Prospettive assistenziali, n. 160, ottobre - dicembre 2007

 

 

Libri

 

 

BRUNO MANGHI, Fare del bene - Il piacere del dono e la generosità organizzata, Marsilio Editori, Venezia, 2007, pag. 94, euro 8,00

Espressione della cultura ancora fondata sulla discrezionalità/beneficenza degli interventi rivolti alle persone deboli, Bruno Manghi, sociologo e sindacalista della Cisl, esalta il volontariato consolatorio, arrivando ad affermare che «il volontariato conquista spazio nei confronti della politica e del sistema pubblico» e addirittura che «riesce a competere con l’economia del profitto».

Evidentemente, se il volontariato opera per tappare una parte dei buchi soprattutto quelli meno accettati sotto il profilo sociale dalla popolazione, causati dalle carenze, spesso vistose, delle attività di competenza del settore pubblico, è purtroppo vero che conquista e conquisterà sempre maggiori «spazi nei confronti della politica e del sistema pubblico».

Infatti, svolgendo il ruolo di consolatore dei soggetti più bisognosi, aiuta concretamente, e in misura rilevante, «l’economia del profitto» che si può pertanto sviluppare consentendo allo Stato di non assumere le misure (vedi i relativi oneri economici) necessarie per contenere le situazioni di malessere.

Se, ad esempio, nessuno protesta, come sta av­venendo da anni, per le pensioni da fame (euro 283,44 al mese) erogate a coloro che sono colpiti da handicap invalidanti in modo così grave da rendere irrealizzabile qualsiasi inserimento lavorativo, le re­lative risorse possono essere indirizzate alla riduzione delle tasse pagate dai cittadini abbienti. Pertanto, se si considera il ruolo consolatorio del volontariato organizzato, si comprendono i motivi in base ai quali è sostenuto, incoraggiato e finanziato dal settore pubblico. Ben diverso, come l’esperienza insegna, è il comportamento delle autorità e dei mezzi di comunicazione di massa nei riguardi del volontariato dei diritti, la cui operatività è rivolta ad ottenere il riconoscimento effettivo delle esigenze fondamentali di vita delle persone deboli, in particolare di quelle che, a causa dell’età (bambini) e delle condizioni di salute non sono in grado di autodifendersi.

Bruno Man­ghi mai fa riferimento ai bisogni delle persone in condizioni di grave disagio socio-economico e alla loro dignità che, a nostro avviso, è calpestata tutte le volte che detti bisogni essenziali non sono soddisfatti. L’Autore prende solo in considerazione il comportamento dei volontari e lo considera un “dono” positivo.

Mentre è vero che la cura diffusa «dell’ambiente, la preoccupazione per le bellezze artistiche, per gli animali, indicano il desiderio di rendere la nostra presenza nel mondo più amichevole e più degna», queste scelte positive non sono affatto paragonabili alla «cura diffusa del prossimo».

Si tratta infatti non di cose, come lo sono le sopra citate «bellezze artistiche», ma di persone che hanno esigenze comuni a tutti gli individui e il cui rispetto, e cioè la loro personale dignità, dovrebbe essere l’obiettivo non solo delle autorità preposte al bene comune ma di tutti i cittadini. Risulta quindi inaccettabile la valutazione del “dono” (come Manghi definisce gli atti del volontariato) partendo dalle motivazioni espresse dal “donante”.

Occorre invece analizzare i comportamenti concreti assumendo come riferimento fondamentale gli effetti del “dono” riguardo non solo il singolo beneficiato, ma l’intero gruppo delle persone che si ritrovano nella stessa condizione. Per esempio, il “dono” fatto dal volontario che provvede come attività di routine ad imboccare uno o più degenti in un ospedale o in una residenza sanitaria assistenziale non deve essere valutato solo come un atto positivo per il malato non autosufficiente, ma deve essere considerato anche nei suoi aspetti generali. È giusto che questo malato riceva il cibo, atto indissolubilmente legato non alla cura della sua malattia ma anche al suo diritto fondamentale di vivere, da un volontario per cui se questi non è presente per qualsiasi motivo, nessuno provvede come purtroppo succede in molte strutture? Affidare ai volontari compiti ineludibili da parte delle autorità preposte alla cura dei malati, a parte la pur basilare questione della continuità delle prestazioni, non è un mezzo per evitare l’assunzione di personale indispensabile?

A nostro avviso occorre superare al più presto la cultura del volontariato organizzato come tappabuchi e bisogna, nel rispetto effettivo della pari dignità di tutte le persone, operare affinché il volontariato organizzato non copra più le carenze delle istituzioni, ma operi perché anche ai soggetti deboli vengano riconosciuti diritti esigibili per quanto concerne le loro esigenze fondamentali di vita. C’è, altresì, la necessità che il volontariato organizzato non si limiti ad intervenire sugli effetti dell’emarginazione dei più deboli, ma operi anche per l’eliminazione o almeno la riduzione delle cause del disagio sociale.

Per quanto riguarda i volontari che agiscono a livello personale, sarebbe necessario che essi ponessero la massima attenzione possibile al fine di evitare che il loro impegno venga strumentalizzato dalle istituzioni, come spesso avviene attualmente, che si sentono autorizzate di fatto a non intervenire, con la conseguenza, fra l’altro, che quando il volontario non è più in grado di provvedere il beneficiario è abbandonato a se stesso.

 

CLEOPATRA D’AMBROSIO, Capire i disagi dei bambini - le richieste d’aiuto che preoccupano i genitori, Edizioni Erickson, Gardolo (Trento), 2007, pag. 196, euro 15,50

Come precisa l’Autrice, data la complessità del rapporto educativo «il genitore, o più in generale l’educatore, è confrontato costantemente con diverse variabili e deve decidere di volta in volta cosa è opportuno fare, quale intervento privilegiare». Ne deriva, fra l’altro, che «in alcune situazioni è importante trasformare la richiesta educativa in gioco, evitando imposizioni, in altre sarà più opportuno essere assertivi e comunicare al bambino con fermezza». In particolare «l’adulto che non ha impedimenti emotivi ed è capace di empatia ascolta il bambino, crea un clima favorevole alla comunicazione e gli consente di esprimersi, di sentirsi a proprio agio».

Per quanto riguarda le punizioni corporali, compreso il cosiddetto “schiaffo meritato” Cleopatra D’Am­brosio osserva che «non può esserci nulla di educativo nell’uso della forza: qualsiasi tipo di violenza l’adulto scelga di usare nella relazione è fortemente nociva ed è solo una dichiarazione di potere che ha l’intento di sottomettere il bambino» e non di aiutarlo per il suo armonioso sviluppo. È sconvolgente il dato che «ogni anno, nei ventisette Paesi più ricchi del mondo, quasi 3.500 bambini al di sotto dei 15 anni muoiono di botte e di altri maltrattamenti e che gli autori del delitto, nell’80% dei casi, siano i genitori». Da tener presente che numerose ricerche scientifiche dimostrano che «i bambini che vengono educati alla violenza e all’aggressività diventano adulti aggressivi sia con i loro figli che con i pari» e che «questi bambini diventano timorosi o aggressivi, hanno difficoltà nell’essere assertivi, tendono a pensare di non essere in grado di affrontare le difficoltà, come ad esempio studiare, si arrendono facilmente, al primo ostacolo rinunciano, non hanno la percezione adeguata dei propri sentimenti, tanto che a volte perdono quasi totalmente la capacità di amare e si chiudono sul piano emotivo e cognitivo; altre volte non riescono a dare significato a ciò che vivono e rischiano un arresto della crescita». Per una crescita adeguata alle presenti e future esigenze i bambini hanno bisogno di «essere amati, compresi, accettati, riconosciuti come persone di valore» e successivamente nel corso del loro sviluppo devono «essere autonomi, apprezzati, essere percepiti come membri attivi e vitali di un gruppo di cui si è parte». Mentre dalle considerazioni dell’Autrice e dalla descrizione di alcune vicende (“Michele, un terribile bugiardo”, “Il mio bambino vomita tutte le mattine e non vuole andare a scuola: la storia di Paolo”; “Andrea balbetta ed è geloso della sorella”, ecc.) l’Autrice fornisce indicazioni particolarmente utili per i genitori e per tutti coloro che operano nel settore educativo, molte e gravi sono le nostre riserve in merito al capitolo concernente “La dolorosa ricerca delle proprie origini per un bambino adottato: la storia di Giorgio”. Siamo pienamente d’accordo con l’Autrice sul fatto che i bambini adottati non debbano essere privati della loro storia personale precedente all’adozione. A questo proposito non è vero che  «la legge sull’adozione impedisce di conoscere il suo passato». Infatti, ai sensi del primo comma dell’articolo 28 della vigente legge 184/1983 il minore adottato deve essere «informato di tale sua situazione», con la precisazione che «i genitori adottivi vi provvedano nei modi e nei termini che essi ritengono più opportuni».

 

MARIO MARAZZITI, La città di tutti - Diario sociale di una grande città, Leonardo International, Milano, 2006, pag. 148, euro 15,00.

Mario Marazziti, portavoce della Comunità di Sant’Egidio, descrive la situazione della fascia più debole della popolazione di Roma, riproponendo i suoi editoriali pubblicati sul Corriere della Sera.

L’Autore riporta i dati riportati in una lettera di Natale «trovata sotto un tovagliolo», secondo cui sarebbero 50 mila gli anziani «che stanno peggio, senza parenti, con la pensione bassa». Essi «potrebbero essere aiutati a vivere di più e meglio a casa. Ma occorre che l’assistenza domiciliare cresca di molto, almeno cinque volte. Se almeno 20, 30 mila anziani fossero aiutati a casa propria, creando una rete quotidiana di sostegno, personalizzata a seconda dei bisogni, i risultati si vedrebbero: ospedali meno pieni, anziani meno abbandonati e pure un bel risparmio». Marazziti rileva che «non ci sono a Roma posti letto sufficienti per chi vive per strada» e segnala che vengono utilizzati dei sottopassaggi che «quando fuori c’è la neve, il vento ghiacciato, sono meglio di niente».

Inoltre «un migliaio di famiglie normali all’anno a Roma decide di rivolgersi a un centro di aiuto. Basta una malattia in più, un matrimonio che salta, il lavoro che finisce, un alto o un basso della vita e del comportamento. Poi è difficile, senza aiuto, uscirne». Sottolinea l’Autore che anche a Roma «è difficile vivere bene se si entra ed esce dall’ospedale perché non si fanno più ricoveri lunghi e c’è pure poco personale» e aggiunge «conosco una persona che viene dimessa ogni due-tre giorni per risparmiare e poi ripresa, visto che la malattia per cui viene ricoverata è sempre presente e mai curata».

Di fronte a queste e altre situazioni allarmanti e indegne per un Paese civile, Mario Marazziti e la Comunità di Sant’Egidio non rivendicano il riconoscimento di diritti esigibili diretti a garantire almeno condizioni anche minime (ma accettabili) di vita. L’Autore arriva addirittura ad affermare che «Roma senza elemosina rischia di essere una città senza memoria, senza pietas, senza compassione».

 

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