Prospettive assistenziali, n. 160, ottobre - dicembre 2007

 

 

ALTRE leggi regionali (BASILICATA, FRIULI VENEZIA GIULIA, LIGURIA E PUGLIA) prive di effettivi diritti per le fasce più deboli

Giuseppe D’Angelo

 

 

Un po’ alla volta le Regioni italiane proseguono nella loro attività di recepimento della legge di riforma dell’assistenza e dei servizi sociali, la 328/2000, la cosiddetta “legge Turco” (1).

Ad oggi hanno legiferato: l’Emilia Romagna (con la legge regionale 2/2003, analizzata nel numero 145, 2004 di Prospettive assistenziali); la Calabria (legge regionale 23/2003); il Piemonte (legge regionale 1/2004, commentata nel numero 147, 2004 della rivista di cui sopra); la Toscana (legge regionale 41/2005); il Friuli Venezia Giulia (legge regionale 6/2006); la Liguria (legge regionale 12/2006); la Puglia (leggi regionali 17/2003 e 19/2006); la Basilicata (legge regionale 4/2007).

Le ultime norme regionali approvate sono dunque quelle delle Regioni Basilicata, Friuli Venezia Giulia (2), Liguria (3), Puglia (4) e Basilicata (5), oggetto del presente articolo.

 

Una doverosa premessa

Occorre premettere che le norme in questione sono abbastanza corpose, hanno tutte in genere un articolato assai maggiore della legge capostipite, la 328/2000, che aveva previsto trenta articoli (6).

Ma in tali e tanti articoli, accresciuti di numero ma non di vera sostanza, purtroppo, troviamo tutto fuorché diritti esigibili. Poche le novità positive a favore degli utenti che con dette norme, almeno in teoria, si afferma di tutelare.

Appare utile però, prima di commentare le suddette leggi regionali, evidenziare quale a nostro avviso dovrebbe essere un quadro di riferimento appropriato al fine di legiferare opportunamente in materia di assistenza e servizi sociali.

 

Presupposti fondamentali

Il presupposto fondamentale per un quadro di riferimento corretto dovrebbe essere  quello di garantire effettivi diritti esigibili per quella fascia della popolazione (esigua, per fortuna) con limitata o nulla autonomia, tenendo sempre presente che per i soggetti non autosufficienti a causa di malattie in atto o loro esiti invalidanti deve provvedere il Servizio sanitario nazionale.

Per favorire la garanzia del diritto esigibile alle prestazioni e servizi, appare corretto restringere il perimetro, individuando la fascia della popolazione più debole e bisognosa.

Altresì occorre limitare gli interventi solo a quelli prettamente assistenziali, senza farsi carico cioè di poco giustificate “ingerenze” in altri settori, anche per il fatto che detti sconfinamenti sono quasi sempre negativi per gli utenti. Si pensi, ad esempio alla creazione di abitazioni destinate esclusivamente a persone assistite, veri e propri ghetti; alle scuole speciali; ai laboratori protetti per i soggetti con handicap, alternativi all’inserimento lavorativo presso normali aziende pubbliche e private.

Questa impostazione è peraltro in sintonia con la nostra Costituzione che all’articolo 38, primo comma, prevede che «ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale».

Ciò premesso, ricordiamo che purtroppo già la legge 328/2000 non ha disegnato questo quadro di riferimento. Anziché stabilire diritti esigibili, ha previsto solo una priorità di accesso al sistema integrato di interventi e servizi sociali per la fascia più debole della popolazione, ma senza garantire effettivamente nulla.

Essa ha, inoltre, ampliato la sfera prettamente assistenziale di competenza facendo proprie tutte le attività di cui all’articolo 128 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (7). In questo modo ha previsto possibili (e assai discutibili) integrazioni degli interventi assistenziali con altri settori (sanitario in primis, ma anche istruzione, lavoro, ecc.). Allo stesso tempo ha altresì spalancato alla cittadinanza in generale l’accesso agli interventi e ai servizi sociali introducendo il cosiddetto carattere di universalità. Ma senza garantire nulla a nessuno.

Le leggi regionali del Friuli-Venezia-Giulia, Liguria, Puglia e Basilicata, oggetto del presente articolo, hanno tutte, purtroppo, ripreso l’impostazione della 328/2000.

 

Eclatanti principi

Eclatanti sono i principi e le finalità delle suddette leggi. Scorrendo solo i primi articoli, infatti, siamo indotti a credere di avere sotto gli occhi la soluzione dei problemi concernenti la povertà, l’emarginazione, l’infermità, la disabilità, ecc.

Per esempio: «la Regione Friuli Venezia Giulia (…) rende effettivi i diritti di cittadinanza sociale realizzando un sistema organico di interventi e servizi» (art. 1, comma 1, legge regionale 6/2006).

Altresì «la Regione e gli enti locali, in attuazione degli articoli 3 e 38 della Costituzione, garantiscono l’insieme dei diritti e delle opportunità volte allo sviluppo e al benessere dei singoli e delle comunità e assicurano il sostegno ai progetti di vita delle persone e delle famiglie» (articolo 2, comma 1).

Per quanto riguarda la legge pugliese 19/2006: «La Regione Puglia programma, coordina e assicura sul territorio un sistema integrato d’interventi e servizi sociali per le persone, le famiglie e i nuclei di persone, al fine di garantire la qualità della vita, le pari opportunità, la non discriminazione e i diritti di cittadinanza, operando per prevenire, eliminare o ridurre gli ostacoli alla piena inclusione sociale derivante da condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociale e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione» (articolo 1, comma 1).

Di analogo tenore anche la legge ligure: «La Regione Liguria assume i principi fissati nella Costituzione, quali valori di riferimento per la promozione del sistema integrato sociale e sociosanitario e per l’esigibilità dei diritti civili e sociali da parte delle persone, delle famiglie e delle formazioni sociali» (articolo 1, comma 1).

Anche la legge regionale della Basilicata conferma la suddetta inclinazione e riporta, tra le altre cose, quanto segue: «La presente legge delinea e regola la rete regionale integrata dei servizi di cittadinanza sociale, al fine di: a. affermare l’eguale dignità sociale delle persone e garantire l’effettiva tutela dei diritti di cittadinanza, favorendo un accesso incondizionato alle opportunità di partecipazione attiva alla vita sociale, di affermazione dell’autonomia personale e di autorealizzazione dei progetti di vita di ciascuno».

Purtroppo tali dichiarazioni non trovano affatto riscontro nello sviluppo del relativo articolato normativo.

Andando al nocciolo della questione, ovvero alle eventuali garanzie per poter usufruire di servizi e prestazioni, nelle leggi regionali in argomento non troviamo nulla di concreto.

Per esempio, la legge del Friuli Venezia Giulia rinvia al Piano regionale degli interventi e servizi sociali «i livelli essenziali delle prestazioni da garantire sul territorio regionale” comprese “le condizioni di esigibilità» (articolo 7).

Pertanto appaiono di fatto compromessi i principi espressi negli articoli iniziali. Rimandando ad altro provvedimento – e per giunta ad un Piano regionale che in genere nasce con carattere programmatorio – la norma in oggetto perde di vero significato. Pur definendo nel successivo articolato le competenze dei vari enti (Regione, Province, Comuni, ecc.), la legge regionale del Friuli Venezia Giulia lascia piena discrezionalità in merito agli interventi.

Per quanto riguarda la legge regionale pugliese, essa definisce che le competenze dei Comuni «titolari di tutte le funzioni amministrative concernenti gli interventi sociali svolti a livello locale» previste dall’articolo 16 «spettano, nell’ambito delle risorse disponibili in base al Piano regionale e di zona».

Siamo alla solita frase di rito che, con la sottintesa – ma assolutamente falsa (8) – premessa che le risorse – per le fasce più deboli – sono assai limitate, lega gli interventi non sulla base del bisogno effettivo ma alla loro “disponibilità”.

In assoluta assonanza la legge regionale della Basilicata che, dopo una serie di articolati in cui viene precisato che «la rete regionale integrata dei servizi di cittadinanza sociale assicura l’erogazione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali» (articolo 3, comma 1) e che la Regione «garantisce la fruibilità dei livelli essenziali delle prestazioni sociali» (articolo 10, comma 1 punto g), purtroppo stabilisce che «i piani intercomunali dei servizi sociali e socio-sanitari [si tratta in sostanza della fusione dei Piani sociali di zona uniti al programma delle attività territoriali delle Aziende sanitarie locali, n.d.r.] dimensionano i loro interventi all’entità dei finanziamenti rivenienti dal Fondo di cui al precedente comma 2, nonché delle risorse a carico dei bilanci comunali e delle entrate connesse all’applicazione di rette o tariffe a carico degli utenti» (articolo 27, comma 3).

La legge regionale ligure così si esprime (articolo 55): «Alla realizzazione e alla gestione della rete dei servizi sociali concorrono i finanziamenti dei Comuni, della Regione, dello Stato e le compartecipazioni dei cittadini». E inoltre: «Sono a carico dei Comuni, che vi possono provvedere anche attraverso le forme associative previste dalla presente legge, le spese per l’attivazione delle prestazioni sociali derivanti dalla legge 328/2000 e dalla presente legge, relative ai livelli essenziali di assistenza sociale». In ogni caso non è previsto alcun obbligo da parte dei Comuni. Anzi l’articolo 42 prevede che «le prestazioni di carattere economico» sono erogate «secondo le compatibilità di bilancio».

 

Universalità delle prestazioni

L’assenza di garanzie per l’effettiva fruibilità dei servizi da parte degli utenti deriva dunque, prima di tutto, dal non voler prevedere finanziamenti adeguati. E cioè finanziamenti definiti in funzione delle necessità dei cittadini più bisognosi e non, all’opposto, interventi a misura delle risorse messe a disposizione. È anche chiaro che i finanziamenti non sono e non saranno mai sufficienti se si amplia il raggio di intervento, cioè estendendo il perimetro a servizi che assistenziali non lo sono e aprendo la porta ad utenti che non dovrebbero rientrarvi in quanto non presentano situazioni di effettivo bisogno.

A questo proposito le leggi regionali in oggetto seguono, come già anticipato, l’impostazione della legge 328/2000 e fanno proprio il carattere di universalità previsto con l’articolo 2 comma 2 della stessa.

Tale approccio appare criticabile in un’ottica di servizi di tipo assistenziale, non solo perché non concentra l’attenzione sulle fasce più deboli della popolazione (tra questi ricordiamo i minori in situazione di abbandono, i soggetti con handicap non avviabili ad attività lavorative, le famiglie in situazione di povertà), ma perché ampliando l’utenza si sconfina in settori che assistenziali non sono (per esempio istruzione, lavoro, ecc.).

 

Dimenticanze

Tutte le leggi regionali in questione “dimenticano” (al pari peraltro della legge 328/2000) che i Comuni, ai sensi degli articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) sono obbligati ad assistere (anche se purtroppo solamente mediante ricovero in istituto) i soggetti inabili a qualsiasi lavoro proficuo e quindi i minori, i soggetti con handicap e gli anziani in difficoltà che non hanno i mezzi di sussistenza sufficienti per vivere.

Si tratta di disposizioni normative importantissime – anche se datate – ma ancora del tutto in vigore, come ci ha confermato il Servizio per i testi normativi della Camera dei Deputati con la comunicazione del 6 ottobre 2003 (9).

Un’altra dimenticanza riguarda l’ancora vigente assurda discriminazione fra l’assistenza ai bambini nati nel o fuori dal matrimonio, malauguratamente conservata dalla legge 328/2000 (si veda il 5° comma dell’articolo 8).

Attualmente, purtroppo, l’assistenza ai nati fuori dal matrimonio, ai ciechi e ai sordi è attribuita alle Province anziché ai Comuni. Le Regioni potevano e possono prevedere il trasferimento di competenze ai Comuni, ma nessuna disposizione in merito è presente nelle leggi delle Regioni Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Liguria e Puglia.

Del tutto ignorata anche la questione delle gestanti e madri nubili e coniugate in difficoltà, del loro sostegno volto alla massima responsabilizzazione possibile nei riguardi del riconoscimento o non riconoscimento dei loro nati e delle importanti problematiche concernenti il segreto del parto.

 

Non competenze dell’assistenza

L’articolo 32 della legge regionale ligure, nelle politiche a favore dei minori prevede quanto segue: «2. Le Asl, in collaborazione con i Comuni e con le Istituzioni scolastiche, assicurano, attraverso i consultori pubblici e quelli privati accreditati, programmi di sostegno, informazione e formazione per i giovani sui temi della sessualità e sulla procreazione responsabile, sul ruolo della famiglia e sulle responsabilità genitoriali, con particolare riferimento ai diritti della donna in stato di gravidanza, nonché sui servizi sociali e sociosanitari a favore dei minori. (…) 4. La Regione promuove, altresì, l’organizzazione di centri e spazi di aggregazione educativo-ricreativa per minori in età scolare, adolescenti e giovani, anche per contrastare il fenomeno della dispersione scolastica e le forme di disagio e di emarginazione giovanile».

Secondo un corretto quadro di riferimento (precedentemente accennato in premessa), gli interventi sopra previsti dovrebbero porsi in capo all’Assessorato all’istruzione o alle attività del tempo libero, ma non dell’assistenza.

Trasferendoci alla legge regionale pugliese, essa prevede tra le strutture per minori (articolo 41) gli «asili nido». Tra i servizi socioassistenziali (articolo 46) prevede altresì «le ludoteche; il centro ludico per la prima infanzia; (…) i servizi socio-educativi innovativi e sperimentali per la prima infanzia; (…) u) i servizi educativi per il tempo libero».

Si tratta di servizi che non dovrebbero rientrare nell’ambito assistenziale in quanto facenti capo al settore dell’istruzione. Ricordiamo che tale orientamento è stato espresso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 370 del 17 dicembre 2003 (10).

La citata sentenza peraltro è importante in quanto fornisce una interpretazione di fondo della legge quadro sull’assistenza n. 328/2000, laddove, erroneamente comprende fra i servizi sociali, oltre alle attività di assistenza sociale, anche quelle relative all’istruzione, alla casa, ai trasporti, alla cultura, al tempo libero e agli altri settori di attività (con la sola esclusione delle funzioni relative alla previdenza, alla sanità e all’amministrazione della giustizia).

Assai pericoloso è poi l’articolo 47, comma 4, della legge pugliese, ove è stabilito che «il servizio di assistenza e di educativa domiciliare consiste: (…)

b) in prestazioni di tipo socio-assistenziale, anche domiciliari, per malati affetti da disturbi mentali, da malattie croniche invalidanti e/o progressivo-terminali». Anche in questo caso si tratta di compiti spettanti non all’assistenza ma, in questo caso, al Servizio sanitario nazionale.

Sulla stessa linea la legge regionale del Friuli Venezia Giulia che prevede sostegni anche finanziari al settore socio-educativo (cfr. l’articolo 40).

Fa invece un caposaldo delle politiche sociali integrate, peraltro già a partire dal proprio titolo, la legge regionale della Basilicata. L’articolo 1, comma 3 è così redatto: «La rete regionale integrata dei servizi di cittadinanza sociale organizza sul territorio regionale gli interventi aventi contenuto sociale, socio-sanitario, socio-assistenziale, socio-educativo e socio-lavorativo, realizzati dagli enti locali e dalle Aziende sanitarie locali, anche in collaborazione con altre istituzioni».

Tale impostazione è a nostro avviso assai pericolosa. Se osserviamo, nell’ottica degli utenti, quanto di negativo è accaduto nel corso degli anni passati – ed ancora continua ad accadere – a seguito della nefasta iniziativa dell’integrazione socio-sanitaria, possiamo renderci conto della sorte che attende le fasce deboli nel caso in cui venisse esteso questo orientamento.

Il rischio, evidentemente, è quello della riaffermazione delle problematiche emerse già con l’avvenuta integrazione tra il settore sanitario e quello assistenziale. In particolare:

- l’allontanamento dei soggetti deboli dai naturali settori di competenza rivolti a tutta la popolazione. Per esempio, il settore sanitario in materia di malati cronici non autosufficienti ha deciso – in genere e oramai da tempo – di non riconoscere la stessa pertinenza esercitata invece in occasione di pazienti acuti; dunque una discriminazione in violazione anche all’articolo 3 della Costituzione che al primo comma afferma: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e so­ciali»;

- lo scadimento del livello generale dei diritti e delle prestazioni. Nell’esempio appena sopra citato, i livelli di cura sono manifestamente superiori in una struttura sanitaria anziché in una Rsa/cronicario;

- aggiuntive attribuzioni di oneri economici all’utente (si veda, a proposito, il concorso da parte dell’utente al costo delle prestazioni cosiddette di “lungo-assistenza”), ecc.

Sul rischio di veder riprodotto l’approccio “integrato” negli altri settori, facciamo l’esempio della scuola che oggi prevede – giustamente – che i soggetti con handicap debbano accedere nelle normali classi rivolte a tutti; domani non vorremmo che venissero ricostituite, con la scusa dell’integrazione “socio-scolastica”, le classi speciali per i soggetti con handicap o altre difficoltà.

 

Fondi per la non autosufficienza

Negli ultimi anni è subentrata l’idea che per rispondere adeguatamente alle esigenze di varie fasce deboli, sia indispensabile puntare sulla costituzione di un fondo specifico per la cosiddetta non autosufficienza.

La Liguria e il Friuli Venezia Giulia vi prevedono specifiche norme, rispettivamente gli articoli 47 (11) e 41 (12), mentre la Puglia indirettamente vara un capitolo di spesa all’articolo 69 comma 3b.

La Basilicata prevede un preciso articolo (il quarto, titolato “Interventi organici di assistenza per la non autosufficienza”), anche se al comma 4 precisa che «le azioni e prestazioni finanziabili con le risorse del Fondo speciale di cui al precedente comma 3 non sono sostitutive di quelle sanitarie ed assistenziali attualmente garantite e sono dirette a sostenere la personalizzazione e la domiciliarità degli interventi».

Noi riteniamo che non ci sia assolutamente bisogno di prevedere nulla di nuovo. Anzi, la costituzione di un fondo per la non autosufficienza appare addirittura pericolosa.

Ricordiamo innanzitutto che, da un lato, esiste già il Fondo nazionale per le politiche sociali, sancito dall’articolo 20 della legge 328/2000; pertanto, qualora l’intento fosse solo quello di aumentare gli stanziamenti del settore socio-assistenziale si potrebbe (e si dovrebbe) elevare gli stanziamenti a favore di quest’ultimo.

Tralasciando il fatto (assolutamente negativo) che fra i non autosufficienti possono esservi soggetti aventi esigenze assai diverse tra loro (persone in coma, malati di Alzheimer, individui con handicap intellettivo grave e gravissimo, malati psichiatrici), appare assai pericoloso un fondo per la non autosufficienza soprattutto perché appare chiara l’intenzione reale di separare la competenza istituzionale e organizzativa delle cure sanitarie: il Servizio sanitario nazionale interverrebbe solamente nei confronti dei pazienti colpiti da patologie acute, mentre se si tratta di soggetti non autosufficienti gli interventi sanitari verrebbero condizionati dalla disponibilità delle risorse assegnate al fondo per la non autosufficienza (13).

Questa è una impostazione assai preoccupante che, lo ripetiamo, scardina fondamentali diritti in campo sanitario (14).

Oggi c’è assoluto bisogno, invece, che le istituzioni diano attuazione piena e corretta delle leggi vigenti e, altresì, che le varie organizzazioni sociali difendano per davvero i diritti delle fasce più deboli! È risaputo che il diritto esigibile alle cure sanitarie e socio-sanitarie vige anche per le persone malate e non autosufficienti (demenze senili, morbo di Alzheimer, gravi esiti di ictus, infarti, ecc.). Si tratta di rispettarlo e difenderlo con forza.

Il problema centrale è, dunque, il rispetto dei diritti. Occorre quindi prendere posizione contro quegli ospedali che dimettono precocemente, spesso selvaggiamente, gli anziani malati cronici e non autosufficienti, senza alcuna garanzia di continuità terapeutica (a domicilio o in adeguata struttura).

Questo scarico comporta, oltre all’aggravamento delle patologie in atto, l’attesa anche fino a due-tre anni per l’inserimento in strutture di lungodegenza; pertanto un accollo di oneri insostenibili da parte dei congiunti costretti a ricorrere a strutture a pagamento con spese che vanno fino a 100 euro al giorno ovvero un esborso di 50-70mila euro in due anni!

Tutto ciò avviene nonostante oggi, ripetiamo, sia pienamente vigente il diritto alle cure sanitarie senza limiti di durata e gratuite (eccetto ticket) nella fase acuta della malattia; unitamente al diritto alle cure socio-sanitarie senza limiti di durata nella fase di stabilizzazione (cronicità) delle affezioni (lungodegenza), con pagamento – se ricoverato in strutture tipo Rsa, Residenza sanitaria assistenziale – della cosiddetta quota alberghiera da parte del solo utente (per gli anziani ultrasessantacinquenni non autosufficienti e per i soggetti con handicap in situazione di gravità).

 

Le funzioni di vigilanza assegnate ai Comuni

Tutte le leggi regionali in oggetto prevedono di porre l’attività di vigilanza delle strutture residenziali e semiresidenziali in capo all’ente comunale (cfr. per la legge della Regione Puglia gli articoli 16, 49 e 61; per la legge del Friuli Venezia Giulia gli articoli 17 e 32; per la legge regionale ligure l’articolo 5; per la legge della Basilicata l’articolo 21 in particolare).

Si tratta di un evidente conflitto di interessi in quanto lo stesso ente incaricato a vigilare svolge anche le funzioni amministrative, organizzative e gestionali dei servizi. Sarebbe stato più indicato porre in capo alle Province l’attività di controllo e vigilanza, dopo aver trasferito agli enti locali comunali tutte le funzioni assistenziali ancora svolte dalle stesse Province.

Altresì sarebbe auspicabile la presenza di rappresentanti delle associazioni dell’utenza nelle richieste commissioni provinciali.

 

Le Province

Proprio al riguardo delle residue funzioni socio-assistenziali che continuano ad essere in capo alle Province, ricordiamo le seguenti:

a) l’assistenza ai minori figli di ignoti e ai fanciulli nati fuori del matrimonio riconosciuti dalla sola madre, nonché le prestazioni di sostegno alle gestanti e madri (legge 6 dicembre 1928, n. 2838, tuttora vigente);

b) le funzioni assistenziali già svolte dall’Omni, Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia;

c) le prestazioni di sostegno ai «ciechi e sordi poveri rieducabili» (così definiti dal regio decreto 3 marzo 1934, n. 383).

Come abbiamo già osservato, le norme regionali in oggetto non fanno alcun cenno del trasferimento a livello comunale. Continua così una chiara forma di discriminazione in quanto gli enti tenuti ad intervenire sono diversi (Province ed Enti gestori) in funzione non del tipo di prestazione erogata ma solamente delle diverse condizioni sociali dell’utente (15).

Ricordiamo che la Regione Piemonte ha invece agito correttamente con la legge n. 1/2004 “Norme per la realizzazione del sistema regionale integrato di interventi e servizi sociali e riordino della legislazione di riferimento” trasferendo ai Comuni tutte le funzioni assistenziali delle Province e affidando alla Giunta regionale (articolo 58) il compito di adottare «linee guida per gli enti gestori istituzionali per l’esercizio delle competenze relative agli interventi socio-assistenziali nei confronti delle gestanti e madri in condizione di disagio individuale, familiare e sociale, compresi quelli volti a garantire il segreto del parto alle donne che non intendono riconoscere i figli, e gli interventi a favore dei neonati nei primi sessanta giorni di vita».

Ricordiamo che il disegno di legge predisposto dalla Regione Piemonte per il sostegno alle gestanti e madri in condizioni di disagio socio-economico è stato successivamente approvato all’unanimità dal Consiglio regionale il 26 aprile 2006 (16).

 

Standard dei presidi

Nulla è stabilito in maniera migliorativa rispetto agli standard nazionali relativamente ai presidi residenziali assistenziali. Ricordiamo che il decreto ministeriale del 21 maggio 2001, n. 308, prevede, per esempio per i disabili, strutture con capienza sino a 20 posti letto e, soprattutto, non ne vieta gli accorpamenti.

La legge pugliese agli articoli 41 e 42 definisce le tipologie di presidi rispettivamente per minori e disabili.

Per i minori sono previste le seguenti tipologie: a) comunità familiare; b) comunità educativa; c) comunità di pronta accoglienza; d) comunità alloggio o gruppo appartamento per adolescenti; e) centro socio-educativo diurno e di aggregazione per pre-adolescenti e adolescenti; f) centro aperto polivalente; g) asili nido.

Al di là dell’assurda presenza degli asili nido tra i presidi assistenziali, per quanto riguarda la previsione di posti letto la norma si limita a riportare la dizione «piccolo gruppo di minori» per la comunità familiare e quella di pronta accoglienza, e di «gruppo di minori» per la comunità educativa e alloggio. Nulla è precisato in merito al divieto di accorpare detti presidi. Pertanto i vecchi e superati istituti potranno continuare ad esistere purché si organizzino con una suddivisione interna in gruppi.

Analoghe considerazioni possono essere in sostanza fatte per le tipologie di presidi previste per i soggetti con handicap, anche se in questo caso non è prevista nemmeno la dizione “piccolo gruppo”.

La legge regionale ligure, invece, all’articolo 44 prevede la classificazione delle strutture residenziali e semiresidenziali a carattere sociale e sociosanitario. Nulla dice in merito alla capienza, rimandando «la classificazione per le diverse funzioni, i requisiti strutturali, organizzativi e di personale delle strutture» ad «apposito regolamento approvato dalla Giunta regionale ai sensi dell’articolo 50 dello Statuto» (articolo 44 comma 4).

Anche la legge regionale del Friuli Venezia Giulia non stabilisce nulla di specifico in merito alla capienza delle strutture residenziali. Solo per i minori, all’articolo 44 (Politiche per l’infanzia e l’adolescenza) riporta al comma 2 lettera f) quanto segue: «la Regione (…) realizza il superamento definitivo degli istituti per i minori e la loro riconversione in strutture residenziali con caratteristiche strutturali e organizzative di tipo familiare». All’articolo 45 invece (Politiche per le persone anziane) è previsto al comma 3 lettera  c) che la Regione «sostiene la realizzazione di alloggi autonomi e unità abitative di dimensioni minime, collegati con un servizio di assistenza continua e garantita di carattere sanitario, domestico e sociale, per singoli o più anziani, rispondenti alle esigenze di inclusione e di autosufficienza». Con questa definizione possono essere create strutture anche di notevoli dimensioni: veri e propri ghetti per anziani.

La legge regionale della Basilicata rinvia la definizione degli standards quantitativi e qualitativi dei servizi e degli interventi al “Piano regionale della salute e dei servizi alla persona”.

 

Conclusioni

Nonostante la Puglia, la Liguria, il Friuli Venezia Giulia e la Basilicata abbiano varato  corposi testi normativi le disposizioni appaiono in realtà prive di positivi e immediati riscontri a favore della fascia più debole della popolazione. In sostanza troviamo dichiarazioni altisonanti in contraddizione con l’assenza di diritti esigibili.

Si conferma pertanto una tendenza che, dalla norma capostipite, la legge 328/2000, ha visto una serie di filiazioni regionali che, ad esclusione di quella del Piemonte, sono state approvate con lo stesso stampo e pertanto inefficaci per gli utenti, nonché dannose per la loro impostazione universalistica e volta all’integrazione dei servizi (17).

In buona sostanza le leggi regionali in oggetto rappresentano un’altra testimonianza delle carenze della legge 328/2000 che non ha previsto nessuna norma a tutela effettiva dei diritti delle fasce più indifese, a dispetto non solo di un nostro personale convincimento ma – ricordiamo – dell’articolo 38, primo comma, della Costituzione.

Mauro Perino ci ricorda che «elemento di grande novità è rappresentato dal nuovo testo dell’art. 117 della Costituzione che parifica la potestà legislativa statale e quella regionale – non più sovraordinate l’una all’altra ma distinte tra loro solamente per i diversi ambiti di competenza – assoggettando entrambi i soggetti al rispetto della Costituzione, dell’ordinamento comunitario e degli obblighi inter­nazionali (…). In buona sostanza sono le Regioni e i legislatori regionali a essere titolari della com­petenza generale prima assegnata alla legge statale» (18).

Pertanto, le leggi regionali in oggetto avrebbero potuto scostarsi dall’impianto della legge 328/2000 nel rispetto del dettato costituzionale di cui all’articolo 38 citato, garantendo il diritto soggettivo e fornendo i mezzi necessari per rendere esigibile e adeguata l’assistenza per i soggetti impossibilitati a vivere con i propri mezzi.

Ricorda altresì Livio Pepino che «in attesa che lo Stato – avvalendosi della competenza legislativa esclusiva – determini livelli essenziali delle prestazioni, da garantire su tutto il territorio nazionale, più definiti e cogenti di quelli genericamente elencati all’articolo 22 della legge 328/2000, è auspicabile che il legislatore regionale svolga i propri compiti nel pieno rispetto del dettato dell’articolo 38 della Costituzione. Alle Regioni si richiede in sostanza di assicurare – nel proprio ambito territoriale – il diritto soggettivo “al mantenimento e all’assistenza sociale” di “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere” ricordando che “un diritto subordinato alle risorse è semplicemente un non diritto” ed inoltre che “il diritto soggettivo si differenzia dal semplice interesse o dalla semplice aspettativa per il fatto di essere esigibile, cioè per l’esistenza nell’ordinamento di mezzi che ne garantiscano l’attuazione”» (19).

Rispetto al desolante panorama normativo citato, ricordiamo nuovamente che una positiva eccezione è costituita dalla legge regionale piemontese n. 1 del 2004 (20) che, pur presentando molteplici carenze, contiene alcune norme cogenti a favore delle fasce più deboli, unitamente ad obblighi precisi in capo agli enti gestori dei servizi assistenziali e socio-sanitari (21).

Se associassimo le leggi regionali in oggetto al colore politico delle maggioranze di cui sono espressione, se dovessimo considerare cioè le ideologie che tradizionalmente caratterizzano gli orientamenti partitici espressione delle leggi in parola, ci dovremmo aspettare per esempio dalla Regione Puglia con il suo presidente, on. Vendola, appartenente ad un partito schierato a sinistra, una legge con un preciso impianto volto a tutelare effettivamente le fasce più disagiate della popolazione.

Per contro, se guardassimo invece alla composizione della maggioranza politica che nel 2004 varò la legge regionale del Piemonte, una Giunta di centro-destra, dovremmo aspettarci – secondo le premesse citate – una norma quantomeno poco attenta ad istituire interventi garantiti per le fasce più deboli. E invece la realtà appare smentire suddette supposizioni e ci mostra che è avvenuto in sostanza l’esatto contrario.

Regioni governate da maggioranze politiche di centro-sinistra, se non di sinistra, hanno legiferato in materia di assistenza recependo la legge 328/2000 senza riconoscere reali diritti. E per certi versi hanno anche prodotto una stesura normativa poco chiara, che promette ma non mantiene, truffaldina insomma, in quanto da una prima lettura si possono trarre in inganno i cittadini meno attenti in fatto di materie giuridiche, enfatizzando garanzie di diritti – solo in via di principio – ma nella sostanza inesistenti.

Se la lettura della realtà attuale dunque ci mostra che non appare di fatto scontato che un certo colore politico sia più attento rispetto ad un altro alle fasce disagiate della popolazione, l’esperienza ci insegna invece che laddove vi sono gruppi di cittadini che operano a difesa di legittimi interessi e diritti si riesce in genere a incidere anche in materia legislativa. Pertanto appare fondamentale l’esistenza di organizzazioni di pressione che persistano nella causa di tutela dei diritti delle fasce più deboli, utilizzando in particolare il metodo del “volontariato dei diritti” (descritto nel volume di Giuseppe D’Angelo, Anna Maria Gallo e Francesco Santanera, Il volontariato dei diritti - Quarant’anni di esperienze nei settori della sanità e dell’assistenza, Utet Libreria). Laddove operano tali organizzazioni (a Torino costituiscono un esempio le associazioni aderenti al Csa) si riesce ad ottenere – sia pure con enormi fatiche e con tempi lunghi – un riconoscimento vero dei diritti a favore delle fasce più deboli, indipendentemente dall’orientamento politico di chi governa (22).

 

 

(1) Legge 8 novembre 2000, n. 328  “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 265 del 13 novembre 2000, supplemento ordinario (cfr. Prospettive assistenziali, n. 130, 2000).

(2) Friuli Venezia Giulia. Legge regionale 31 marzo 2006, n. 6, Bollettino ufficiale regionale n. 14  del 5 aprile 2006.

(3) Regione Liguria. Legge regionale 24 maggio 2006 n. 12 “Promozione del sistema integrato di servizi sociali e sociosanitari”, Bollettino ufficiale regionale n. 8 del 31 maggio 2006.

 (4) Regione Puglia. Legge regionale 10 luglio 2006, n. 19 “Disciplina del sistema integrato dei servizi sociali per la dignità e il benessere delle donne e degli uomini in Puglia” Bollettino ufficiale regionale, n. 87 del 12 luglio 2006.

(5) Regione Basilicata. Legge regionale 14 febbraio 2007, n. 4 “Rete regionale integrata dei servizi di cittadinanza sociale”, Bollettino ufficiale regionale, n. 10 del 17 febbraio 2007.

(6) La legge 6/2006 del Friuli Venezia Giulia consta di 67 articoli divisi in quattro titoli: finalità e principi; Sistema integrato di interventi e servizi sociali; Aree di intervento del sistema integrato, politiche sociosanitarie, programmi speciali di sostegno al reddito; Norme finali, transitorie e finanziarie.

Sono 66 gli articoli  della legge 12/2006 della Regione Liguria, divisi in otto titoli: Norme generali; Il sistema integrato degli interventi sociali e sociosanitari; Atti di programmazione e accesso ai servizi integrati; Politiche sociali integrate; Interventi a favore della non autosufficienza; Sistema di regolazione della rete dei servizi sociali; Disposizioni finanziarie per l’attuazione del sistema integrato degli interventi sociali e sociosanitari; Disposizioni finali e transitorie.

La legge regionale pugliese è composta di ben 70 articoli suddivisi in sei titoli: Il sistema integrato dei servizi sociali; La famiglia nel sistema integrato dei servizi; Carattere universalistico delle politiche sociali; Tipologie, standard, autorizzazione e accreditamento; Accesso e partecipazione degli utenti; Norme finali.

(7) Il comma 2 dell’articolo 128 del decreto legislativo 31 marzo 1998, così recita: «Ai sensi del presente decreto legislativo, per “servizi sociali” si intendono tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia».

(8) Per un significativo esempio si legga sul numero 156, 2006 di Prospettive assistenziali, il notiziario dell’Unione per la tutela degli insufficienti mentali, titolato: “Possiamo accettare di sentirci dire ‘non ci sono risorse…’?”.

(9) Si tenga presente che i menzionati articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931 contenevano le stesse norme approvate più di 110 anni fa con il regio decreto 6535 del 1889!

(10) Cfr. l’editoriale “Secondo la Corte costituzionale gli asili nido non fanno parte dei servizi sociali, ma dell’istruzione: una autorevole conferma della posizione del Csa e di Prospettive assistenziali”, Prospettive assistenziali, n. 148, 2004.

(11) Articolo 47 (Istituzione del fondo regionale a favore della non autosufficienza): «1. Per realizzare le misure sociosanitarie a favore delle persone non autosufficienti, la Regione istituisce un apposito fondo, denominato fondo per la non autosufficienza, quale componente del fondo regionale per le politiche sociosanitarie di cui all’articolo 57.

2. Il fondo per la non autosufficienza finanzia prioritariamente le prestazioni sanitarie e sociosanitarie inserite nei livelli essenziali di assistenza (Lea) di cui all’allegato 1.C del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, 29 novembre 2001, l’assistenza territoriale domiciliare, l’assistenza residenziale e semiresidenziale di mantenimento.

3. Costituiscono fonti di finanziamento del fondo per la non autosufficienza:

a) le risorse del fondo sanitario gia destinate alle attività sociosanitarie di tipo domiciliare e residenziale di cui al comma 2 e le risorse derivate dagli obiettivi del Piano sanitario nazionale finalizzate alla non autosufficienza;

b) una quota delle risorse del fondo regionale per le politiche sociali, trasferito dallo Stato ai sensi della legge 328/2000, da destinare alla non autosufficienza;

c) entrate regionali anche provenienti dalla fiscalità;

d) altre risorse provenienti da Fondazioni o donazioni.

4. Concorrono a definire l’ammontare complessivo del fondo per la non autosufficienza anche i finanziamenti che i Comuni dedicano agli interventi di sostegno alla persona e alla famiglia e all’aiuto domestico familiare o altre prestazioni a favore dei non autosufficienti erogate in base alla presente legge, alla legge 328/2000 e al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 14 febbraio 2001.

5. Il fondo per la non autosufficienza viene ripartito annualmente alle Asl e ai Comitati dei Sindaci di distretto sociosanitario per le attività individuate dai Piani di distretto sociosanitario, con particolare riferimento alle azioni definite ai commi 2 e 4 e secondo le indicazioni del Piano sociale integrato regionale.

6. La Giunta regionale emana specifici indirizzi per il riparto di cui al comma 5, per garantire alla cittadinanza:

a) accessibilità e uniformità di benefici a parità di bisogno;

b) riqualificazione e riequilibrio dell’offerta assistenziale per rispondere alla domanda territoriale con continuità e senza alimentare le liste di attesa;

c) equità nel concorso alla spesa, laddove richiesto.

7. Il fondo per la non autosufficienza erogato dalla Regione, per le parti ricomprese nei bilanci ordinari dei Comuni e delle Asl, ha destinazione vincolata alle attività indicate all’articolo 46 e al presente articolo».

(12) Art. 41 (fondo per l’autonomia possibile e per l’assistenza a lungo termine): «1. La Regione istituisce il fondo per l’autonomia possibile e per l’assistenza a lungo termine, rivolto a persone che, per la loro condizione di non autosufficienza, non possono provvedere alla cura della propria persona e mantenere una normale vita di relazione senza l’aiuto determinante di altri.

2. Tramite il fondo si provvede al finanziamento di prestazioni e servizi destinati ai soggetti di cui al comma 1, con priorità per gli interventi diretti al sostegno della domiciliarità.

3. Il fondo è formato con risorse regionali e nazionali, nonché con risorse provenienti dalla fiscalità generale ed eventuali risorse di altri soggetti pubblici e privati. Alla ripartizione tra gli enti gestori del servizio sociale dei Comuni si provvede secondo criteri stabiliti con provvedimento della Giunta regionale.

4. Le modalità di gestione del fondo, nonché la tipologia dei servizi e degli interventi di cui al comma 2 sono disciplinate con atto della Giunta regionale, da adottarsi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, previo parere della Conferenza permanente per la programmazione sanitaria, sociale e sociosanitaria regionale e della competente Commissione consiliare, che si esprimono entro trenta giorni dal ricevimento della richiesta. Decorso inutilmente tale termine, si prescinde dal parere».

(13) Si tenga presente che già attualmente per le prestazioni sanitarie domiciliari o residenziali per le persone malate croniche non autosufficienti vi sono liste di attesa della durata di due-tre anni.

(14) Cfr. l’editoriale del numero 156, 2006 di Prospettive assistenziali, “Fuorvianti le valutazioni e le proposte contenute nel volume La riforma dell’assistenza ai non autosufficienti”.

(15) Cfr. l’editoriale “Chiediamo l’aiuto delle organizzazioni sociali per l’eliminazione dell’assurda discriminazione fra l’assistenza ai bambini nati nel o fuori dal matrimonio e per migliorare il sostegno alle gestanti e madri in difficoltà”, Prospettive assistenziali, n. 147, 2004.

(16) Si veda l’articolo “Approvata dalla Regione Piemonte una valida legge per il sostegno alle gestanti e madri in condizioni di disagio”, Prospettive assistenziali, n. 154, 2006.

(17) Ricordiamo che la legge 328/2000 è stata più volte commentata – e tutte le volte negativamente – su Prospettive assistenziali.  Cfr. “La riforma dell’assistenza all’esame della Camera dei Deputati: una proposta di legge gravemente immorale”, n. 127, 1999; “Il testo di legge sui servizi sociali calpesta le esigenze dei più deboli ed ignora la prevenzione dell’emarginazione”, n. 128, 1999; “Cinico no della Camera dei Deputati e del Governo al riconoscimento del diritto esigibile alle prestazioni di assistenza sociale indispensabili per le persone più deboli”, n. 129, 2000; “Scandalosamente iniquo il testo di legge sui servizi sociali approvato dalla Camera dei Deputai: tolti ai più deboli diritti e risorse. Un appello ai Senatori, al Governo e al volontariato”, n. 130, 2000; “Abbondano le notizie false sul testo di legge dell’assistenza e dei servizi sociali”, n. 131, 2000; “La legge 328/2000 sui servizi sociali è iniqua e truffaldina”, n. 132, 2000. Inoltre, si veda il volume di M. G. Breda, D. Micucci, F. Santanera, La riforma dell’assistenza e dei servizi sociali - Analisi della legge 328/2000 e proposte attuative, Utet Libreria, Torino, 2001.

(18) Cfr. “La legge della Regione Emilia Romagna sugli interventi e servizi sociali: nessun diritto, ancora beneficenza”, Prospettive assistenziali, n. 145, 2004.

(19) Cfr. Livio Pepino, “La salute: fortuna o diritto?”, Animazione sociale, n. 12, 2001.

(20) La legge regionale 1/2004  “Norme per la realizzazione del sistema regionale integrato di interventi e servizi sociali e riordino della legislazione di riferimento”, è entrata in vigore in data 30 gennaio 2004.

(21) Per un commento approfondito della legge regionale 1/2004 si veda Prospettive assistenziali, n. 147, 2004.

(22) Cfr. anche l’editoriale di questo numero “Prospettive assistenziali compie 40 anni: dai risultati raggiunti dal volontariato dei diritti un forte incitamento a continuare nella tutela dei soggetti deboli”.

 

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