Prospettive assistenziali, n. 159, luglio - settembre 2007

 

 

LA CONVENZIONE DELL’ORGANIZZAZIONE DELLE NAZIONI UNITE SUI DIRITTI DELLE PERSONE CON HANDICAP

MAURO PERINO *

 

 

Premessa

Il 13 dicembre 2006 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite di New York ha approvato definitivamente una “Convenzione sui diritti delle persone con disabilità” (1). La Convenzione – che ha la finalità di «promuovere, proteggere e assicurare il pieno ed eguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità e promuovere il rispetto per la loro inerente dignità» (articolo 1) – giunge al termine di un
percorso avviato nel 1971, anno nel quale l’Organizzazione delle Nazioni Unite approvò la “Dichiarazione sui diritti delle persone con ritardo mentale” (2).

Successivamente, nel 1981, in occasione dell’anno internazionale delle persone handicappate, viene impostato il “Programma mondiale di azione” (1983-1992) a seguito del quale, alla fine del 1993, l’Assemblea generale adotta le “Regole standard per l’uguaglianza di opportunità delle persone con disabilità, documenti con i quali vengono dettati i principi e le linee guida per «influenzare la promozione, la formulazione e la valutazione delle politiche, dei piani, dei programmi e delle azioni a livello nazionale, regionale ed internazionale».

Purtroppo – come si afferma nel preambolo della Convenzione – «nonostante questi vari strumenti ed impegni le persone con disabilità continuano a incontrare barriere nella loro partecipazione come membri eguali della società e violazioni dei loro diritti umani in ogni parte del mondo». Di qui la decisione, assunta dagli Stati membri nel 2001, di costituire un comitato incaricato di elaborare «una convenzione internazionale esaustiva e completa per la promozione e la protezione dei diritti e della dignità delle persone con disabilità» nella convinzione che – con il nuovo strumento – si possa dare «un contributo significativo a riequilibrare i profondi svantaggi sociali delle persone con disabilità e a promuovere la loro partecipazione nella sfera civile, politica, economica, sociale e culturale, con pari opportunità, sia nei Paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo».

 

L’articolato della Convenzione

Come si è detto, la Convenzione si prefigge lo scopo di assicurare il pieno godimento dei diritti e delle libertà fondamentali delle «persone con disabilità» (3) proteggendole da ogni trattamento discriminatorio e lesivo della loro dignità e precisando che tra di esse vanno inclusi «quanti hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri» (articolo 1).

Vengono poi fornite (articolo 2) le definizioni dei concetti utilizzati nel testo: elencando tutte le strumentazioni atte a rendere possibile l’accesso alla «comunicazione» (lingue, visualizzazione di testi, Braille, comunicazione tattile, stampa a grandi caratteri, fonti multimediali accessibili, il lettore umano ed ogni altra tecnologia adatta allo scopo); precisando che «il linguaggio» comprende le lingue parlate, il modo di esprimersi con i segni come pure le altre forme di espressione non verbale; dettagliando una declaratoria degli indicatori di «discriminazione sulla base della disabilità», compreso il rifiuto di un «accomodamento ragionevole», concetto con il quale vengono indicate «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato o eccessivo, ove ve ne sia la necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e libertà fondamentali». Infine si precisa che la «progettazione universale» – con la quale si intende la predisposizione e la realizzazione di prodotti, ambienti, programmi e servizi utilizzabili, nella misura più estesa, da tutte le persone senza bisogno di adattamenti – non esclude «dispositivi di ausilio per particolari gruppi di persone con disabilità ove siano necessari».

Il testo prosegue (articolo 3) con l’indicazione dei principi assunti dalla Convenzione: il rispetto per la dignità, l’autonomia individuale; la libertà di compiere le proprie scelte e l’indipendenza delle persone; la non discriminazione; la piena ed effettiva partecipazione ed inclusione sociale; il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con handicap come parte della diversità umana e dell’umanità stessa; la parità di opportunità; l’accessibilità; la parità tra uomini e donne; il rispetto per lo sviluppo delle capacità dei bambini con disabilità e per il loro diritto a preservare la propria identità.

Si fissano poi (articolo 4) gli obblighi generali ai quali sono chiamati a sottostare gli Stati firmatari che vengono impegnati – in primo luogo – a modificare e ad abrogare qualsiasi normativa discriminatoria; ad adottare tutte le misure legislative ed amministrative per realizzare i diritti riconosciuti dalla Convenzione ed a «tenere conto della protezione e della promozione dei diritti umani delle persone con disabilità in tutte le politiche e in tutti i programmi» astenendosi da ogni pratica con essa contrastante. Agli Stati viene inoltre richiesto di adottare misure appropriate per eliminare la pratica discriminatoria «da parte di ogni persona, organizzazione o impresa privata» (con la inquietante omissione di ogni riferimento a persone, organizzazioni ed imprese pubbliche).

La seconda parte dell’articolo relativo agli obblighi generali è dedicata alla promozione – da parte degli Stati – della ricerca e dello sviluppo di beni, servizi, apparecchiature ed attrezzature progettati universalmente e che andrebbero realizzati in modo tale da richiedere il minor adattamento possibile per consentirne la fruizione – a costi compatibili – da parte delle persone con handicap. Infine – dopo aver richiamato l’impegno a promuovere la formazione «di professionisti e personale che lavorino con persone con disabilità sui diritti riconosciuti (…) così da meglio fornire l’assistenza e i servizi garantiti da quegli stessi diritti» – si formulano due importanti obbligazioni:

• «in merito ai diritti economici, sociali e culturali ogni Stato Parte si impegna a prendere misure, per il massimo delle proprie risorse disponibili e, ove necessario nel quadro della cooperazione internazionale, in vista di conseguire progressivamente la piena realizzazione di tali diritti, senza pregiudizio per gli obblighi contenuti nella presente Convenzione che siano immediatamente applicabili secondo il diritto internazionale»;

• «nello sviluppo e nell’applicazione della legislazione e delle politiche atte ad attuare la presente Convenzione, come pure negli altri processi decisionali relativi a temi concernenti le persone con disabilità, gli Stati Parti si consulteranno con attenzione e coinvolgeranno attivamente le persone con disabilità, compresi i bambini con disabilità, attraverso le loro organizzazioni rappresentative».

Il tema dei diritti è oggetto specifico di tutti i successivi articoli della Convenzione: «eguaglianza e non discriminazione» (articolo 5); «diritto alla vita» (articolo 10); «eguale riconoscimento di fronte alla legge» (articolo 12); «diritto alla libertà ed alla sicurezza della persona» (articolo 14); «diritto di non essere sottoposto a torture, a pene o a trattamenti degradanti» (articolo 15); «diritto a non essere sottoposto a sfruttamento, violenza e maltrattamenti» (articolo 16); «protezione dell’integrità della persona» (articolo 17); «libertà di movimento e cittadinanza» (articolo 18); «vita indipendente ed inclusione nella comunità» (articolo 19); «mobilità personale» (articolo 20); «accessibilità» all’ambiente fisico ed ai trasporti ma anche all’informazione e alla comunicazione, al fine dell’esercizio della «libertà di espressione e di opinione» (articoli 9 e 21); «rispetto della vita privata» (articolo 22); «rispetto del domicilio e della famiglia» (articolo 23); «diritto all’istruzione» (articolo 24); «diritto di godere del più alto standard conseguibile di salute» (articolo 25); «diritto a lavoro e occupazione» (articolo 27); «diritto di partecipazione alla vita politica e pubblica» (articolo 29) ed alla «partecipazione alla vita culturale, alla ricreazione, al tempo libero ed allo sport» (articolo 30).

Alla puntuale elencazione dei diritti fondamentali delle persone con handicap – tra i quali risulta centrale il diritto alla «vita indipendente ed inclusione nella comunità» in quanto espressione strategica delle finalità indicate nella Convenzione (4) – fa seguito l’individuazione di alcuni obiettivi che si potrebbero definire “strumentali”. In primo luogo, l’impegno, richiesto agli Stati, a raccogliere le informazioni appropriate, compresi i dati statistici e di ricerca, che permettano loro di formulare e implementare le politiche finalizzate alla tutela dei diritti delle persone con disabilità (articolo 32). Un secondo impegno è il riconoscimento dell’importanza della cooperazione internazionale per l’assunzione di misure finalizzate all’inclusione; a sostenere la capacità di azione anche attraverso lo scambio e la condivisione di esperienze; ad agevolare la ricerca e l’accesso alle conoscenze scientifiche e tecniche; alla messa in comune di tecnologie di accesso operando trasferimenti di tecnologie. Un ulteriore importante aspetto è l’applicazione, a livello nazionale, di sistemi di monitoraggio e coordinamento al fine di facilitare le azioni legate all’applicazione della Convenzione. A tal fine è richiesto agli Stati di mantenere, rafforzare o istituire una struttura a ciò preposta, garantendo che al processo di monitoraggio possano pienamente partecipare «la società civile, in particolare le persone con disabilità e le loro organizzazioni rappresentative» (articolo 33).

L’articolo 34 stabilisce inoltre che, dal momento dell’entrata in vigore della Convenzione, verrà costituito un «Comitato sui diritti delle persone con disabilità» (per un massimo di 18 membri) composto da «personalità di alta autorità morale e di riconosciuta competenza ed esperienza nel campo (…) eletti a scrutinio segreto in una lista di persone designate dagli Stati Parti tra propri cittadini in occasione delle riunioni della conferenza degli Stati Parti convocate dal Segretario generale delle Nazioni Unite». Al Comitato è assegnato il compito di esaminare i dettagliati rapporti periodici con i quali ogni Stato relazionerà «sulle misure prese per rendere efficaci i suoi obblighi in virtù della (…) Convenzione e sui progressi conseguiti al riguardo». Il Comitato deciderà inoltre le linee guida applicabili al contenuto dei rapporti e terrà costanti rapporti con gli Stati Parti con le modalità definite dalla Convenzione (articoli 35, 36, 37, 38 e 39).

Infine l’articolo 40 stabilisce che «gli Stati Parti si incontreranno regolarmente in una Conferenza (…) in modo da prendere in considerazione qualsiasi questione che riguardi l’applicazione della (…) Convenzione» e che, non oltre sei mesi dalla sua entrata in vigore, «la Conferenza degli Stati Parti sarà convocata dal Segretario generale delle Nazioni Unite» depositario, in base all’articolo 41, della Convenzione stessa.

Il testo si conclude con gli articoli relativi alle disposizioni di attuazione e con un «protocollo opzionale» che regolamenta, in dettaglio, gli aspetti procedurali dei rapporti tra gli Stati Parti, il Comitato sui diritti ed il Segretario generale.

 

Considerazioni sul testo della Convenzione

Occorre innanzitutto premettere che è auspicabile che la Convenzione possa consentire «un sostanziale passo in avanti per i 650 milioni di persone con disabilità che abitano la terra, oltre l’80% dei quali vivono nei Paesi in cerca di sviluppo» subendo le più grandi violazioni dei diritti umani. Come infatti testimoniano alcuni dati dell’Onu «il 98% delle persone con disabilità che vivono nei Paesi in cerca di sviluppo non hanno accesso ai servizi riabilitativi e ad appropriati servizi di base, più dell’80% nel mondo non ha un impiego e solo il 2% dei minori con disabilità ha potuto accedere ad un educazione formale» (5).

L’intervento dell’Onu «per dare dignità e valore alle persone con disabilità e proteggerle dal punto di vista legale da trattamenti che per secoli le hanno relegate ai margini della società, segregate in istituti, escluse dall’accesso a diritti, beni e servizi» (6) è dunque da apprezzare. Ma la Convenzione «deve ora essere messa in pratica ed attuata da tutti gli Stati membri», come ha sottolineato lo stesso Kofi Annan, Segretario generale delle Nazioni Unite, esortando tutti gli Stati nel ratificare ed applicare la Convenzione, «con tutto il cambiamento culturale che ne consegue, oltre agli impegni politici, economici e organizzativi» (7).

Proprio con riferimento agli aspetti culturali (la concezione dell’handicap ed i “modelli” dell’integrazione) ed agli impegni concreti per superare l’emarginazione, può essere utile approfondire alcune delle questioni trattate nel documento.

 

Handicap e malattia

Come già evidenziato la convenzione riguarda «quanti hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri». Della disabilità – «un concetto in evoluzione (…) che (…) è il risultato dell’interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impedisce la loro piena ed efficace partecipazione nella società su una base di parità con gli altri» – si parla dunque come di un effetto che accomuna, in un’unica condizione, persone con problematiche che derivano da cause diverse.

Fra le minorazioni sono inserite perdite o anormalità di funzioni che possono derivare da condizioni patologiche per le quali «in molti casi diagnosi tempestive e cure precoci potrebbero ridurre se non eliminare del tutto la gravità dell’handicap» (8). Inoltre non si opera una distinzione tra handicappati intellettivi e malati psichiatrici, confondendo – in generale – l’handicap con la malattia.

Come infatti precisa Giuseppe Oberto (9), l’insufficienza mentale «è una condizione deficitaria caratterizzata da un funzionamento intellettuale notevolmente inferiore alla media con evidente riduzione della capacità di adattamento alle richieste culturali della società, per lo più presente nella prima età, spesso connotata da danneggiamento organico e strutturale dell’encefalo, sovente di rilievo anatomo-patologico, per lo più stabilizzato, ancorché migliorabile attraverso interventi educativi e riabilitativi». Mentre la malattia mentale «si caratterizza per una varietà di disturbi del comportamento emotivo, cognitivo e sociale, con difetto del rapporto interpersonale, per lo più a carattere evolutivo e processuale, sovente senza substrati anatomo-patologici dimostrabili: in questo ambito di malattia mentale si includono le condizioni psicotiche, le condizioni a genesi organica per lo più di natura degenerativa, i processi psiconeurotici, i disordini del comportamento e della personalità». I malati psichiatrici devono dunque essere curati in quanto tali e non semplicemente ricondotti alla condizione, falsamente accomunante, di “disabilità”.

Eppure la precisazione dell’Organizzazione mondiale della sanità – contenuta nella Classificazione internazionale del funzionamento e della disabilità edito nel 2000 da Erickson – che «malattia e disabilità sono costrutti distinti che possono essere considerati indipendentemente» è molto importante. Soprattutto se si intende intervenire efficacemente per eliminare una condizione di disparità che, essendo prodotta da cause diverse, dovrebbe richiedere differenti interventi. Se il costrutto di malattia e quello di disabilità non vengono considerati disgiuntamente, si potranno forse lenire gli effetti di una condizione, ma non si potrà intervenire con efficacia sulle cause.

Occorre inoltre ricordare – con riferimento ai riflessi istituzionali – che, per il cittadino italiano, non è affatto indifferente se una determinata prestazione compete istituzionalmente al sistema sanitario o a quello socio assistenziale. Nel primo caso si può parlare di diritto soggettivo a beneficiare di prestazioni erogate nell’ambito di livelli essenziali di assistenza definiti, mentre, nel secondo, non sono a tutt’oggi previste prestazioni esigibili su base nazionale (10).

In materia di sanità l’articolo 25 della Convenzione impegna gli Stati a «prendere tutte le misure appropriate per assicurare alle persone con disabilità l’accesso ai servizi sanitari che tengano conto delle specifiche differenze di genere, inclusi i servizi di riabilitazione collegati alla sanità» ed in particolare che dovranno «fornire specificamente servizi sanitari necessari alle persone con disabilità proprio a causa delle loro disabilità, compresi la diagnosi precoce e l’intervento appropriato, e i servizi destinati a ridurre al minimo ed a prevenire ulteriori disabilità, anche tra i bambini e le persone anziane». Ma, proprio con riferimento a queste ultime, avrebbe giovato operare una chiara distinzione tra chi – come l’anziano cronico non autosufficiente – è limitato nella attività e nella partecipazione a causa di malattie invalidanti e chi, invece, vive una condizione di disabilità a causa di una menomazione (di natura fisica, sensoriale o intellettiva) che l’Oms intende in senso «più ampio e comprensivo rispetto a quello di disturbo o malattia» precisando che «per esempio, la perdita di una gamba è una menomazione della struttura corporea, non un disturbo o una malattia» (11). Di contro se la “non autosufficienza” fosse ritenuta (prescindendo dalle cause che la determinano) una delle situazioni che caratterizzano l’handicap, «allora tutti i neonati ed i bambini in tenera età dovrebbero essere considerati disabili» (12).

Occorre infine ricordare che in merito ai costrutti di handicap e di malattia si è pronunciata la Corte europea di giustizia con una sentenza dell’11 luglio 2006 nella quale – con riferimento alla direttiva europea 2000/78/Ce “Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizione di lavoro” – viene precisato che «utilizzando la nozione di “handicap” di cui all’articolo 1 della direttiva di cui trattasi, il legislatore ha deliberatamente scelto un termine diverso da quello di “malattia”» e che, pertanto, è «esclusa un’assimilazione pura e semplice delle due nozioni» (13). Il provvedimento riguardava il licenziamento di S.C.N. avvenuto durante un’interruzione della durata di otto mesi dell’attività lavorativa. Dopo aver accertato che S.C.N. «è stata licenziata dal suo datore di lavoro esclusivamente per causa di malattia», la Corte europea di giustizia ha dichiarato che la questione «non rientra nel quadro generale tracciato dalla direttiva 2000/78 per lottare contro la discriminazione fondata sull’handicap».

 

Handicap intellettivo ed efficace tutela dei diritti fondamentali

Anche per quanto attiene alle «minorazioni intellettuali (…) che in interazione con varie barriere possono impedire la (…) piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza», la Convenzione evidenzia il limite di non considerare la specificità dei soggetti con handicap intellettivo, soprattutto di quelli con limitata o nulla autonomia. Posto che «non è valida una definizione di gravità che non tenga conto anche di tutti quei fattori esterni che possono o rendere meno urgente o più pressante l’intervento dei servizi» (14) occorre che – nell’emanazione delle disposizioni finalizzate a tutelare i diritti e nella definizione delle misure per favorire l’inclusione – l’handicap intellettivo (cioè l’insufficienza mentale) venga considerato con puntuale riferimento alla sua natura ed alla gravità che esso può assumere. Pena la non applicabilità, a queste persone, di molte delle norme contenute nel testo approvato dalle Nazioni Unite.

Si prenda, ad esempio, il tema “lavoro ed occupazione” (articolo 27). Nella Convenzione è previsto il riconoscimento del diritto al lavoro delle persone con handicap «su base di parità con gli altri» – incluso «il diritto all’opportunità di mantenersi attraverso il lavoro che esse scelgono o accettano liberamente in un mercato del lavoro e in un ambiente lavorativo aperto» «a condizioni lavorative giuste e favorevoli, comprese l’eguaglianza delle opportunità e la parità di remunerazione per un lavoro di pari valore». È difficile riconoscere – in questo voler fare “parti eguali tra diseguali” – un’efficace applicazione ai soggetti con handicap intellettivo, del principio di giustizia sociale che sta alla base del riconoscimento del diritto al lavoro. A queste persone non basta garantire «l’eguaglianza delle opportunità»: occorre la predisposizione di metodologie di inserimento lavorativo adeguate alle autonomie possedute; riconoscendo in ogni caso che – a fronte di alcune insuperabili limitazioni personali – è l’ambiente di lavoro e, se del caso, lo stesso sistema produttivo che deve adeguarsi.

Con lo stesso “prudente realismo” occorre che si proceda anche nei confronti delle persone con handicap intellettivo per le quali non sia possibile perseguire un inserimento lavorativo e la cui autonomia sia fortemente limitata o addirittura nulla: ad esse deve essere garantito il diritto ad una tutela giuridica, attraverso idonei istituti che ne assicurino la rappresentanza nei casi di incapacità di provvedere ai propri interessi. Inoltre a tali soggetti occorre garantire – oltre al «diritto di godere del più alto standard conseguibile di salute» sancito dall’articolo 25 – anche quello all’assistenza sociale, non esplicitamente menzionato nella Convenzione. Pur dando atto che l’articolo 19 prevede, per gli Stati Parti, l’obbligatoria attivazione di servizi di assistenza alla persona e di strutture comunitarie, non è infatti realistico pensare che tutte «le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, sulla base di eguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione abitativa». Ai soggetti con un handicap intellettivo tale da non consentire loro di «vivere nella comunità, con la stessa libertà di scelta delle altre persone» e «di mantenersi attraverso il lavoro che esse scelgono o accettano liberamente» andrebbe dunque assicurato il pieno diritto all’assistenza sociale da parte degli Stati aderenti alla Convenzione.

Purtroppo, alle problematiche relative alle persone con handicap intellettivo, la Convenzione non dà sufficiente spazio ed è così che i concetti di “pari opportunità” e di “uguaglianza” – se applicati a questi soggetti – risultano declinati in termini del tutto generici e inapplicabili.

Ad esempio: a fronte dell’affermazione, contenuta nell’articolo 5, che le «misure specifiche che fossero necessarie ad accelerare o conseguire de facto l’eguaglianza delle persone con disabilità non saranno considerate discriminatorie ai sensi della (…) Convenzione», cosa si intende – con riferimento alla «eguaglianza con gli altri» – quando si richiede agli Stati Parti di assicurare che «le persone con disabilità non vengano escluse dal sistema di istruzione generale sulla base della disabilità e che i bambini con disabilità non siano esclusi da una libera ed obbligatoria istruzione primaria gratuita o dall’istruzione secondaria sulla base della disabilità»? Non basta infatti che «il sistema educativo preveda la loro integrazione scolastica a tutti i livelli e offra, nel corso dell’intera vita, possibilità di istruzione», ma occorre che essi (handicappati intellettivi inclusi) possano beneficiare di tale diritto nell’ambito della scuola “di tutti”. Dunque “insieme agli altri” e non semplicemente “come gli altri”! Ben sapendo che ciò comporta la messa a disposizione di insegnanti di sostegno e di personale di appoggio (in numero adeguato e con una appropriata formazione) e la puntuale fornitura delle prestazioni sanitarie specialistiche e di tutti gli ausili necessari a perseguire efficacemente tale obiettivo.

Nell’ambito della convenzione sarebbe stato inoltre utile affrontare il problema della prevenzione, dando adeguato spazio alla necessità di azioni mirate ad evitare gli infortuni in ambiente domestico, sul lavoro e stradali che rappresentano la causa principale dell’insorgere di condizioni di handicap spesso grave. È ben vero che l’articolo 25 impegna gli Stati a «fornire alle persone con disabilità la stessa gamma, qualità e standard di servizi e programmi sanitari, gratuiti o a costi sostenibili, forniti alle altre persone, compresi i servizi sanitari nell’area sessuale e di salute riproduttiva e i programmi di salute pubblica inerenti alla popolazione» (15), unitamente ai «servizi sanitari necessari alle persone con disabilità proprio a causa delle loro disabilità, compresi la diagnosi precoce e l’intervento appropriato, e i servizi destinati a ridurre al minimo ed a prevenire ulteriori disabilità». Ma accanto a questi interventi – che la Convenzione intende estendere a chi è già in condizione di handicap – sarebbe stata necessaria la formulazione di indirizzi agli Stati in ordine alla necessità di intraprendere azioni (non solo collegate alla sanità) rivolte al complesso della popolazione e finalizzate ad evitare, per quanto possibile, l’insorgere di tale condizione.

Infine un tema (trattato all’articolo 28) che risulta di particolare attualità nel nostro Paese: quello del «diritto delle persone con disabilità ad un livello di vita adeguato per sé e per le proprie famiglie, incluse adeguate condizioni di alimentazione, vestiario e alloggio, ed il continuo miglioramento delle condizioni di vita » che gli Stati Parti devono riconoscere, prendendo misure «appropriate per proteggere e promuovere l’esercizio di questo diritto senza discriminazione fondata sulla disabilità». Attualmente, in Italia, lo Stato assicura agli invalidi civili un reddito di 242,84 euro mensili (16). È dunque auspicabile che – con la firma della Convezione – si ponga finalmente rimedio a tale scandalosa situazione, assicurando «alle persone con disabilità e alle loro famiglie, che vivono in situazioni di povertà, l’accesso all’aiuto pubblico per coprire le spese collegate alle disabilità, includendo una formazione adeguata, il sostegno psicologico, l’assistenza finanziaria e le terapie respiratorie» ed inoltre «pari accesso (…) a programmi e benefici per il pensionamento».

 

Conclusioni

Il nostro Paese è tra gli Stati che hanno provveduto a firmare la Convenzione il 30 marzo 2007. A partire da tale data essa verrà sottoposta alla ratifica degli Stati firmatari ed entrerà in vigore «il trentesimo giorno dopo il deposito del ventesimo strumento di ratifica o di adesione. Per ogni Stato o organizzazione d’integrazione regionale che ratifica, confermando o aderendo formalmente alla Convenzione dopo il deposito del ventesimo strumento, la Con­venzione entrerà in vigore il trentesimo giorno dopo il deposito di quello stesso strumento» (articolo 45).

L’Italia ha sottoscritto anche il protocollo addizionale della Convenzione che istituisce, definendone i compiti, il ruolo del Comitato per i diritti delle persone con handicap e impegna tutti gli Stati firmatari a riconoscere che il Comitato è competente a ricevere e ad esaminare gli avvisi inoltrati da singoli o gruppi di persone che denunciano di essere vittime di violazioni in merito alle disposizioni statuite dalla Convenzione. Il Ministro della solidarietà sociale si è inoltre impegnato a ridurre i tempi del processo di ratifica ed a promuovere le misure legislative per la concreta applicazione dell’accordo (17).

Già da questa prima fase è previsto che qualunque Stato Parte possa proporre emendamenti alla Convenzione sottoponendoli al Segretario generale che, ai sensi dell’articolo 47, comunicherà le proposte agli Stati Parti «chiedendo loro di far sapere se sono favorevoli alla convocazione di una conferenza (….) in vista di esaminare tali proposte e di pronunciarsi su di esse. Se, entro quattro mesi dalla data di tale comunicazione, almeno un terzo degli Stati Parti si sono pronunciati a favore della convocazione di tale conferenza, il Segretario generale convocherà la conferenza sotto gli auspici dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Qualsiasi emendamento adottato dalla maggioranza dei due terzi degli Stati Parti presenti e votanti è sottoposto per approvazione all’Assemblea generale dell’Or­ganizzazione delle Nazioni Unite ed a successiva accettazione a tutti gli Stati Parti dal Segretario generale». L’Italia potrebbe dunque contribuire, sin d’ora, a migliorare il testo della Convenzione, formulando gli emendamenti necessari a far sì che vengano accolte le osservazioni ed i rilievi proposti in questa sede. In tal modo si potrebbe disporre, a livello internazionale, di uno strumento davvero efficace per la tutela dei diritti di tutte le persone con handicap.

 

 

* Direttore del Cisap, Consorzio dei servizi alla persona dei Comuni di Collegno e Grugliasco (Torino).

(1) Il testo utilizzato –  reperibile sul sito www.grusol.it – è in lingua italiana. La traduzione, non ufficiale, è stata curata dal Consiglio nazionale sulla disabilità (Cnd) e dalla Federazione italiana per il superamento dell’handicap (Fish) e riveduta da Maria Rita Saulle, Ordinario di diritto internazionale all’Università La Sapienza di Roma.

(2) Il documento, così come quelli citati successivamente, è reperibile sul sito www.consequor.it.

(3) La definizione di una persona che ha delle difficoltà personali a causa di una minorazione è, da sempre, oggetto di discussione. In questo articolo si assume l’espressione “handicap” in quanto si ritiene che definisca validamente una situazione di svantaggio sociale, conseguente a menomazione e/o disabilità, che limita o impedisce l’adempimento di un ruolo normale per un dato individuo in  funzione di età, sesso e fattori culturali e sociali. L’handicap riguarda il valore attribuito ad una situazione – o ad una esperienza individuale – quando esso si allontana dalla norma ed è caratterizzato da una discordanza tra la prestazione e la condizione dell’individuo e le aspettative dell’individuo stesso o del gruppo di cui fa parte. L’handicap rappresenta dunque la socializzazione di una menomazione o di una disabilità e, come tale, riflette le conseguenze per l’individuo – sul piano culturale, sociale, economico ed ambientale – che nascono da tali condizioni. Cfr. Maria Grazia Breda e Francesco Santanera, Handicap: oltre la legge quadro. Riflessioni e proposte, Utet Libreria, Torino, 1995.

(4) Si tratta di un diritto affermato e perseguito sin dal 1989, anno nel quale venne fondata l’associazione Enil, network europeo per la vita indipendente. Cfr. Gianni Pellis, “L’assistenza personale autogestita: una realtà innovativa per le persone con handicap fisico molto grave” e “Approvata una valida delibera per la vita indipendente dei soggetti con grave handicap”, Prospettive assistenziali, n.137, 2002.

(5) Luisella Bosisio Fazzi, Pietro Barbieri, Giampiero Griffo, “Perché non condividiamo la scelta della Santa Sede”, www.superando.it , 2007. Cfr. anche la nota 15.

(6) Associazione Consequor, “La Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità”, www.consequor.it , 2007.

(7) Ibidem.

(8) Cfr. Maria Grazia Breda e Francesco Santanera, “Handicap e malattia: i nuovi orientamenti dell’Oms”, Prospettive assistenziali, n.138, 2002.

(9) Giuseppe Oberto, “Invalidità psichiche ed invalidità fisiche ai fini del collocamento obbligatorio”, Prospettive assistenziali, n.77, 1987.

(10) A livello nazionale sono previsti diritti esigibili solamente dagli articoli 154 e 155 del regio decreto n. 773/931 che individuano nel Comune il soggetto tenuto a disporre il ricovero in istituto (unica prestazione alla quale hanno diritto i cittadini italiani inabili al lavoro e privi di mezzi) dei minori, dei soggetti con handicap e degli anziani in gravi difficoltà socio-economiche. Alcuni diritti esigibili sono previsti dalla legge della Regione Piemonte n. 1, 2004.

(11) Cfr. Maria Grazia Breda e Francesco Santanera, Op.cit.

(12) Ibidem.

(13) Cfr. “Handicap e malattia: sentenza della Corte europea di giustizia”, Prospettive assistenziali, n.155, 2006.

(14) Maria Grazia Breda, Francesco Santanera, Op.cit.

(15) Con riferimento ai «servizi sanitari nell’area sessuale e di salute riproduttiva», menzionati all’articolo 25, è da segnalare la posizione, espressa dalla Santa Sede, di rifiuto della firma della Convenzione, con la motivazione che «ci siamo opposti all’inclusione di tale frase in questo articolo, perché in alcuni Paesi i servizi di salute riproduttiva includono l’aborto, negando così l’innato diritto alla vita di ogni essere umano, affermato dall’articolo 10 della Convenzione. È sicuramente tragico che, in tutti i casi in cui una malformazione fetale costituisce una precondizione per l’aborto, la stessa Convenzione creata per proteggere le persone con disabilità da ogni discriminazione nell’esercizio dei loro diritti, possa essere usata per negare il diritto basilare alla vita delle persone con disabilità non nate». Fonte: Luisella Bosisio Fazzi, Pietro Barbieri, Giampiero Griffo, Op. cit.

(16) Cfr. Roberto Tarditi, “Come si fa a vivere con 242,84 euro al mese?”, Prospettive assistenziali, n.158, 2007.

(17) Cfr. Cinzia Valaguzza, “La prima Convenzione sui diritti dei disabili”, Hpress, n.10, 2007.

 

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