riconoscimento delle esigenze delle persone e dei nuclei familiari in
difficoltà. In sostanza vi è la necessità (…) di superare il concetto di
beneficenza (fondato sull’aiuto dei più deboli da parte di persone ed enti che
non hanno, però, alcun obbligo di intervenire) e di considerare le specifiche
esigenze delle persone e dei nuclei familiari in difficoltà come interessi
basilari che la legge deve tutelare garantendo l’effettiva esigibilità dei
relativi diritti» (37). Ricordando, infine, che «i diritti umani vivono se e quando c’è qualcuno che li assume
anzitutto come un proprio dovere» (38).
* Direttore del Cisap, Consorzio dei servizi alla
persona dei Comuni di Collegno e Grugliasco (Torino).
(1) Mauro Perino, “Considerazioni sulla
disuguaglianza economica e sulla povertà in Italia”, Prospettive assistenziali, n. 162, 2008.
(2) Roberto Tesi, “Un Paese di poveracci”, Il Manifesto, 29 maggio 2008.
(3) Rossella Bocciarelli, “Metà famiglie sotto 1.900
euro”, Il Sole - 24 Ore, 29 maggio
2008.
(4) Nel 2005 risultavano in condizione di povertà
relativa 2.585.000 nuclei ovvero l’11,1% delle famiglie residenti in Italia per
un totale di ben 7.577.000 individui (il 13,1% dell’intera popolazione). Nel
2006 le famiglie che vivono in situazione di povertà relativa sono 2.623.000 e
rappresentano l’11,1% delle famiglie residenti; si tratta di 7.537.000
individui poveri, pari al 12,9% dell’intera popolazione.
(5) Galapagos, “Poveri. La geniale miseria di
Tremonti”, Il Manifesto, 20 giugno
2008.
(6) Ibidem.
(7) Legge 6 agosto 2008, n. 133, “Conversione in
legge, con modificazioni, del decreto-legge 25 giugno 2008, n.112, recante
disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione
tributaria”.
(8) Ivano Fucile, “La social card odora di carità”, Luna
nuova, 27 giugno 2008.
(9)
Integrabile, su richiesta, con un ulteriore contributo mensile di 10,33
euro.
(10) Paolo Bosi, “L’irresistibile attrazione dei
trasferimenti monetari”, Prospettive
sociali e sanitarie, n.19-20, 2007.
(11) Nicola Scicolone, “Il reddito minimo di
inserimento: serve per contrastare la povertà?”, Prospettive sociali e sanitarie, n.17-18, 2006.
(12) Emanuele Ranci Ortigosa, Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni, I Quid,
Milano, 2008. In tal senso si è mossa la Regione Piemonte che con la legge
regionale 8 gennaio 2004, n.1 “Norme per la realizzazione del sistema regionale
integrato di interventi e servizi sociali e riordino della legislazione di
riferimento” ha riconosciuto «a ciascun
cittadino il diritto di esigere, secondo le modalità previste dall’ente gestore
istituzionale, le prestazioni sociali di livello essenziale di cui all’articolo
18». Purtroppo, a tutt’oggi, solamente due Consorzi socio-assistenziali (il
Cisap di Collegno e Grugliasco ed il
Cidis di Beinasco, Bruino, Orbassano, Piossasco, Rivalta e Volvera) hanno
ottemperato ai disposto regionale approvando gli appositi regolamenti.
(13) P .Giuseppe Turati, “La povertà non si risolve
con l’ideologia: serve la carità”, La San
Vincenzo in Italia, n. 6, 2007.
(14) Ibidem.
(15) Messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima
2008, “Cristo si è fatto povero per voi”.
(16) Vittorio Nozza, “L’elemosina è realista, l’uomo
è fatto per donarsi”, Italia Caritas,
marzo 2008.
(17) Messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima
2008, Op. cit.
(18) Vittorio Nozza, Op. cit.
(19) Maria Nicolai Paynter, Perché verità sia libera. Memorie, confessioni, riflessioni e
itinerario poetico di David Maria Turoldo,
Rizzoli, Milano, 1994.
(20) Don Tonino Bello, “Occhi nuovi”, Grillo News, 17 aprile 2004.
(21) Francesco Santanera, “Alcune riflessioni sul
volontariato dei diritti”, Prospettive
assistenziali, n.144, 2003.
(22) “Apostolicam Actuositatem, 8”, citata in
Vittorio Nozza, “Incontriamo i poveri sulle strade del bene comune”, Italia Caritas, aprile 2008.
(23) Enrico Chiavacci, “Il bene comune”, Il Regno, n. 15, 2007.
(24) Dario Maffezzoni, “No all’elemosina, sì agli
aiuti che servono”, La San Vincenzo in
Italia, n.5, 2008.
(25) Claudio Ciancio, “Il volontariato tra carità e
giustizia”, Prospettive assistenziali,
n. 137, 2002.
(26) Ibidem.
(27) Ibidem.
(28) Ibidem.
(29) “Due forti discorsi del Cardinale Martini”, Prospettive assistenziali, n. 129, 2000.
(30) Zygmunt Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e le miserie degli
esclusi, Erickson, Gardolo (Tn), 2007.
(31) Ibidem.
(32) «Quando la
politica non sa più parlare, il ceto politico parla solo a se stesso di se
stesso, non interpreta la società e ne rincorre le pulsioni», Centro studi
per la riforma dello Stato, Il Manifesto,
11 giugno 2008.
(33) Stefano Rodotà, “Diritti. Ciò che la politica
guarda troppo poco”, Il Manifesto, 31
marzo 2008.
(34) Ibidem.
(35) Citato da Paolo Griseri in “Lavoro e povertà i
nodi della società piemontese”, La
Repubblica, 12 aprile 2008.
(36) Vittorio Nozza, “Incontriamo i poveri sulle
strade del bene comune”, Op. cit.
(37) Maria Grazia Breda, Donata Micucci, Francesco
Santanera, La riforma dell’assistenza e
dei servizi sociali. Analisi della legge 328/2000 e proposte attuative,
Utet Libreria, Torino, 2001. Sulla riflessione in corso sul ruolo effettivo del
volontariato è di utile lettura l’articolo “Istruttivi ripensamenti sul ruolo
del volontariato e le funzioni della cooperazione”, Prospettive assistenziali, n. 162, 2008.