Prospettive assistenziali, 161/2008

 

LA SCONCERTANTE APPLICAZIONE DELLA LEGGE 1580/1931 CONCERNENTE LE CONTRIBUZIONI ECONOMICHE A CARICO DEI PARENTI DEGLI ANZIANI MALATI CRONICI NON AUTOSUFFICIENTI

 

 

Recentemente sono state pronunciate tre sentenze in cui, essendo stata assunta come riferimento la legge 1580/1931 “Nuove norme per la rivalsa delle spese di spedalità e manicomiali”, viene stabilito che i Comuni possono pretendere dai parenti degli assistiti ultrasessantacinquenni, ricoverati presso le Rsa (Residenze sanitarie assistenziali) e strutture analoghe, contributi economici qualora i ricoverati non siano in grado di corrispondere l’intera quota alberghiera (1).

nei tre provvedimenti in esame mai si fa cenno alla legge 328/2000 (2) il cui articolo 25 stabilisce che «al fine dell’accesso ai servizi disciplinati dalla presente legge, la verifica della condizione economica del richiedente è effettuata secondo le disposizioni previste dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, come modificato dal decreto legislativo 31 marzo 2000, n. 130» (3).

Non avendo considerato che la norma di cui sopra abroga le disposizioni della legge 1580/1931, nelle tre sentenze viene erroneamente stabilito che è tuttora valida la richiesta di contributi economici ai congiunti degli anziani assistiti.

 

Capovolto il testo della legge 1580/1931

La sentenza del Tribunale di Milano n. 1609 datata 6 marzo 2007, si basa sulle disposizioni contenute nella prima parte dell’articolo 1 della legge 1580/1931. Al riguardo il giudice Renata Peregallo ha scritto nella sopra citata sentenza che il testo sarebbe il seguente: «Allo scopo di ottenere dai ricoverati che si trovino in condizioni di povertà, e in caso di loro morte dagli eredi legittimi e testamentari, la rivalsa delle spese di spedalità o manicomiali, le amministrazioni degli ospedali, dei Comuni o dei manicomi pubblici, sulla base degli accertamenti eseguiti, comunicano, mediante lettera raccomandata spedita per posta con ricevuta di ritorno, ai singoli obbligati l’ammontare delle somme da rimborsare, i motivi per cui viene chiesto il rimborso e le modalità di pagamento».

In realtà l’articolo 1 della legge 1580/1931 prevede esattamente il contrario di quel che ha indicato il giudice, in quanto sancisce che la rivalsa delle spese di spedalità o manicomiali è esperibile esclusivamente nei confronti dei ricoverati che «NON si trovino in condizioni di povertà».

Dunque, ammesso e non concesso che la legge 1580/1931 sia ancora in vigore, mentre il giudice di Milano sostiene erroneamente che il signor R. D. G. deve versare al Comune di Garbagnate la parte della retta non corrisposta dal fratello A. D. G., in realtà al congiunto poteva essere chiesto di provvedere al pagamento della degenza solamente se veniva accertato che il ricoverato «NON» si trovava in condizioni di povertà (4).

Pertanto il giudice, se riteneva ancora applicabile la legge 1580/1931, doveva in primo luogo accer­tare quali erano le condizioni economiche del de­gente.

Tuttavia, poiché la richiesta di contribuzione riguardava il periodo giugno-dicembre 2001, la legge 1580/1931 non è più applicabile in quanto nel frattempo sono entrati in vigore sia il sopra riportato articolo 25 della legge 328/2000, sia i decreti legislativi 109/1998 e 130/2000, in base ai quali (si veda il comma 2 ter dell’articolo 3 del testo unificato dei suddetti decreti legislativi) per le contribuzioni relative alle prestazioni socio-assistenziali fornite agli ultrasessantacinquenni non autosufficienti e ai soggetti con handicap in situazione di gravità deve essere presa in considerazione esclusivamente la situazione economica del diretto interessato, senza alcun onere a carico dei parenti, compresi quelli conviventi (5).

Ignorando le leggi sopra indicate e citando a sproposito (6) la sentenza della Corte di Cassazione n. 3629/2004, il giudice di Milano scrive che «la disciplina contenuta nell’articolo 1 della legge 1580/1931 non può essere ritenuta inoperante a seguito della soppressione dei manicomi e dell’istituzione del Servizio sanitario nazionale che garantisce l’assistenza ospedaliera senza l’imposizione di oneri (i c.d. tickets) ulteriori rispetto al prelievo fiscale», senza nemmeno tener conto che nella stessa sentenza 3629/2004 la Corte di Cassazione rinvia l’esame della questione al Tribunale competente «al fine di verificare la sussistenza del presupposto della situazione di indigenza cui l’articolo 1, terzo comma, che la legge n. 1580/1931 subordina l’azione di rivalsa» (7).

 

Altre due sentenze ignorano le leggi in vigore

Nonostante si riferiscano a degenze successive all’entrata in vigore della legge 328/2000 e dei decreti legislativi 109/1998 e 130/2000, anche le sentenze pronunciate dal Tribunale di Trento (n. 764/07 del 29 giugno 2007) e da quello di Parma (n. 974/07 del 6 luglio 2007) pongono contributi a carico dei parenti di ricoverati ultrasessantacin­quenni, poiché si fondano erroneamente sulla vigenza della legge 1580/1931 e sul richiamo alle sentenze della Corte di Cassazione, in particolare la n. 481/1998 e la già citata n. 3629/2004 (8). È quindi sperabile che gli interessati ricorrano contro i due provvedimenti pronunciati sulla base di una legge non più in vi­gore.

 

Un autorevole parere

Nell’articolo “Ancora sul pagamento delle rette di ricovero a carico dei parenti: errare humanum est, perseverare diabolicum” (Prospettive assistenziali, n. 138, 2002), Massimo Dogliotti, magistrato della Corte di Cassazione e docente di diritto civile all’Università di Genova, dopo aver rilevato che la Corte di Cassazione «ha riportato inopinatamente in vita dopo un lungo letargo» la legge 3 dicembre 1931, n. 1580 “Nuove norme per la rivalsa delle spese di spedalità e manicomiali” in quanto detta legge «sembrava implicitamente abrogata a seguito della legge 180/1978 (chiusura dei manicomi) e la legge 833/1978 (riforma della sanità)», ha precisato che essa doveva essere considerata abrogata in quanto «si ispirava ad una logica ospedaliera e manicomiale, totalmente differente rispetto alle attuali caratteristiche del sistema sanitario nazio­nale».

Inoltre ha asserito quanto segue: «In ogni caso, seppur non si considerasse non abrogata già
anteriormente, è da ritenere che la legge n. 1580 sarebbe stata abrogata dal decreto legislativo
n. 109/1998, secondo il principio generale per cui la legge posteriore abroga quella anteriore; infatti la rivalsa non potrebbe certo riguardare le prestazioni strettamente cliniche e sanitarie, ma solo quelle cosiddette “alberghiere” di permanenza e soggiorno nella struttura. Ma queste si inquadrerebbero sostanzialmente in quelle assistenziali di cui alla legge n. 328/2000 e rientrerebbero nella previsione del decreto legislativo 109/1998»
, come modificato dal decreto legislativo 130/2000.

 

Non applicabilità della legge 1580/1931 nei confronti delle persone in condizioni di povertà

Come è stato rilevato in precedenza, la legge 1580/1931 prevedeva l’azione di rivalsa esclusivamente nei confronti dei ricoverati che «NON si trovino in condizioni di povertà».

Nonostante l’estrema importanza di detta delimitazione dell’azione di rivalsa, è assai preoccupante che la Corte di Cassazione ne abbia tenuto conto solamente nella sentenza n. 3629/2004 e non in quelle precedenti, ponendo in tal modo oneri economici ingiustificati (e forse anche rilevanti) ai congiunti dei ricoverati che «NON» si trovavano in condizioni di povertà.

Circa l’individuazione delle condizioni economiche del soggetto ricoverato, nella circolare applicativa emanata dal Ministero dell’interno in data 29 gennaio 1932, prot. 25200-I (9) viene precisato che «il criterio per determinare il concetto di povertà agli effetti della ripetibilità o meno delle spese di spedalità, deve essere quello di povertà relativa nel senso che tale stato sia sufficiente ad escludere il rimborso delle spese».

Dunque, secondo la legge 1580/1931 dovevano essere considerate povere le persone che non avevano i mezzi economici sufficienti per il pagamento dell’intera retta, interpretazione che è del tutto diversa rispetto a quella espressa nelle prime sentenze emanate dalla Corte di Cassazione.

Questa interpretazione è suffragata anche dalle indicazioni contenute nella richiamata circolare del 29 gennaio 1932 in cui, tenuta anche presente una relazione dell’Ufficio centrale del Senato, viene puntualizzato che il criterio da assumere per determinare il concetto di povertà deve essere «quello finora seguito dalla costante giurisprudenza nei rapporti del ricovero manicomiale. Esso inoltre è in perfetta corrispondenza ai criteri informativi del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 2841, in base a cui, com’è noto, povero deve essere considerato non soltanto chi manchi assolutamente di tutto, e cioè l’indigente o il necessitoso, ma anche chi non abbia in misura sufficiente quanto gli occorre per poter sussistere convenientemente, seconda la sua condizione individuale e sociale, e debba procacciarsi il necessario con industria e fatica, pur non avendo bisogno di ricorrere all’altrui compassione».

secondo detta circolare ne consegue che «ammesso l’accennato concetto della povertà relativa, l’azione per la rivalsa deve, nel silenzio dell’articolo, ritenersi esperibile tanto se la condizione di povertà non esisteva al momento del ricovero, quanto se sia venuta a mancare durante la degenza o anche dopo che questa abbia avuto termine», chiarendo che «è ovvio che l’azione non è esperibile quando la condizione di povertà, pur non esistendo al momento del ricovero, sia successivamente sopravvenuta, e, comunque, sussista, nel tempo in cui s’intenderebbe di esperimentare l’azione».

In conclusione pare di poter affermare che la legge 1580/1931 non consentiva l’azione di rivalsa nei confronti delle persone ricoverate in ospedale o in manicomio qualora esse, pur essendo state in grado di provvedere autonomamente alle loro esigenze prima del ricovero, non avevano i mezzi economici sufficienti per la corresponsione dell’intera retta di degenza. In questi casi, come è già stato ricordato, le spese di spedalità erano interamente a carico dei Comuni.

 

Obblighi degli eredi e dei parenti tenuti agli alimenti

La legge 1580/1931 stabiliva che, per i ricoverati che «NON si trovino in condizioni di povertà», la rivalsa delle spese di spedalità o manicomiali doveva essere indirizzata agli eredi legittimi e testamentari. In sostanza, essi erano tenuti a versare gli importi che il ricoverato, essendo in possesso di sufficienti risorse economiche, avrebbe dovuto corrispondere per la sua degenza.

Per quanto riguarda i parenti tenuti agli alimenti, la legge 1580/1931 precisava che la rivalsa «PUò» essere esercitata: non poneva quindi alcun obbligo alle amministrazioni degli ospedali, ai comuni e ai manicomi pubblici.

stabiliva inoltre che detti parenti dovevano essere «per legge tenuti agli alimenti durante il periodo di ricovero» oltre che «in condizione di sostenere, in tutto o in parte, l’onere delle degenze».

A questo riguardo occorre ricordare, com’è ormai ampiamente riconosciuto, che, essendo la richiesta degli alimenti una libera facoltà del soggetto bisognoso, gli enti pubblici o privati non possono in nessun caso sostituirsi all’interessato (10).

Ne deriva che, nei casi in cui i soggetti ricoverati «NON» si trovavano in condizioni di povertà (se poveri la degenza era gratuita) e non avevano presentato ai propri parenti tenuti agli alimenti la richiesta di cui agli articoli 433 e seguenti del codice civile, le rivalse non potevano essere indirizzate ai suddetti parenti, ma solamente agli stessi ricoverati o, per quelli deceduti, esclusivamente ai loro eredi legittimi e testamentari.

D’altra parte i ricoverati, sulla base delle considerazioni svolte in precedenza, se avevano i mezzi per vivere ma non le risorse economiche per pagare la degenza, non avevano alcuna necessità di chiedere gli alimenti in quanto gli oneri relativi al ricovero erano a carico dei Comuni.

 

I soggetti tenuti a corrispondere gli oneri di degenza

Nella sentenza della Corte di Cassazione n. 481/1998 (11) viene asserito che la legge 1580/1931 «anche dopo l’entrata in vigore della legge 833/1978 presenta – pur nel quadro affatto peculiare delle vigenti norme sul Servizio sanitario nazionale – un indubbio margine di applicabilità proprio alla ipotesi – alla quale non fa ostacolo la sussistenza di una “degenza” geriatrica anziché di un ricovero per terapie – di un servizio socio-assistenziale che reso a domanda, con anticipazione degli oneri da parte del Comune, e con il diritto dell’ente di agire direttamente nei riguardi del ricoverato (sulla base della convenzione stipulata e nei limiti statuiti in attuazione delle norme regionali) e/o, in via di “rivalsa”, nei riguardi di coloro  che sarebbero stati obbligati alla prestazione alimentare durante il periodo di degenza».

Al riguardo va rilevato che nella legge 1580/1931 non vi erano cenni di sorta in merito agli oneri di natura assistenziale o alberghiera, in quanto si faceva esclusivamente riferimento alle «spese di spedalità o manicomiali» (articolo 1, comma 1), alle «spese di spedalità» (articolo 1, comma 2) e alla «rivalsa della spedalità» (articolo 3, comma 3): la natura delle prestazioni previste dalla legge 1580/1931 era sempre e solo sanitaria e mai socio-assistenziale o socio-sanitaria.

Pertanto, nei casi in cui il ricoverato o i suoi eredi o i congiunti erano tenuti al pagamento delle spese di spedalità ai sensi della legge 1580/1931, il relativo importo era calcolato dall’Amministrazione dell’ospedale o dal Comune sull’ammontare complessivo dei costi sostenuti, senza alcuna ripartizione, allora non prevista, fra quota sanitaria e quota alberghiera.

Dunque, restano incomprensibili i motivi in base ai quali la Corte di Cassazione ha stabilito nella citata sentenza n. 481/1998 che la legge 1580/1931 presenta «un indubbio margine di applicabilità» in merito alle prestazioni socio-assistenziali, poiché esse – come è stato evidenziato in precedenza – non erano contemplate nelle leggi allora in vigore.

 

La determinazione dell’importo degli oneri di degenza

Poiché, con l’entrata in vigore della Costituzione, viene sancito (articolo 23) che «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alle leggi», non si comprende in base a quale disposizione la Corte di Cassazione abbia riconosciuto ai Comuni, in assenza di una normativa approvata dal Parlamento, la possibilità di stabilire l’importo della rivalsa delle spese di spedalità riferito alla quota alberghiera.

Da notare che, com’è ovvio, i Comuni, le Province, incluse quelle autonome di Bolzano e Trento, e le Regioni, comprese quelle a statuto speciale, non hanno alcuna competenza nei confronti dei parenti degli assistiti conviventi o non conviventi.

Dunque, anche in relazione al sopra citato articolo 23 della Costituzione, le Regioni, le Province ed i Comuni dal 1° gennaio 1948, e cioè da quando è entrata in vigore la stessa Costituzione, nulla potevano e possono imporre ai congiunti degli assistiti.

Come già osservato in precedenza, la normativa in materia attualmente in vigore è costituita dall’articolo 25 della legge 328/2000 e dai decreti legislativi 109/1998 e 130/2000 in base ai quali nessun onere economico può essere richiesto ai parenti, compresi quelli conviventi degli assistiti ultrasessantacinquenni non autosufficienti e dei soggetti con handicap in situazione di gravità.

 

Gli anziani non autosufficienti

sono persone malate

contrasta con la realtà dei fatti l’affermazione della Corte di Cassazione secondo cui la degenza “geriatrica” (così definita nella citata sentenza n. 481/1998) sarebbe un «servizio socio-assistenziale» e non un «ricovero per terapie» (12).

È invece vero che la degenza degli anziani cronici non autosufficienti è determinata dalla presenza di malattie invalidanti o di loro esiti, d’altra parte di entità così grave da causare spesso sofferenze anche rilevanti.

Pertanto, il ricovero presso le Rsa e le analoghe strutture non solo non è un «servizio socio-assistenziale» come scrive la Corte di Cassazione, ma è essenzialmente sanitario in quanto rivolto alla cura medico-infermieristica delle patologie, agli interventi diretti ad evitare per quanto possibile gli aggravamenti e alle prestazioni dirette alla eliminazione o riduzione del dolore (13).

Peraltro non si tratta nemmeno di un servizio «reso a domanda» rientrando a pieno titolo fra i diritti esigibili delle persone malate come stabiliscono l’articolo 54 della legge 289/2002, nonché la normativa precedente a partire dalla legge 692/1955.

D’altra parte occorre tener presente che, come risulta dalla sentenza n. 10150/1996, la Corte di Cassazione «procedendo alla ricognizione sistematica della disciplina legislativa» ha accertato che «l’articolo 30 della legge 730/1983 ha disciplinato anche le attività di tipo socio-assistenziale (…) e l’attività di rilievo sanitario connessa con quella socio-assistenziale», nonché «l’individuazione dei ricoveri in struttura protetta, comunque denominata, rientranti nel concetto di attività socio-assistenziale di rilievo sanitario».

È pertanto sorprendente che nella sentenza 481/1998 vengano attribuite alla legge 1580/1931 definizioni che per la prima volta nella nostra normativa vengono introdotte in linea di principio con la legge 730/1983 (legge finanziaria 1984) mentre le percentuali della quota sanitaria e di quella alberghiera sono state stabilite solamente mediante il sopra citato articolo 54 della legge 289/2002 (legge finanziaria 2003) che ha dato valore di legge alle disposizioni del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29 novembre 2001 sui livelli essenziali di assistenza sanitaria. Da notare che in detto decreto è precisato che «per le singole tipologie erogative di carattere socio-sanitario (…) la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili».

Non si comprende, anche sotto questo aspetto, come la Corte di Cassazione, nelle sentenze in cui ha richiamato la legge 1580/1931, abbia potuto considerare valida l’individuazione quantitativa della quota alberghiera calcolata dai Comuni in assenza di una legge dello Stato, come previsto dall’articolo 23 della Costituzione, per quanto concerne attività che «non risultano operativamente distinguibili» rispetto alle prestazioni sanitarie.

 

Le procedure previste dalla legge 1580/1931

Nella già nominata circolare del 9 gennaio 1932 del Ministero dell’interno viene ricordato che «per ovvie considerazioni è, però, opportuno che le Amministrazioni dei Comuni (cui gli ospedali […] sono tenuti a notificare l’eventuale ricovero) avvertano, a loro volta, appena sia possibile, i congiunti dei ricoverati, e ciò anche allo scopo di metterli in grado di provvedere, eventualmente, in altro modo all’assistenza dei loro congiunti», aggiungendo la seguente raccomandazione: «Si richiama su questo punto la particolare attenzione delle LL. EE., con preghiera di curare che a tale adempimento sia provveduto da parte delle amministrazioni dei Comuni».

Occorre altresì considerare che il secondo comma dell’articolo 3 della legge 1580/1931 stabiliva che qualora la notifica relativa alla rivalsa «non venga eseguita nel termine di cinque anni dalla effettiva cessazione del ricovero, le amministrazioni degli ospedali, dei Comuni e dei manicomi pubblici non potranno più avvalersi della procedura privilegiata stabilita con la presente legge».

Ciò premesso, è singolare che nelle sentenze pronunciate in merito alla legge 1580/1931, la Corte di Cassazione non abbia mai considerato se i sopra citati adempimenti erano stati o meno rispettati.

 

La Corte di Cassazione fornisce due interpretazioni molto diverse

È significativo osservare che la Corte di Cassazione ha modificato il proprio orientamento in merito all’applicabilità della legge 1580/1931.

Infatti, mentre nelle citate sentenze 481/1998 e 3822/2001 aveva sancito che i parenti erano tenuti senz’altro al pagamento delle somme richieste dai Comuni, essendosi i giudici accorti che la rivalsa era esperibile esclusivamente nei casi dei ricoverati che «NON si trovino in condizioni di povertà», nella sentenza 3629/2004 ha previsto il rinvio al Tribunale del capoluogo ligure l’esame della richiesta di pagamento avanzata dall’Asl 3 di Genova nei riguardi del signor B. C. «al fine di verificare la sussistenza del presupposto della situazione di indigenza cui l’articolo 1, comma terzo della legge 1580/1931 subordina l’azione di rivalsa» (14) senza però nulla dire in merito all’osservanza o meno delle procedure stabilite dalla suddetta legge.

 

Conclusioni

Sulla base delle considerazioni svolte in precedenza sembra di poter affermare che le sentenze della Corte di Cassazione sull’applicabilità della legge 1580/1931, «inopinatamente» riportata in vita, si sono ispirate ad argomentazioni più ideologiche che giuridiche, per cui l’«indubbio margine di applicabilità» contemplato dalla sentenza 481/1998 è stato probabilmente individuato in base al pregiudizio secondo cui se i parenti non pagano, essi si orientano verso l’abbandono dei loro congiunti, dimenticando che si tratta di persone colpite da patologie invalidanti e quindi necessitanti in primo luogo di cure sanitarie che le leggi vigenti stabiliscono essere gratuite (15).

Detta logica, purtroppo cavalcata da moltissime Regioni e da numerosi Comuni e fatta propria anche dai Ministeri della sanità e della solidarietà sociale, è quella che ha determinato la caduta in povertà di centinaia di migliaia di famiglie (16) ed ha lasciato (si vedano le liste di attesa per le cure domiciliari, semiresidenziali e residenziali) centinaia di migliaia di anziani malati cronici non autosufficienti privi delle necessarie prestazioni previste dalle leggi vigenti a carico del Servizio sanitario nazionale.

 

 

 

(1) Sono stati preannunciati appelli contro le tre sentenze.

(2) Le richieste riguardano periodi di ricovero successivi all’entrata in vigore della legge 328/2000 perché disposti dopo il 1° gennaio 2001.

(3) Com’è noto tutte le prestazioni socio-assistenziali, comprese quelle definite “alberghiere”, sono disciplinate dalla legge 328/2000.

(4) Occorre tener presente che nel 1931 le cure sanitarie erano fornite gratuitamente ai malati in condizione di povertà.

(5) Si ricorda che il 6° comma dell’articolo 2 del testo unificato dei decreti legislativi 109/1998 e 130/2000 vieta agli enti pubblici di sostituirsi al soggetto bisognoso  nella richiesta ai congiunti degli alimenti di cui agli articoli 433 e seguenti del Codice civile.

(6) A sproposito, in quanto la sentenza n. 3629/2004 si riferisce ad una richiesta di contributi per una degenza relativa al 1995 e cioè prima dell’entrata in vigore della legge 328/2000.

(7) Come si vedrà in seguito l’azione di rivalsa non è subordinata alla condizione di «indigenza» del ricoverato, ma a quella della sua povertà relativa.

(8) Si ricorda nuovamente che, pur essendo successive all’entrata in vigore della legge 328/2000 e dei decreti legislativi 109/1998 e 130/2000, tutte le sentenze finora emanate dalla Corte di Cassazione si riferiscono a rivalse richieste per degenze anteriori al 1° gennaio 2001.

(9) Cfr. Giuliano Mazzoni e Riccardo Catelani, Codice della legislazione assistenziale, Istituto Poligrafico delle Stato, Roma, 1958.

(10) Il primo comma dell’articolo 438 del Codice civile si esprime nei seguenti termini: «Gli alimenti possono essere richiesti solo da chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento».

(11) Si tratta della prima sentenza emanata dalla Corte di Cassazione in merito all’applicabilità della legge 1580/1931.

(12) Se si trattasse, come in effetti è, di «ricovero per terapie», verrebbero meno le argomentazioni della sentenza della Cassazione n. 481/1998 e di quelle successive.

(13) A conferma della valenza eminentemente sanitaria delle prestazioni rivolte agli anziani non autosufficienti, si ricorda che in Piemonte vi sono Rsa, residenze sanitarie assistenziali, gestite direttamente da Asl.

(14) Si veda quanto precisato in precedenza circa la condizione di indigenza.

(15) Resta accettabile la richiesta di contribuzioni al malato, da calcolare sulla base delle sue personali risorse economiche.

(16) Si ricorda nuovamente che nel documento “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” predisposto nell’ottobre 2000 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ufficio del Ministro per la solidarietà sociale viene affermato che «nel corso del 1999, due milioni di famiglie italiane sono scese sotto la soglia della povertà a fronte del carico di spese sostenute per la “cura” di un componente affetto da una malattia cronica».