Prospettive assistenziali, n. 160, ottobre - dicembre 2007

 

 

PROTOCOLLO D’INTESA TRA IL MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE E LE ASSOCIAZIONI NAZIONALI DEI GENITORI

 

 

Il 10 ottobre 2007 è stato firmato un importante Protocollo d’intesa tra il Ministero della pubblica istruzione e le Associazioni nazionali dei genitori, in base al quale «il Ministero della pubblica istruzione e le Associazioni nazionali dei genitori, nel rispetto  dei propri ruoli e competenze istituzionali, si impegnano, attraverso il Fonags (Forum nazionale delle associazioni  dei genitori della scuola di cui fanno parte Age, Associazione italiana genitori; Agesc, Associazione genitori scuole cattoliche; Cgd, Coordinamento genitori democratici) a porre in essere congiuntamente iniziative volte a  prevenire e contrastare ogni fenomeno di violenza, di intolleranza tra i giovani all’interno dell’istituzione scola­stica».

 

Impegni del Ministero della pubblica istruzione

Il Ministero si è impegnato a:

- «favorire la diffusione negli orari scolastici ed extrascolastici, nel rispetto dell’autonomia delle singole istituzioni scolastiche e nell’ambito della quota di flessibilità dei piani di studio inseriti nel Pof (Piano offerta formativa) ed approvati dagli organi collegiali di competenza, di percorsi pilota per la valorizzazione delle diversità nell’ottica di una considerazione della specifica identità unica e irripetibile di ogni studente;

- «promuovere e sostenere progetti culturali e formativi che contribuiscano alla prevenzione e comprensione del fenomeno del bullismo, compresi atti di intolleranza razziale o religiosa, di violenza omofobica e di violenza giovanile in ogni sua forma fisica e psicologica;

- «favorire la diffusione nel mondo della scuola dei progetti educativi, preventivi e di ricerca realizzati e co-realizzati con le associazioni nazionali dei genitori;

- «favorire la partecipazione di insegnanti, studenti e genitori a convegni, progetti ed eventi organizzati dalle associazioni dei genitori e degli studenti, in collaborazione con le scuole;

- «sostenere a livello nazionale, regionale e locale le attività promosse in attuazione del presente protocollo».

 

Impegno delle associazioni nazionali dei genitori

A loro volta le associazioni nazionali dei genitori si sono impegnate a:

- «promuovere iniziative di sensibilizzazione, informazione e formazione rivolte agli studenti, ai genitori e ai docenti su temi che riguardano la prevenzione di tutte le  forme di bullismo, compresi atti di intolleranza razziale o religiosa, di violenza omofobica e di violenza giovanile in ogni sua forma fisica e psicologica;

- «mettere al servizio dell’istituzione scolastica le metodologie e le competenze proprie dell’associazionismo dei genitori;

- «studiare e ricercare metodologie e pratiche per ridurre e prevenire i fenomeni del bullismo, della violenza e del disagio giovanile;

- «collaborare nell’elaborazione di progetti di formazione dei docenti sulle tematiche relative al bullismo e alla prevenzione di ogni forma  di disagio giovanile;

- «offrire ai giovani e alle loro famiglie assistenza e informazioni relative ai fenomeni di bullismo e di violenza nelle scuole».

 

L’adesione dell’Anfaa

L’Anfaa (Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie) ha firmato il Progetto. Queste le motivazioni.

L’Anfaa ha deciso di dare la sua adesione a questo protocollo perché i figli adottivi, soprattutto se adottati già grandicelli o i bambini affidati, possono avere alle loro spalle una storia che in qualche modo li ha segnati e quindi il loro inserimento nella scuola va seguita con attenzione.

Un bambino adottato, soprattutto se straniero, e un bambino affidato possono dover superare, più di altri, una serie di ostacoli per sentirsi inseriti all’interno della propria famiglia e in seguito all’interno del contesto più ampio di appartenenza.

La sicurezza che pian piano ognuno di loro riesce a costruirsi nella famiglia  adottiva o affidataria a volte può vacillare di fronte al non riconoscimento esterno dell’“altro”.

A scuola il bambino si trova a dover affrontare le domande, le curiosità o le richieste degli insegnanti e dei compagni e può trovarsi in difficoltà nel dare una spiegazione della sua situazione: il genitore non è presente ed è lui che deve trovare le parole per rispondere.

Avrà difficoltà a raccontarsi perché è difficile per i bambini capire che al mondo siamo tutti diversi se non è l’adulto ad insegnarglielo e se non è l’adulto a fargli comprendere che ogni diversità contiene in sé una ricchezza. Se i bambini non sono abituati a capire, ad accettare e valorizzare la diversità, nei momenti di conflitto e non solo, la stigmatizzeranno.

A questi problemi si aggiunge nel bambino straniero adottato l’iniziale difficoltà nell’uso della lingua italiana.

Alcuni bambini adottivi e affidati, soprattutto se hanno un passato difficile, possono inoltre incontrare difficoltà di apprendimento che molto spesso hanno la loro origine in quella che Bowlby definisce la «fatica di pensare».

C’è in questi bambini la fatica di vivere il presente e di tenere a bada il passato, di inserirsi in un contesto completamente nuovo, il desiderio e il timore di allacciare legami, la paura di non essere amato e di non essere accettato dal gruppo dei suoi pari.

Bisogna, quindi, che la scuola sia preparata, che sappia essere accogliente. Si parla molto nelle scuole di “fare accoglienza”, ma bisognerebbe parlare di “essere accoglienti”. Il verbo “accogliere” deriva dal latino ad-colligere che è ad un tempo “andare verso” e “un ricevere in sé”.

Tenere insieme intelligenza ed affetto (l’intelligenza del cuore come la chiama Maria Zambrano o avere un cuore intelligente come diceva Flaubert) è la sfida che ogni insegnante dovrebbe continuamente aprire con se stesso. È l’atteggiamento di dialogo con l’altro, con quello che può venire dall’altro come esperienza sempre individuale, che deve essere valorizzato nella relazione educativa.

Solo se le emozioni e i sentimenti degli allievi sono accolti e riconosciuti come aspetti strettamente legati all’esperienza e non come ostacolo o disturbo allo svolgimento del programma, il bambino può trovare la forza di sentire la propria storia, anche se a volte dolorosa, come un valore e non come un motivo di esclusione da tutti gli altri.

Ogni bambino potrà trovare una spiegazione alla sua storia personale solo se capirà che la sua storia è compresa, accettata e non si sentirà aggredito da domande e commenti. Non è la domanda a essere pericolosa, ma l’aggressione e la non accettazione che si nasconde dietro la domanda.

Ciò che è fondamentale, quindi, è lavorare per creare un buon clima di classe fatto di gesti, atti e comportamenti, non solo di parole, come prerequisito per cui ogni allievo possa star bene al di là dei suoi problemi, della sua storia, della sua situazione famigliare.

Il bullismo non si affronta solo con più punizioni, ma con l’educazione. Bisogna insegnare, a nostro avviso, ai ragazzi a mettersi in ascolto. Si dovrebbe insegnare che nessuno dovrebbe mai sentirsi solo. La solitudine, dice Jung, «è sperimentata proprio come percezione dell’impossibilità di comunicare i propri vissuti e i propri più intimi pensieri».

Maestri, compagni e genitori devono imparare a costruire una rete in cui ogni bambino si senta agganciato all’altro e l’insegnante è colui che  aiuta a costruire le maglie.

La cosa che, infatti, chiedono tutti i bambini con più insistenza è di essere accettati proprio dai compagni. I bambini, oggi, sembrano più adulti, perché hanno i desideri dei grandi, ma in realtà sono sempre più immaturi affettivamente, sempre meno sanno decifrare le loro emozioni, sanno parlare dei loro sentimenti e delle loro paure perché sempre meno trovano spazi e situazioni in cui poterlo fare.

Tra di loro non sono abituati ad ascoltarsi, a soccorrersi. Si giudicano per come vestono, per come riescono nei giochi, ma non si conoscono veramente, tutti chiusi come sono nel loro mondo. Hanno difficoltà a esprimere i propri sentimenti ed avere rapporti interpersonali. Tuttavia amano il gruppo e dal gruppo vogliono sentirsi accettati a tutti i costi, ma difficilmente da soli sanno creare un gruppo che accolga e sappia rispettare anche i più deboli.

L’aggredire l’altro è normale, prenderlo in giro, insultarlo è solo uno scherzo e non si ha coscienza di far del male. Non sanno dare risposte del loro comportamento, non sanno cosa vuol dire essere responsabili, non sanno ribellarsi all’ingiustizia.

È compito di noi adulti far comprendere la differenza tra scherzo e offesa, tra divertimento e aggressione dell’altro, far notare che ciò che noi soffriamo è sofferenza anche nell’altro, che la sensibilità può essere diversa, che qualcuno può essere più vulnerabile di un altro.

Starebbe a noi parlare di sentimenti, di emozioni, ma forse anche noi abbiamo perso questi valori, forse anche noi non ne siamo più capaci.

Sta a noi educarli a dare risposte, a essere responsabili dei loro comportamenti non per punirli, ma per far loro prendere coscienza di quanto ogni piccolo gesto può far del bene o del male, per renderli partecipi della vita degli altri, per aiutarli a sentirsi individui tra altri individui e non parte di un gruppo in cui comanda chi alza più la voce per farsi sentire.

È un lavoro lungo, continuo, attento, un lavoro soprattutto quotidiano. Troppo spesso liquidiamo questi comportamenti con un “sono solo ragazzate” o una sospensione, due estremi che nulla hanno a che fare con il lavoro di educazione alla responsabilità e all’affettività, a conoscere, come l’ha definito U. Galimberti, «l’alfabeto emotivo». Troppo spesso siamo attenti a non rimanere indietro al programma e non a quello che succede intorno a noi.

L’insegnante non deve percepire questo lavoro come una perdita di tempo, ma come un prerequisito perché tutti i ragazzi, non solo i figli adottivi o affidati, trovino nella scuola un luogo dove imparare serenamente e dove prendere coscienza che la cultura è legata alla vita e quindi non sentirla estranea.

 

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