Prospettive assistenziali, n. 160, ottobre - dicembre 2007

 

 

Considerazioni sulla vita indipendente DELLE PERSONE CON HANDICAP GRAVE

Roberto Tarditi (*)

 

 

Premessa

Pensare oggi la mia esperienza storica mi mette di fronte ad un’ambivalenza e ad una contraddizione molto forti. Da una parte rivivo, nella mia memoria, ricordi di lotte e di conquiste ottenute faticosamente dalle organizzazioni di base unite nell’obiettivo di rivendicare i diritti civili di tutte le persone handicappate. Alcuni coordinamenti erano composti da persone con handicap fisico, che decisero collettivamente di lavorare assieme, di lottare assieme, perché avevano in comune il problema dell’emarginazione. Ovvero, le persone con handicap, da qualsiasi tipo di minorazione fossero affette, avevano in comune degli interessi generali ben identificabili: diritto alla vita, diritto allo studio, al lavoro, al divertimento, all’amore, ad  un’abitazione accessibile ed economica, al potersi muovere liberamente nella propria città, ecc.

Dall’altra parte rilevo attualmente, con amarezza, una discrepanza tra il senso di unità che aveva ispirato le rivendicazioni di quegli anni (’70-’80) e le nuove forme di disuguaglianza che stanno sempre più dividendo noi persone con handicap fisico, nel tentativo, che rimane l’obiettivo di molti di noi, di realizzare la vita indipendente. Si tratta di disuguaglianze originate soprattutto dalle diverse possibilità economiche. Esiste, infatti, un’enorme disparità economica tra una persona stipendiata che svolge un regolare lavoro retribuito ed una persona inabile totale al lavoro che fruisce di una pensione d’invalidità civile il cui corrispettivo in questo momento è di 253,00 euro mensili per tredici mensilità. Tale cifra, erogata dallo Stato, è – e non lo dice solo chi scrive – una somma offensiva e disumana.

 

Torino: primi percorsi di vita indipendente

Il 1981 è stato dichiarato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite l’anno internazionale dell’handicappato. Tutti noi siamo stati sotto le luci dei riflettori, oggetti di speculazioni intellettuali di vario genere da parte di un numero infinito di soggetti. È stato, questo, un anno che ha riportato al centro del dibattito politico e culturale alcune riflessioni, avviate nel 1970, volte all’innovazione del quadro normativo e dei diritti civili e sociali delle persone con handicap.

Si trattò di un’evoluzione lenta, complessa, frammentaria, a volte contraddittoria e che soltanto con adeguate forzature potevamo completamente considerare a favore delle persone con handicap.  Ad esempio la legge 118 del 1971 contiene, per la prima volta, principi ed enunciazioni di carattere generale che, finalmente, sono diretti a promuovere il reinserimento e l’integrazione. I bisogni delle persone con handicap, che prima erano individuati esclusivamente in termini sanitari e di beneficenza, ora invece sono tradotti in termini di affermazione di diritti (all’istruzione, alla formazione professionale, all’assistenza economica soggettiva, all’eliminazione delle barriere architettoniche, alla riabilitazione).

In quegli anni, nel nostro e in numerosi altri Paesi, alle rivendicazioni sociali e culturali si accompa­gnarono anche lotte importanti contro le istituzioni totali.

Grazie alla portata di questi eventi, che accadevano “fuori” e, i cui echi lontani giungevano frammentari a noi “istituzionalizzati” da radioline che vedevamo simili a telescopi su altri universi; grazie alla suggestione che questi eventi producevano su di noi, qualcosa filtrava, nonostante tutti i cancelli e le alte mura, di un cambiamento epocale.

“Dentro” si parlava, si progettava e si sognava di uscire davvero – in qualche modo – dal Cottolengo. Ragazzi e ragazze maggiorenni e minorenni passavano ore e giornate nel sogno, coltivando l’illusione diventata poi realtà, assaporando – ancor prima che si concretizzasse il progetto – il gusto della libertà e quindi della vita indipendente.

Alla fine dell’anno internazionale dell’handicappato, Piero e Roberto per primi e poi altri diciotto ragazzi e una decina di ragazze realizzarono il loro sogno: uscirono dal Cottolengo per tentare di condurre una nuova vita.

A proposito di temerari realizzatori di sogni, vorrei dedicare un particolare frammento di questa narrazione al mio amico Giuseppe Sorbello, chiamato Pippo, scomparso qualche anno fa.

Un giorno Pippo mi disse: «Tu che sei capace, Roby, scrivi di quel che ci è successo e porta alla luce la storia di tutte quelle persone a cui è stato impedito di “vivere”, di godere degli stessi diritti degli altri».

Pippo era minorenne a quel tempo, recluso al Cottolengo da piccolo nella “Famiglia invalidi”, come me. Dopo il mio “confino” (ma questa è un’altra storia, che sarebbe lungo raccontare), però, gli fu preclusa la possibilità di farmi visita. Fu infine espulso dall’istituto nel 1974 perché non abbastanza solerte nell’accettare il regolamento imposto dall’istituzione. È stato quindi il primo, per forza di cose, a realizzare il sogno progettato e pensato insieme ai suoi giovani amici, reclusi anche loro da piccoli.

Inizialmente ha vissuto insieme a sua madre e poi in una casa per proprio conto. La sua casa era una bellissima mansarda in via San Secondo, arredata con gusto: mobili e attrezzature a portata di carrozzina manuale. Il suo carattere ben determinato gli ha permesso di vivere una vita dignitosa. A quel tempo usufruiva solo della pensione d’invalidità civile e, siccome non aveva ancora ricevuto l’indennità di accompagnamento, sua madre contribuiva alle spese.

Piero e Roberto, sette anni dopo Pippo, iniziarono una vita autonoma – e quasi pionieri – aprirono la strada a diverse altre persone che, ognuna con il proprio percorso di vita, misero in pratica un nuovo progetto di vita “indipendente”.

Alcuni ragazzi e ragazze, ormai maggiorenni, hanno trovato lavoro e sono tornati in famiglia, altri ancora con il loro lavoro hanno richiesto l’alloggio al Comune e qualcuno si è anche sposato. Altri hanno scelto di vivere per qualche anno in comunità alloggio adibita per le persone con handicap fisico – come trampolino di lancio – dopodiché sono andati a vivere per conto loro in un alloggio assegnato dal Comune di Torino. C’è chi invece conduce una vita simile a quella mia e di Piero, che siamo seguiti dai servizi sociali, e chi invece vive della pensione d’invalidità civile e della pensione di reversibilità.

Ripensandoci ora, quel grande esodo ha dell’incredibile. Ragazze e ragazzi con il loro coraggio hanno scelto, rischiando il fallimento, di uscire da una struttura protetta, sfidando non solo l’opposi­zione dell’istituto, ma soprattutto le istituzioni pub­bliche.

La resistenza che queste opposero al cambiamento era frutto della solita cultura incapace di mettere in discussione sclerotizzati pregiudizi.

A mo’ d’esempio mi viene in mente un episodio: un giorno bloccammo l’entrata del Municipio come protesta per ottenere attenzione sui nostri diritti esigibili, in particolare quello alla mobilità.

Il Sindaco di allora uscì dal suo ufficio con una frase infelice ma in perfetta consonanza con quella cultura, ancora maggioritaria, che vedeva le persone con handicap come incapaci di essere attivi e partecipare in prima persona al cambiamento storico della società civile, che avrebbero dovuto piuttosto rimanere rinchiusi, per essere “protetti” e soprattutto per non disturbare con gli interrogativi che inevitabilmente avrebbero posto. Il Sindaco, quel giorno, ci disse: «Se volete miracoli girate l’angolo, andate alla Consolata o al Cottolengo».

Certo è difficile immaginare pragmaticamente la deistituzionalizzazione di coloro, e non sono pochi, che hanno trascorso una vita intera nelle istituzioni totali. Ma è nella capacità di rinunciare a facili scorciatoie fatalistiche e nell’impegnarsi invece nel trovare soluzioni perseguibili che si riconosce una civiltà degna di questo nome.

La deistituzionalizzazione deve di base prevedere la realizzazione, come ha fatto il Csa (Coordina­mento sanità e assistenza fra i movimenti di base) di Torino, di servizi sul territorio pensati per le specifiche esigenze di chi dovrà fruirne, ma che mai dovranno diventare semplici ricoveri d’umana rassegnazione.

Impone, inoltre, un completo ripensamento delle strategie assistenziali e residenziali: gli enti preposti dovrebbero realizzare strutture familiari e investire in modo nuovo le risorse economiche, secondo una nuova filosofia, quella di creare servizi quali l’aiuto domestico ed economico dove possibile, o altrimenti piccole comunità di persone in cui mantenere la dimensione umana dell’assistenza.

Ho già avuto modo di ribadire in altre occasioni che il Csa ha fortemente contribuito ad attuare il sogno di molte persone: quello di uscire finalmente dal Cottolengo.

Fu il primo ad avviare la deistituzionalizzazione delle persone con handicap.

Al fine di realizzare questo obiettivo propose ed ottenne dal Sindaco Diego Novelli e dall’Assessore alla casa del Comune di Torino Marcello Vindigni (1) l’assegnazione di alloggi popolari per la coabitazione di persone con handicap che intendevano uscire dagli istituti o non volevano essere ricoverati, stabilendo che i loro punteggi personali potevano essere sommati.

La proposta consente a molte persone con handicap anche grave di vivere insieme agli altri cittadini.

In questa battaglia, oltre che dal Csa, fummo affiancati da una cara amica: Vincenza Zagaria. La mia amica Enza venne a sapere dell’intenzione mia e di Piero di lasciare il Cottolengo, si prodigò per noi e con noi perché realizzassimo la nostra aspirazione. Eletta rappresentante del Csa nella Commis­sione comunale per l’assegnazione degli alloggi popolari ai “casi sociali”, fece di tutto perché la commissione, che non voleva assegnarci l’alloggio, considerandoci persone con handicap eccessivamente grave, cambiasse idea. Quando infine vi riuscì, consentì ad altre persone di ottenere una casa in cui poter vivere una vita vissuta in piena autonomia.

In quegli anni si sono formati tanti coordinamenti e comitati di base uniti però da un progetto comune. Oggi molti di quei gruppi si sono costituiti in associazioni od organizzazioni di categoria e purtroppo non sono sempre attente ad evitare particolarismi nelle rivendicazioni dei diritti. Con il risultato che oggi si sente sempre meno parlare di diritti e in certi casi si ritorna all’istituzionalizzazione e all’emarginazione.

 

Condizioni di vita diverse

Ora, parti di quel gruppo si sono costituiti in movimenti per la vita indipendente, con l’aspirazione di inventare comportamenti e modelli per costruire l’autonomia delle persone con forte disabilità fisica.

Ho avuto modo di leggere alcuni dei loro documenti programmatici sulla vita indipendente: mi ha stupito la tendenza ad elaborare enunciazioni di principi con altisonanti terminologie concettuali astratte.

Questo tipo di approccio dovrebbe, a mio avviso, lasciare il passo alla semplice considerazione della vita reale ed alle concrete esigenze di ogni persona, chiunque essa sia: avere una casa, un lavoro, uno stipendio o una pensione adeguata, nonché strutture che garantiscano la libertà di movimento.

Personalmente ritengo che l’autonomia sia un principio fondante della persona umana indipendentemente dalle proprie condizioni fisiche, sociali e politiche che non necessita di ulteriori peripezie linguistiche a livello normativo/descrittivo.

Volendo far riferimento alla praticità della vita sono costretto ad un’autocitazione, che porgo al lettore solo come indicazione generale di analisi e rifles­sione.

Sono una persona di 62 anni, dalla nascita affetta da tetraparesi spastica; la mia veneranda età ha fatto sì che le mie condizioni fisiche si siano aggravate e se ventisei anni fa potevo camminare con il bastone, ora cammino con la mia carrozzella elettrica per casa. Alcuni miei atti quotidiani sono compiuti in modo autosufficiente, con lentezza e fatica: come il vestirmi, lo spogliarmi e il restauro mattutino. Altri atti quotidiani invece richiedono, necessariamente, un intervento che può essere garantito solo dalla presenza di un assistente personale: come l’essere aiutato nell’igiene personale – doccia mattutina – l’essere accompagnato dal medico ed essere garantito in caso di necessità anche notturne. Dal 2003 ho potuto assumere un assistente personale per 20 ore settimanali – quanto necessario per far fronte alle mie esigenze – grazie ad un intervento di assistenza economica erogata dal Comune di Torino (assegno di cura di tipo A).

Rifletto sulla mia attuale indipendenza fisica e mi accorgo che giorno dopo giorno il mio corpo diventa dipendente, ha sempre più bisogno di qualcuno che lo accudisca nell’assistenza personale per lavarsi, vestirsi, andare in bagno, spostarsi. E dunque ogni operazione, anche la più semplice, richiede l’intervento di un’altra persona. Ma è ancor più umiliante dipendere economicamente dagli enti preposti, elemosinare contributi economici, poiché la pensione di invalidità civile, da fame, il cui  livello attuale (euro 253,00), è tale da non consentire nemmeno la sopravvivenza fisica.

Questa è la situazione mia e di Piero, che ventisei anni fa, abbiamo iniziato a vivere una vita indipendente, pur avendo una disabilità motoria grave. Noi che fruiamo di una pensione d’invalidità civile totale, per vivere una vita decente, dobbiamo anche utilizzare l’indennità d’accompagnamento per integrare la pensione.

Devo precisare che l’indennità d’accompagnamento (pari a euro 457,66) ha la funzione di rimborsare le spese agli accompagnatori che prestano l’assistenza come condizione indispensabile per realizzare la vita indipendente delle persone con disabilità grave. E affermo inoltre che l’indennità di accompagnamento è destinata ad ogni tipo di patologia motoria (invalidità 100%), ovvero alle persone – pensionate o stipendiate – impossibilitate di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o bisognose di un’assistenza continua non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita.

Io e Piero dobbiamo affrontare i costi relativi agli alimenti, al vestiario, alla locazione, alle varie spese della casa e alle esigenze assistenziali, mentre a mio esclusivo carico ricadono anche i contributi Inps per il mio assistente personale (252,20 euro).

Sono ben diverse invece le condizioni economiche delle persone, con forte disabilità fisica che, svolgendo un regolare lavoro retribuito, possono contare anche su uno stipendio.

È proprio da queste reali condizioni di vita che na­scono delle disuguaglianze cui accennavo all’inizio.

Rifletto infine sulla realtà delle persone con disabilità permanente e gravi limitazioni dell’autonomia personale che si trovano in una condizione di dipendenza e di subalternità (familiare, fisica o psicologica). Tale condizione riduce duramente le possibilità di autodeterminazione e le scelte autonome: affermare la propria volontà nell’istruzione, nel lavoro, nell’affettività; come organizzare l’attività e il riposo; quali amici o amiche frequentare; come e dove divertirsi; come tutelare il proprio spazio di vita.

Un rialzo dell’importo mensile della pensione d’inabilità totale al lavoro e dell’indennità d’accompagnamento sarebbe indispensabile non solo a garantire alle persone disabili una vita “indipendente” al di fuori della famiglia, ma anche una possibilità – per chi lo desideri – di vivere diversamente, in modo più autonomo, all’interno della famiglia.

A questo scopo diventa fondamentale, affinché i figli disabili continuino a vivere nel proprio ambiente familiare senza rinunciare alla propria indipendenza, realizzare un servizio di assistenza personale gestito direttamente dagli utenti.

L’assistenza personale autogestita consente, non solo al disabile, ma anche a chi gli sta vicino, di riappropriarsi completamente della propria vita e di riconquistare la libertà di costruire dei rapporti interpersonali più autentici, liberi dalla costrizione senza deroghe del bisogno.

Il mio appello finale – che è anche e soprattutto una speranza – è rivolto però alle associazioni, che recuperino l’unità che ne contraddistingueva le lotte negli anni Settanta e Ottanta. Il nuovo, vitale, orizzonte comune dovrà essere, a mio giudizio, proprio il concetto di vita indipendente, inteso però nella grandissima varietà di soluzioni possibili che la vita delle persone nel concreto suggerisce, al di là e oltre le categorie astratte.

 

 

(*) Presidente dell’Associazione “Mai più istituti di assistenza”.

(1) Cfr. “Handicap: casa, barriere architettoniche e trasporti”, relazione di Marcello Vindigni, Assessore alla casa, trasporti e viabilità del Comune di Torino tenuta al convegno Florentia Auxilia, Firenze, 10-12 giugno 1983; Prospettive assistenziali, n. 64, 1983.

 

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