Prospettive assistenziali, n. 159, luglio - settembre 2007

 

 

abbandono e maltrattamenti in strutture di ricovero per anziani: quale legge penale?

Elena Brugnone

 

 

 

Negli ultimi anni la stampa nazionale ha pubblicato numerose notizie su fatti di abbandono e di maltrattamenti perpetrati in strutture socio-sanitarie per anziani non autosufficienti. La cronaca più eclatante parla di istituti “lager” dove i ricoverati vivono in condizioni precarie e subiscono maltrattamenti.

Alcuni comunicati stampa dei Nas hanno segnalato, inoltre, reati e illeciti ricorrenti in una parte delle strutture residenziali per anziani sottoposte ad ispezione (1). Si tratta di notizie che suscitano interrogativi inquietanti sulle condizioni di vita dei degenti. I Nas hanno rilevato, infatti, frequenti casi di abbandono di anziani non autosufficienti.

Sono state scoperte alcune strutture di ricovero abusive e altri fatti illeciti che comportano situazioni di pericolo per la salute dei ricoverati.

Fra questi evidenzio i seguenti: esercizio abusivo della professione sanitaria da parte di persone addette all’assistenza dei ricoverati; somministrazione di medicinali guasti o scaduti; detenzione di alimenti in cattivo stato di conservazione o alterati.

I diversi illeciti sono accomunati da un aspetto significativo: la connessione a violazioni di legge nella gestione di strutture per anziani e/o nell’esercizio di incarichi di assistenza e cura interni alle stesse strutture. In riferimento a questo grave fenomeno ritengo utile fare alcune considerazioni preliminari sulla condizione di disagio delle persone ricoverate in strutture di cura e di assistenza dove più frequentemente si verificano i fatti illeciti segnalati.

Salvo casi del tutto eccezionali, gli anziani degenti presso istituti socio-sanitari sono affetti da patologie croniche invalidanti con necessità di cure medico-infermieristiche e di assistenza continua per il compimento dei normali atti della vita quotidiana.

Questa ricorrente condizione di malattia e di non autosufficienza è significativa perché segnala gli effetti della grave discriminazione sociale in atto contro i malati cronici non autosufficienti.

Nel nostro Paese vi sono ancora numerosi ospedali che negano il diritto alla continuità del ricovero senza limiti di durata a questi malati. L’offerta di servizi domiciliari e di strutture socio-sanitarie non è attualmente sufficiente a rispondere alle esigenze.

In mancanza di adeguate alternative di cura nel settore sanitario aumentano i ricoveri di persone malate in età avanzata presso istituti di assistenza.

Ma questi ricoveri significano ulteriore disagio per l’allontanamento definitivo dall’ambiente familiare, sociale, per il cambiamento delle abitudini di vita e soprattutto per le carenze, spesso vistose, delle cure sanitarie, in particolare quelle contro il dolore e gli aggravamenti. Il personale è spesso insufficiente e non qualificato. Alcuni addetti all’assistenza svolgono mansioni sanitarie senza l’abilitazione professionale prescritta dalla legge. Ricorrono altri fatti illeciti come quelli segnalati dai Nas.

Proprio in questo contesto di emarginazione sociale si verificano casi di abbandono e di maltrattamenti per responsabilità di amministratori e operatori di strutture assistenziali che si comportano in violazione dei loro doveri contro gli assistiti (2).

Osservo che le vittime, normalmente, sono persone incapaci di difendersi e di presentare denuncia penale contro i responsabili. Per questo è di fondamentale importanza che le autorità preposte alla vigilanza sulle strutture assistenziali assicurino controlli frequenti e adeguati a tutela dei ricoverati.

Purtroppo la permanenza per un lungo periodo di tempo di reati che incidono negativamente sulle condizioni di vita degli assistiti suscita pesanti dubbi sull’idoneità degli interventi pubblici di vigilanza.

Perché alcune delle strutture “lager” scoperte dai carabinieri sono risultate in possesso di regolari autorizzazioni pubbliche a operare nel settore delle cure socio-sanitarie? Come mai le autorità locali e regionali preposte alla vigilanza non hanno effettuato i controlli necessari a prevenire i casi di maltrattamenti scoperti dai carabinieri dopo mesi o anni dall’inizio del loro verificarsi?

Questi ed altri interrogativi interpellano lo Stato, le Regioni e gli enti locali affinché, nell’ambito delle rispettive competenze, assumano iniziative concrete per affrontare il problema.

Da un lato sono necessari interventi per rispondere alle diverse esigenze delle persone non autosufficienti in grave difficoltà, promuovendo alternative concrete al loro ricovero e l’effettivo riconoscimento dei loro diritti. Dall’altro lato sono utili iniziative per assicurare una effettiva ed efficace vigilanza pubblica su tutte le strutture sanitarie, socio-sanitarie e assistenziali operanti nel territorio nazionale. È auspicabile, inoltre, un intervento legislativo che si occupi anche degli aspetti penali.

Per quanto concerne la questione della vigilanza credo che il legislatore dovrebbe fornire una apposita disciplina con la previsione dei finanziamenti pubblici necessari a garantirne l’attuazione.

Al riguardo è auspicabile una normativa che disponga, in particolare, sui seguenti aspetti: enti pubblici responsabili dei controlli e obblighi relativi, requisiti che il personale e le strutture devono presentare, sanzioni amministrative da applicare in caso di accertate violazioni di legge.

In ordine al problema dei fatti illeciti ricorrenti in una parte delle strutture assistenziali operanti nel nostro Paese, ritengo che il legislatore dovrebbe prenderli in seria considerazione per affrontare il problema dal punto di vista penale.

La legge vigente non prevede autonome figure di reato riferite specificamente alla responsabilità penale di amministratori e operatori di strutture di ricovero che si comportano in violazione dei loro doveri, mettendo in pericolo la salute degli utenti o causando danni agli stessi. A tutt’oggi non è previsto alcun reato contro i responsabili di strutture abusive per persone non autosufficienti.

Gli articoli del codice penale sui delitti di abbandono e di maltrattamenti non stabiliscono norme specifiche per una maggiore tutela dei ricoverati contro il comportamento di chi, invece di adempiere al proprio dovere, li abbandona o li maltratta.

Questi ed altri rilievi segnalano una questione penale su cui ritengo utile soffermarmi per esporre qui di seguito alcune considerazioni e proposte.

 

Una legge penale contro le strutture abusive

La legge penale italiana non prevede alcun reato contro l’apertura e la gestione di strutture socio-sanitarie abusive destinate al ricovero di persone non autosufficienti. I responsabili di queste strutture risultano assimilati ai titolari di “agenzie di affari ed esercizi pubblici non autorizzati o vietati” e non più perseguibili penalmente in base all’articolo 13 del decreto legislativo n. 480 del 1994.

Questo decreto legislativo, infatti, ha abrogato l’articolo 665 del codice penale che prevedeva il reato relativo all’apertura e alla gestione di “Agenzie di affari ed esercizi pubblici non autorizzati o vietati”, incluse le strutture alberghiere abusive (3). In forza di questa abrogazione, e in mancanza di nuove norme di legge, viene sanzionato solo in via amministrativa il comportamento illecito dei responsabili di strutture abusive per persone non autosufficienti.

Questi gestori risultano, pertanto, equiparati ai titolari di alberghi abusivi destinati a persone autonome. Ma le persone non autosufficienti ricoverate in strutture abusive non sono clienti in vacanza. Sono persone incapaci di autogestirsi e, di conseguenza, non sono in grado di denunciare eventuali fatti illeciti in loro danno, né libere di andarsene quando vogliono. Si trovano in uno stato di necessità che li costringe a rimanere nella struttura abusiva che li ospita, anche se inadeguata alle loro esigenze.

A mio parere i responsabili di strutture abusive per persone non autosufficienti dovrebbero essere perseguibili penalmente perché, operando in violazione della legge, sottraggono gli ospiti incapaci di autogestirsi ai necessari interventi di tutela pubblica.

Occorre considerare, inoltre, che la peculiare condizione di non autosufficienza vissuta nel contesto di strutture non autorizzate è un fattore che favorisce il verificarsi di casi di abbandono e di maltrattamenti.

In base a questi rilievi credo che il legislatore dovrebbe predisporre, al più presto, una legge che preveda un reato specifico contro l’apertura e la gestione di strutture socio-sanitarie abusive per soggetti non autosufficienti e il sequestro delle stesse.

 

Una riforma dell’articolo 591 del codice penale “Abbandono di persone minori o incapaci”

Il codice penale non prevede una norma incriminatrice che si occupi dell’abbandono di soggetti non autosufficienti nell’ambito di strutture di ricovero.

L’articolo 591 del codice penale prevede, infatti, un’unica fattispecie criminosa per tutti i casi di “Abbandono di persone minori o incapaci”.

Le norme di questo articolo conservano lo stesso testo approvato dal legislatore del 1930.

In base al primo comma è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni «chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura» (4).

I limiti edittali di pena sono aumentati da uno a sei anni di reclusione «se dal fatto deriva una lesione personale» e da tre a otto anni «se ne deriva la morte».

In base all’ultimo comma dell’articolo 591 è prevista, inoltre, una circostanza che aggrava il reato in riferimento alla relazione di parentela o coniugale o di tutela che lega il responsabile dell’abbandono alla vittima, mentre nessun riferimento espresso viene fatto alla gravità dell’abbandono di persone incapaci presso strutture di ricovero in relazione a comportamenti penalmente rilevanti di dirigenti, amministratori od operatori incaricati di curare e assistere i ricoverati.

Eppure questa forma di abbandono è estremamente grave e merita di essere presa in considerazione dal legislatore. Al riguardo sono significative alcune sentenze di condanna emesse dalla Corte di Cassazione nei confronti di amministratori di strutture assistenziali per abbandono di ricoverati anziani malati non autosufficienti lasciati in pessime condizioni igienico-sanitarie perché il personale non era sufficiente e privo della necessaria abilitazione professionale (5).

Proprio in riferimento a casi come questi la Suprema Corte ha affermato che la condotta criminosa del delitto in questione «consiste nel lasciare la persona incapace in balia di se stessa o di soggetti inidonei a provvedere adeguatamente alla sua custodia ed alla cura o, comunque, insufficienti allo scopo, in modo tale che derivi un pericolo per la incolumità personale» (6).

In riferimento al problema criminale dell’abbandono di persone incapaci nel contesto di strutture di ricovero ritengo importante fare alcuni rilievi di carattere generale. Il pericolo tipico del delitto in esame non riguarda una sola persona ma, normalmente, una pluralità di assistiti non autosufficienti. Si tratta di un pericolo connesso, di solito, alla mancanza nella struttura di degenza dei requisiti di garanzia per la cura e l’assistenza ai ricoverati non autosufficienti.

La responsabilità è riconducibile al comportamento di chi si occupa dei servizi di cura per gli assistiti e viola i doveri connessi a questo incarico.

Gli stessi amministratori sono responsabili qualora lascino i ricoverati in situazione di costante pericolo perché, ad esempio, il personale impiegato non è qualificato e insufficiente rispetto al numero dei ricoverati da assistere. Questa forma di abbandono presenta una peculiare potenzialità criminale quando dipende dalla responsabilità di chi dirige o comunque si occupa della cura e dell’assistenza dei ricoverati in quanto si verifica in strutture istituite proprio con lo scopo di curare e di assistere persone incapaci di autodifendersi.

Si tratta di situazioni di pericolo che, spesso, si protraggono per un lungo periodo di tempo prima di essere scoperte e, di conseguenza, è più facile che si verifichino anche danni alla salute dei ricoverati a causa delle carenze nell’assistenza e nella cura.

Occorre considerare, inoltre, che la persistenza nel tempo dell’abbandono può causare gravissime sofferenze, quando le omissioni di assistenza e di cura si ripetono giorno dopo giorno contro persone gravemente non autosufficienti. In questi casi l’abbandono in strutture di ricovero incide negativamente sulle condizioni di vita e di salute delle vittime, assumendo una rilevanza lesiva peculiare per le quali, a mio avviso, dovrebbe essere previsto un reato specifico più grave di quelli attualmente sta­biliti.

In base ai rilievi esposti credo che il legislatore dovrebbe predisporre una riforma dell’articolo 591 del codice penale che preveda espressamente norme penali contro le diverse forme di abbandono di persone incapaci. La responsabilità penale di chi ha incarichi direttivi o curativi o assistenziali presso una struttura di ricovero dovrebbe essere presa in autonoma considerazione con la previsione di specifiche figure di reato. L’intervento legislativo potrebbe dare un indirizzo preciso all’autorità giudiziaria che attualmente, in mancanza di norme espresse, dispone di un’ampia discrezionalità di valutazione sui casi di abbandono di persone incapaci.

Occorre, inoltre, considerare l’esigenza di assicurare una tutela tempestiva ai soggetti in stato di abbandono degenti presso strutture gravemente inadeguate alle loro esigenze. Al riguardo è auspicabile la previsione di provvedimenti giudiziari urgenti come, ad esempio, la sospensione dagli incarichi direttivi dei responsabili e la contestuale nomina di un amministratore straordinario.

Per quanto riguarda la pena per il delitto di abbandono, credo che i limiti edittali previsti dall’articolo 591 del codice penale dovrebbero essere opportunamente aumentati. È utile, inoltre, una specifica previsione di pene accessorie per impedire che amministratori e operatori condannati per il delitto di abbandono dei loro assistiti ritornino a occupare incarichi presso strutture assistenziali o sanitarie.

 

Una riforma dell’articolo 572 del codice penale “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli

Il nostro codice penale non prevede norme che riguardino specificamente i maltrattamenti perpetrati in strutture di ricovero contro uno o più assistiti.

Per questi fatti si applica, a tutt’oggi, l’articolo 572 del codice penale intitolato “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli” che conserva il testo approvato dal legislatore del 1930. Persiste la formale classificazione di questo reato fra i delitti contro la famiglia. Ma il legislatore dovrebbe decidersi a classificarlo fra i delitti contro la persona.

L’articolo 572, primo comma, prevede che è punito con la reclusione da uno a cinque anni «chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore di 14 anni, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte».

Il riferimento fatto ai casi indicati nell’articolo precedente (articolo 571 del codice penale) (7) è previsto per distinguere il delitto di maltrattamenti dal delitto, ritenuto dalla legge meno grave, di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina.

La Corte di Cassazione ha precisato che i mezzi di correzione devono essere leciti e non violenti (8), ma l’articolo 571 facendo riferimento espresso a lesioni e morte causate dall’abuso di mezzi di correzione favorisce un uso interpretativo distorto. Infatti, la difesa di chi è imputato per maltrattamenti o per un altro grave reato contro il proprio assistito può sostenere che l’imputato ha agito per motivi di correzione o di disciplina nel causare lesioni o la morte della vittima. Un argomento utile per tentare di ottenere una condanna a pene notevolmente inferiori.

Questo possibile uso distorto dell’articolo 571 in collegamento con il delitto di maltrattamenti richiama l’attenzione sull’opportunità di una riforma che coinvolga anche il delitto di abuso dei mezzi di correzione e di disciplina.

Ritornando all’articolo 572 osservo che il secondo comma distingue tre casi di maltrattamenti ritenuti più gravi in relazione all’entità del danno subito dalla vittima. È prevista la reclusione da quattro a otto anni «se dal fatto deriva una lesione personale grave» (9); la reclusione da sette a quindici anni «se ne deriva una lesione gravissima»; la reclusione da dodici a venti anni «se ne deriva la morte».

Il codice penale non prevede, invece, un delitto specifico relativo ai maltrattamenti perpetrati in strutture di cura e di assistenza contro uno o più ricoverati ovvero in altri contesti, anche familiari, contro bambini, persone malate o soggetti non autosufficienti. Questi casi vengono messi sullo stesso piano dei maltrattamenti contro persone che, pur essendo in posizione di subordinazione rispetto a chi li maltratta, sono comunque capaci di autogestirsi e de­nunciare i fatti. Penso, ad esempio, al caso del lavoratore dipendente maltrattato dal datore di lavoro.

Credo che il legislatore in sede di riforma di questo delitto dovrebbe stabilire norme penali specifiche che tengano conto della peculiare gravità del reato nei confronti di persone incapaci di difendersi. Al riguardo è necessaria un’attenzione legislativa particolare per il problema dei maltrattamenti nei confronti dei minori in famiglia, in istituto e in altri contesti ambientali. Non entro nel merito specifico dei contenuti di norme penali che interessano la tutela dei minori, ma ritengo importante segnalarne, comunque, la necessità per una trattazione più approfondita in altra sede.

Prendendo in considerazione il problema dei maltrattamenti contro assistiti ricoverati osservo che ricorrono elementi tipici di gravità che impongono la previsione di autonome figure di reato. Penso, in particolare, alla peculiare posizione dei responsabili e alle conseguenti situazioni di pericolo o di danno per una pluralità di vittime.

Al riguardo ritengo utile evidenziare due fattispecie che ricorrono tipicamente nei casi di maltrattamenti contro persone ricoverate in strutture sanitarie e assistenziali e che dovrebbero, a mio avviso, ispirare la formulazione di autonome figure di reato.

La prima fattispecie è caratterizzata da omissioni di cura e di assistenza, mancanza di igiene, pasti preparati con alimenti avariati o in cattivo stato di conservazione, e altri fatti che incidono negativamente sulle condizioni di vita di una pluralità di as­sistiti. In questo caso i maltrattamenti sono con­-nessi ad una cattiva gestione che non rispetta le esigenze di vita degli assistiti. I responsabili sono consapevoli delle conseguenze negative sulla salute dei loro assistiti e, ciò nonostante, tengono abituali comportamenti in violazione dei loro doveri e in danno dei ricoverati (10).

La seconda fattispecie è caratterizzata da comportamenti vessatori che si manifestano attraverso un’aggressione abituale diretta contro una o più persone ricoverate. Il responsabile non adempie al proprio incarico rifiutando di prestare l’assistenza e le cure necessarie, trattando con parole e gesti ingiuriosi l’assistito, minacciandolo. I comportamenti vessatori si aggravano quando intervengono anche atti di violenza fisica. In questi casi il dolo dei responsabili è caratterizzato dalla volontà diretta a vessare le vittime dei maltrattamenti (11).

Alla luce dei rilievi esposti credo che il legislatore in sede di riforma del delitto in questione dovrebbe prevedere norme incriminatrici specifiche al fine di dare un indirizzo preciso all’autorità giudiziaria.

È necessaria la previsione di limiti edittali di pena più elevati di quelli previsti dal primo comma dell’articolo 572 e di pene accessorie specifiche per l’interdizione da incarichi direttivi e assistenziali dei responsabili. Sono auspicabili, inoltre, norme che stabiliscano provvedimenti urgenti a tutela degli assistiti.

In mancanza di queste previsioni di legge, osservo che, a tutt’oggi, i ricoverati trovati in precarie condizioni di vita presso strutture, dove i responsabili vengono indagati per il delitto in questione, rischiano di continuare a subire vessazioni in attesa dei necessari urgentissimi interventi di tutela.

Occorre, inoltre, rilevare che, grazie ai bassi limiti di pena previsti dal primo comma dell’articolo 572, i responsabili di maltrattamenti nei confronti di uno o più assistiti possono patteggiare una reclusione non superiore ai due anni (articolo 444 del codice di procedura penale). Con il patteggiamento si ottiene il beneficio della non applicazione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza (articolo 445 del codice di procedura penale). Ciò significa che, se un amministratore o un operatore imputato per maltrattamenti patteggia e ottiene anche la sospensione condizionale della pena, può ritornare a lavorare nella struttura dove ha commesso il delitto.

È vero che il secondo comma dell’articolo 572 del codice penale prevede pene più elevate, ma fa dipendere la maggiore gravità dei fatti dalla prova che i maltrattamenti abbiano causato lesioni gravi (malattia che mette in pericolo la vita o che dura più di quaranta giorni) o menomazioni gravissime ovvero la morte della vittima.

Credo che i maltrattamenti che incidono negativamente sulle condizioni di salute degli assistiti sono fatti molto gravi indipendentemente dalla prova della entità delle conseguenze lesive. Occorre, peraltro, evidenziare che gran parte dei ricoverati in strutture dove si verificano maltrattamenti si trovano già in condizioni di rilevante non autosufficienza per malattie croniche degenerative e invalidanti.

La condizione delle vittime, unitamente alla prova di abituali omissioni di assistenza e cura e/o di altri comportamenti vessatori nei loro confronti, dovrebbe bastare per imporre una valutazione di maggiore gravità dei fatti rispetto alla fattispecie semplice prevista dal primo comma dell’articolo 572.

In conclusione, alla luce di tutti i rilievi esposti, credo che il legislatore dovrebbe avviare al più presto la predisposizione di una legge che affronti i diversi aspetti del problema dal punto di vista penale. È necessario un intervento legislativo che esprima una chiara valutazione di gravità contro fatti illeciti come quelli ricorrenti in strutture di ricovero per persone non autosufficienti e preveda una maggiore tutela per tutti i degenti. Senza questa legge le forme di emarginazione sociale che favoriscono i maltrattamenti contro le persone più deboli e indifese continueranno a trovare le condizioni favorevoli per svilupparsi.

 

 

(1) Cfr. “Controlli effettuati dai Nas sulle strutture residenziali per anziani: altre allarmanti infrazioni penali e amministrative”,  Prospettive assistenziali, n. 143, 2003.

(2) Cfr. Corte di Cassazione, Sezione V, 9 maggio 1986; Giorgini, Cassazione penale, 1987, 1094; Corte di Cassazione, Sezione V, 22 novembre 1989, n. 1016; Bruni, Cassazione penale 1990, 1349, con nota di Domenico Carcano; Corte di Cassazione, Sezione VI, 30 maggio 1990; Cosco, Cassazione penale 1992, 1505, n. 776; Corte di Cassazione, Sezione V, 28 marzo 1990, Mancini, Cassazione penale 1992, 614; Corte di Cassazione, Sezione V, 21 ottobre 1992, n. 832; Dramis, Rivista penale, 1993, 1131; Corte di Cassazione, Sezione VI, 17 ottobre 1994; Fiorillo, Cassazione penale 1996, 511, n. 243, con nota di Rocco Blaiotta, “Maltrattamenti nelle istituzioni assistenziali e dovere di solidarietà”; Corte di Cassazione, Sezione V, 28 novembre 1997; Cimino, Gazzetta giuridica, Giuffrè, Italia Oggi (22), 1998, 30.

(3) L’articolo 665 del codice penale stabiliva quanto segue: «Chiunque senza la licenza dell’Autorità, o senza la preventiva dichiarazione alla medesima, quando siano richieste, apre o conduce agenzie d’affari, stabilimenti o esercizi pubblici, ovvero per mercede alloggia persone, o le riceve in convitto o in cura, è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a lire un milione. Se la licenza è stata negata, revocata o sospesa, le pene dell’arresto e dell’ammenda si applicano congiuntamente. Qualora, ottenuta la licenza, non si osservino le altre prescrizioni della legge o dell’Autorità, la pena è dell’arresto fino a tre mesi o dell’ammenda fino a lire seicentomila».

(4) L’articolo 591 del codice penale “Abbandono di persone minori e incapacidispone quanto segue «chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione  da sei mesi a cinque anni. Alla stessa pena soggiace chi abbandona all’estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro. La pena è della reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale, ed è da  tre a otto anni se ne deriva la morte. Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore o dal coniuge, ovvero dall’adottante o dall’adottato».

(5) Cfr. la sentenza della Corte di Cassazione, Sezione V, 22 novembre 1989, n. 1016; Bruni, Cassazione penale, 1990, 1349, con nota di Domenico Carcano; Sentenza della Corte di Cassazione, Sezione V, 21 ottobre 1992; Dramis, Rivista penale, 1993, 1131.

(6) Cfr. Corte di Cassazione, Sezione V, 22 novembre 1989, n. 1016; Bruni, Cassazione penale, 1990, 1349, con nota di Domenico Carcano.

(7) L’articolo 571 del codice penale “Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina” prevede quanto segue: «Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina  in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi. Se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano le pene stabilite negli articoli 582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni».

(8) Cfr. Corte di Cassazione, Sezione V, 86/173956; Corte di Cassazione, Sezione VI, 96/205033; Commentario breve al Codice penale, Complemento giurisprudenziale a cura di Giuseppe Zuccalà, quarta edizione, Cedam, 1996, p. 1429 e Appendice di aggiornamento 1996-1998, Cedam, 1998, p. 255.

(9) L’articolo 583 del codice penale definisce nel seguente modo i concetti di lesione personale grave e gravissima. La lesione personale è grave: 1) se dal fatto deriva una malattia  che met­ta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tem­po superiore ai quaranta giorni; 2) se il fatto produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo; 3) se del fatto de­riva l’accelerazione del parto. La lesione personale è gravissima se dal fatto deriva: 1) una malattia certamente o probabilmente insanabile; 2) la perdita di un senso; 3) la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella; 4) la deformazione ovvero lo sfregio permanente del viso; 5) l’aborto della persona offesa.

(10) Cfr. Corte di Cassazione, Sezione VI, 30 maggio 1990 (deposito 16 gennaio 1991); Cosco, Cassazione penale, 1992, 1505, n. 776; Corte di Cassazione, Sezione V, 21 ottobre 1992, n. 832 (deposito 1 febbraio 1993); Dramis, Rivista penale, 1993, 1131; Corte di Cassazione, Sezione VI, 17 ottobre 1994 (deposito 19 novembre 1994); Fiorillo, Cassazione penale, 1996, 511, n. 243, con nota di Rocco Blaiotta, “Maltrattamenti nelle istituzioni assistenziali e dovere di solidarietà”.

(11) Cfr. il n. 64, 1983, di Prospettive assistenziali, in cui è pubblicato il testo integrale della sentenza del Tribunale di Venezia, del 24 novembre 1982, relativa a gravi maltrattamenti contro anziani malati non autosufficienti ricoverati presso la casa di riposo “Villa Lucia” di Mestre. La condanna di sette degli otto imputati (dipendenti della casa di riposo, addetti all’assistenza dei ricoverati nel reparto infermeria uomini) per il delitto di maltrattamenti (capo di imputazione I) è stata confermata dalla Corte di appello di Venezia con sentenza 10 maggio 1984 n. 954 e, successivamente,  anche dalla Corte di Cassazione. Nonostante la condanna penale, i responsabili non sono stati nemmeno licenziati.

 

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