Prospettive assistenziali, n. 157, gennaio - marzo 2007

 

 

LINEE OPERATIVE EMERSE NEL CONVEGNO DI TORINO SUI MALATI DI ALZHEIMER

 

 

Organizzato dalla Fondazione promozione sociale, dalla Cattedra di geriatria dell’Università di Torino e dalla rivista Prospettive assistenziali, ha avuto luogo a Torino il 20 ottobre 2006 presso l’Aula magna “Molinette incontra” (g.c.) il convegno nazionale “I malati di Alzheimer e sindromi correlate: gli obblighi del Servizio sanitario nazionale e dei Comuni e il ruolo delle famiglie” a cui hanno partecipato 450 persone fra congiunti, operatori socio-sanitari e volontari.

Riportiamo integralmente la relazione introduttiva presentata da Giuliano Maggiora, presidente dell’Associazione Alzheimer Piemonte, a nome del Gruppo di lavoro delle Associazioni di tutela dei malati di Alzheimer e delle loro famiglie.

 

MALATI DI ALZHEIMER: IL RUOLO DELLE ASSOCIAZIONI DI TUTELA

 

Introduzione

Il mio contributo nasce dall’esperienza condivisa con le associazioni Alzheimer Piemonte, Ama (Associazione malati di Alzheimer), Memorandum Alzheimer, Asvad (Associazione solidarietà e volontariato a domicilio) e Csa (Coordinamento sanità e assistenza tra i movimenti di base). Preciso che nessuna delle nostre associazioni di volontariato gestisce servizi direttamente o in convenzione.

Naturalmente, come le altre associazioni che operano in questo settore, una parte della nostra attività è rivolta all’informazione e alla sensibilizzazione sulle problematiche che caratterizzano il paziente con demenza. Un’attenzione particolare è riservata alla formazione dei volontari per il sostegno al malato che vive in famiglia e alle azioni di supporto diretto alle famiglie stesse.

Soprattutto nello stadio iniziale della malattia, il ruolo delle nostre associazioni  è soprattutto quello di orientamento e di indirizzo della famiglia ai servizi che potrebbero esserle di supporto, aiutandola anche a richiedere correttamente le prestazioni previste dalla normativa vigente.

L’organizzazione di gruppi di auto-aiuto è promossa da alcune delle nostre associazioni, ma con la consapevolezza dei rischi a cui si va incontro. Possibili svantaggi dell’auto-aiuto sono infatti:

- il disimpegno degli amministratori (ad esempio non creare i necessari servizi domiciliari ed i centri diurni);

- l’abbandono degli utenti da parte degli operatori;

- un contenitore di sfoghi.

Tuttavia, i gruppi di auto-aiuto sono molto utili come strumento per la raccolta delle problematiche legate alla gestione della malattia. Dalla conoscenza di elementi diretti, si può creare una base di discussione tra i famigliari, gli operatori ed i volontari coinvolti per la programmazione degli interventi a sostegno del malato e della sua famiglia.

 

Riconoscere che la demenza è una malattia

L’azione del volontariato non è, ovviamente, né sufficiente, né sostitutiva delle prestazioni sanitarie a cui questi malati e le loro famiglie hanno diritto.

Come già era emerso dai lavori della Commis­sione di studio Alzheimer presso il Ministero della salute (2002-2003) «la famiglia è la seconda vittima dell’Alzheimer dopo il malato. Il suo è un compito particolarmente gravoso ed oneroso, che richiede energie caratteriali e non trascurabili risorse finanziarie. Per superare quella sensazione di totale solitudine e abbandono che pervade i familiari – secondo la Commissione – occorre programmare una serie di interventi che (…) contribuiscono a ridefinire il mandato della famiglia nell’ambito di una rete organica di interventi».

Purtroppo siamo ancora lontani dall’aver raggiunto, nel nostro Paese, un livello di servizi che siano di reale sostegno al malato e alla famiglia e che, quindi, siano a misura del loro effettivo bisogno.

In base alla nostra esperienza pluriennale crediamo ragionevole ritenere che il presupposto principale per la realizzazione di una rete organica di servizi sia definire con chiarezza i diritti esigibili dei malati di Alzheimer e di altre sindromi correlate e, conseguentemente, agire nei confronti dell’ente tenuto ad intervenire in base alle norme vigenti.

Per quanto riguarda le nostre associazioni, siamo giunte da tempo alla conclusione che, in primo luogo, si debba riconoscere che stiamo parlando di persone malate e cioè di cittadini con problemi sanitari, anche complessi, che portano inesorabilmente alla non autosufficienza (1).

È ben vero che queste persone presentano anche esigenze di natura socio-assistenziale, ma questi aspetti sono secondari al loro bisogno primario di cure e prestazioni sanitarie.

Siamo quindi contrari alla prassi diffusa nei servizi sanitari di considerare i malati di Alzheimer e di altre forme di demenza “solo” come delle persone bisognose di un po’ di assistenza.

Anche se la malattia di Alzheimer è inguaribile, i pa­­zienti devono essere curati al fine di evitare, per quanto possibile, aggravamenti e complicanze e per garantire anche a chi li assiste il sostegno neces­sario.

Nel libro I malati di Alzheimer: dalla custodia alla cura (2) Ermanno Ferrario, geriatra, nel capitolo “I problemi di chi assiste”, ben evidenzia come la cura del demente a domicilio sia un compito molto difficile «perché comporta un adattamento totale della vita del familiare alle esigenze del paziente, con un coinvolgimento della vita domestica ma anche di quella affettiva, lavorativa e di tutto il tempo libero. La prima regola che chi assiste il malato deve avere ben chiara è che non si può fare tutto da soli. Alcuni dementi richiedono cure continue e non possono essere seguiti da una persona sola se non con l’intervento di altri che la sostituiscono durante la giornata per permettergli di riposare o di prendersi un po’ di tempo libero; questa persona dovrebbe inoltre, se possibile, non rinunciare alle proprie vacanze. Ciò è nell’interesse anche del paziente, che potrà essere meglio assistito se il familiare che si occupa di lui, direttamente o coordinando le varie fonti di aiuto, godrà di un relativo benessere psicofisico».

Ferrario, correttamente, pone poi l’accento su quanto sia importante per il familiare di riferimento essere sostenuto e correttamente guidato. Non manca infatti di sottolineare – mai abbastanza – che solo «personale sanitario preparato all’uopo può consigliare il corretto comportamento, o, semplicemente, contenere paure ed ansie, che altrimenti il familiare non potrebbe sostenere nel tempo se lasciato solo con il malato».

Partendo da queste considerazioni, che ovviamente abbiamo fatto nostre, dopo un lungo e approfondito confronto tra noi, abbiamo messo a punto una serie di richieste condivise, organizzate in una piattaforma, che sono diventate la base del confronto che è stato avviato con la Regione Piemonte (Consiglio regionale e Assessorato alla sanità) e con le Asl del territorio in cui operiamo.

Condizione imprescindibile per l’adesione alla piat­taforma è stata – ed è tuttora – riconoscere che l’Alzheimer è una malattia. Conseguentemente ogni richiesta di intervento deve essere avanzata nei confronti del Servizio sanitario nazionale e regionale.

 

Richiedere gli interventi necessari al settore sanitario e non all’assistenza sociale

È dunque di fondamentale importanza che i famigliari dei malati di Alzheimer e di altre forme di demenza (nonché degli altri soggetti colpiti da malattie croniche e da non autosufficienza) ed i volontari che ne tutelano le esigenze ed i diritti, ricordino che, in base alle leggi vigenti, la competenza ad intervenire spetta al Servizio sanitario nazionale e alle Asl e non all’assistenza sociale.

Da decenni le leggi (692/1955, 132/1968, 386/1974, 180 e 833/1978) obbligano il settore sanitario a garantire, senza limiti di durata, le necessarie cure – occorrendo anche quelle ospedaliere – a tutti i malati, compresi quelli colpiti da malattie inguaribili e da non autosufficienza.

Anche l’articolo 54 della legge 289/2002, che ha introdotto i Livelli essenziali di assistenza (Lea), conferma che spetta al Servizio sanitario nazionale garantire le prestazioni che afferiscono all’area dell’integrazione socio-sanitaria, dove rientrano le cure domiciliari, i centri diurni, le Rsa (Residenze sanitarie assistenziali).

Finora però il tentativo, riuscito, da parte del Servizio sanitario nei confronti di familiari disinformati, è stato quello di “scaricare” il malato di Alzheimer alla famiglia, riducendo la questione ad un problema puramente di necessità assistenziali, se non di badanza. Approfittando dei legami affettivi e/o parentali, si nega il loro “status” di malati e di fatto si impongono alla famiglia oneri di cura che non solo non le spettano, ma che mettono a rischio l’incolumità stessa del malato, che è privato delle prestazioni sanitarie di cui abbisogna.

In alcune realtà del nostro Paese, i Comuni qualche volta hanno tentato di supplire, su sollecitazione di familiari o gruppi di volontariato, all’assenza del Servizio sanitario nazionale con interventi propri (aiuti economici, assistenza domiciliare), ma questi risultano ovunque insoddisfacenti e/o inadeguati o estremamente onerosi, come nel caso delle rette richieste per la frequenza dei centri diurni (3).

In ogni caso gli interventi assistenziali sono legati alle risorse disponibili degli enti locali, non sono certo un diritto certo ed esigibile per tutti i malati e sono erogati sulla base del reddito dell’interessato e, spesso, anche di quello della sua famiglia.

Tuttavia, di fronte a queste carenze abissali la nostra azione non deve essere tesa a ottenere “qualche cosa in più dai Comuni”, bensì a rivendicare correttamente una presa in carico effettiva da parte del Servizio sanitario nazionale, l’ente tenuto per legge a provvedere alla cura dei malati, compresi quelli inguaribili.

I Comuni non hanno obblighi nei confronti dei cittadini malati, quindi non è nei loro confronti che dobbiamo dirigere le nostre richieste per ottenere servizi e prestazioni adeguate (4).

Semmai possiamo rimproverare ai Comuni di avere scelto finora di coprire, impropriamente, il vuoto di intervento lasciato dal Servizio sanitario nazionale, piuttosto che adoperarsi per ottenere il rispetto del loro diritto alle cure sanitarie domiciliari e residenziali. I Sindaci, massima autorità sanitaria dei Comuni, dovrebbero sollecitare le Asl e gli Assessorati alla sanità, perché programmino gli interventi e i servizi necessari, anche attraverso azioni concrete. Ad esempio, uno dei primi centri diurni della Città di Torino è sorto grazie alla messa a disposizione di un immobile del Comune all’Asl, che ne ha assunto la gestione.

 

La difesa del diritto alla continuità terapeutica e assistenziale

Per quanto ci riguarda è proprio dall’esperienza quotidiana, a contatto con i malati ed i loro familiari, che è nata la scelta di spostare il nostro impegno sul terreno in cui opera il volontariato dei diritti, con il duplice obiettivo di adoperarci per ottenere il rispetto delle esigenze da parte del Servizio sanitario nazionale, in settori non ancora tutelati abbastanza, ma anche per difendere il diritto alla cura e alla continuità terapeutica laddove è già previsto dalla normativa vigente, ma non attuato.

Con altre associazioni di volontariato abbiamo quindi predisposto l’opuscolo Tutti hanno diritto alle cure sanitarie. Si tratta di un’informazione di base, scritta, che dovrebbe essere assunta a nostro avviso dai Comuni. Un opuscolo informativo è molto utile, come hanno dimostrato i Comuni di Nichelino e di Grugliasco della Provincia di Torino, che per primi lo hanno predisposto per mettere i loro cittadini in grado di tutelare i propri congiunti malati cronici e non autosufficienti, a partire dalla conoscenza dei loro diritti esigibili.

 

Conoscere i propri diritti

Aiutare la famiglia con un malato di Alzheimer significa anche informarla sul suo diritto esigibile alle cure gratuite e senza limiti di durata durante la fase acuta e la riabilitazione.

È giusto che la famiglia sappia che, in base alle leggi vigenti, può opporsi alle dimissioni dall’ospedale e/o da una casa di cura convenzionata, se non è più in grado di accogliere il proprio familiare non autosufficiente  al domicilio. Si ha diritto ad esigere la continuità terapeutica che, in base ai Lea, dovrà essere assicurata in quella o altra struttura sanitaria o socio-sanitaria (5).

Spesso gli operatori sanitari cercano di forzare l’accettazione da parte dei familiari della dimissione del congiunto malato e non autosufficiente, senza peraltro preoccuparsi se è in grado di sostenere il gravoso impegno e se l’Asl di residenza assicurerà le necessarie prestazioni domiciliari sanitarie.

Se si accettano le dimissioni dall’ospedale o dalla casa di cura convenzionata di riabilitazione o di lungodegenza si perde il diritto alla continuità della cura. In questo caso l’Asl di residenza dell’ammalato si limita, nella nostra Regione, a inserire il malato in una lista d’attesa sia per le cure domiciliari, sia per il ricovero in Rsa, dove può restare anche due o tre anni.

Le famiglie si ritrovano così a dover sostenere da sole il mantenimento dell’ammalato a domicilio. Gli interventi economici, anche dei Comuni, sono assai scarsi e comunque interessano fasce di popola­zione con situazioni economiche estremamente basse.

Quando le famiglie sono costrette a ricorrere al ricovero privato devono sostenere costi che si aggirano mediamente attorno ai 18/20mila euro all’anno. Pertanto spesso finiscono per scegliere la struttura privata non sulla base della qualità delle prestazioni erogate, ma sulla capacità di spesa che sono in grado di sostenere, con le conseguenze immaginabili per i malati.

Quando leggiamo l’articolo di cronaca che racconta di un malato di Alzheimer trovato morto in mezzo ai boschi o per strada, fuggito da una struttura di ricovero, è perché chiaramente non vi era personale a sufficienza e adeguato per prestare tutte le necessarie attenzioni.

Per tali ragioni abbiamo deciso che il nostro ruolo di volontari comprende anche il passaggio di informazioni corrette alla famiglia in merito ai diritti previsti dalle leggi vigenti per tutelare questi malati, affinché possa giustamente richiedere l’intervento dei servizi sanitari, quando non è in grado di sostenere il peso che comporta il mantenimento a domicilio di un malato di Alzheimer.

Ad esempio, per ottenere il diritto esigibile alla continuità terapeutica e assistenziale  in una struttura di ricovero è sufficiente attivare il diritto all’opposizione previsto dalle leggi vigenti inviando una lettera raccomandata con ricevuta di ritorno al Direttore generale dell’Asl come riproposto nella lettera fac-simile che trovate pubblicata al fondo del citato opuscolo.

Ci siamo convinti della necessità di operare anche su questo piano perché, non dimentichiamolo, non è ancora esigibile il diritto alle cure domiciliari anche se, come riconosceva la Commissione citata, è la famiglia il luogo principale in cui viene accolto il malato di Alzheimer.

 

Il diritto alle cure domiciliari

Come ho già detto, le nostre associazioni puntano prima di tutto perché sia fatto tutto il possibile per promuovere e sostenere il mantenimento a domicilio – fino a quando è possibile – dell’ammalato di Alzheimer o colpito da altre demenze senili.

In base alla nostra esperienza le cure domiciliari sono appropriate se vengono assicurate le seguenti condizioni:

- vantaggi terapeutici e conseguente stato di benessere psicofisico per il paziente e il nucleo familiare;

- disponibilità da parte dei familiari o di terze persone a garantire il necessario sostegno materiale e morale al malato;

- idoneità dell’alloggio in cui il malato è curato;

- impiego di personale medico-infermieristico non superiore a quello occorrente nelle strutture sanitarie per il trattamento di analoghe patologie;

- costi inferiori al ricovero ospedaliero (casa di cura) o nucleo residenziale Rsa.

Sono ormai scientificamente noti i vantaggi terapeutici, ma anche economici, rispetto al ricovero, delle cure domiciliari. Tuttavia, nella nostra Regione, ma anche nel resto del Paese, stentano a decollare in maniera organica, per cui vi sono modalità di erogazione difformi.

La nostra richiesta punta quindi ad ottenere una legge che sani questa situazione, tenuto conto che le cure domiciliari si pongono altresì quale valida alternativa al ricovero nelle strutture residenziali o, per­lomeno, ne allontana nel tempo la richiesta da parte del familiare che se ne occupa in prima per­sona.

L’Asl non dovrebbe “speculare” sulla disponibilità dei familiari e dovrebbe utilizzare le risorse risparmiate per potenziare le cure domiciliari. Inoltre dovrebbe finalmente riconoscere almeno un contributo forfetario, a parziale rimborso delle maggiori spese sostenute dalla famiglia (o da chi per essa) che si fa carico del mantenimento domiciliare del malato.

 

Il volontariato intrafamiliare

Per consentire ai malati di Alzheimer e di altre forme di demenza senile di continuare a vivere a casa loro, come ho più volte sottolineato, occorre sostenere anche i loro familiari.

Le famiglie non hanno alcun obbligo giuridico e agiscono solo perché spinte da un forte impegno etico.

Sovente siamo costretti a rilevare che le autorità competenti approfittano di questa disponibilità, oltre che dei legami affettivi, per non fornire le dovute prestazioni sanitarie e socio-sanitarie al domicilio. Per tali ragioni abbiamo inserito nella succitata piattaforma la richiesta che, a fronte dei notevoli risparmi realizzati dall’Asl, sia riconosciuto un contributo economico (di almeno 500 euro) alla famiglia, quale rimborso forfetario per i maggiori oneri sostenuti. Tale proposta era stata avanzata dalla rivista Prospettive assistenziali nel 1998 (6).

Il riconoscimento del volontariato intrafamiliare non solo promuove la permanenza a domicilio delle persone non autosufficienti ma, come risulta dal provvedimento del Cisap, Consorzio dei servizi alla persona fra i Comuni di Collegno e Grugliasco che ha approvato la prima delibera in merito, riguardante però i soggetti con handicap intellettivo grave, consente anche fortissimi risparmi da parte delle istituzioni (7).

A noi sembra, invece, di poter ragionevolmente osservare che i vincoli di parentela non dovrebbero far venire meno i doveri di solidarietà sociale da par­te della comunità locale e che si dovrebbe favorire l’accoglienza intrafamiliare anche attraverso un concreto aiuto a coloro che vi provvedono spesso con enormi sacrifici materiali, psicologici ed economici.

 

Il centro diurno

Altra esperienza alternativa al ricovero per i malati di Alzheimer e sindromi correlate è il centro diurno, a condizione che sia proposto alla famiglia come un intervento terapeutico e, quindi, senza oneri a suo carico.

Il centro diurno si pone come intervento di cura e, analogamente a quanto previsto per i centri diurni per malati psichiatrici, la cura deve essere assicurata dal Servizio sanitario nazionale.

Il centro diurno per soggetti dementi era stato previsto dal Progetto obiettivo “Tutela della salute dell’anziano” tra i servizi specialistici semi-residenziali. A seguito anche dell’approvazione del Piano sanitario nazionale per il triennio 1994-1996 (Dpr 1° marzo 1994) nel nostro Paese sono sorti vari centri diurni con caratteristiche e dimensioni assai diversi tra loro.

Come ho già sottolineato all’inizio del mio intervento, pur considerando lodevoli le iniziative intraprese in questo ambito, le nostre associazioni ritengono che i centri diurni Alzheimer, essendo rivolti a malati, debbano essere gestiti dalla sanità e non dall’assistenza.

È fondamentale, infatti, che il centro diurno non sia un contenitore isolato, ma una struttura saldamente collegata con gli altri servizi geriatrici: reparto, ospedale di giorno, ambulatorio, residenza sanitaria assistenziale (Rsa), unità valutativa geriatratica (Uvg), cure domiciliari secondo un modello operativo che privilegi i bisogni del paziente che possono variare nel tempo.

Per quanto riguarda la sua organizzazione la richiesta che sosteniamo nel gruppo di lavoro presso l’Assessorato alla sanità della nostra Regione, a cui partecipa un nostro rappresentante, è che sia prevista la frequenza per almeno 5 giorni alla settimana per circa 8 ore, con non più di 20 pazienti presenti tutti insieme.

Insistiamo anche nel ritenere che la frequenza sia totalmente gratuita, anche per quanto concerne il servizio di trasporto e la mensa, perché tutto ciò che avviene nel centro diurno è attività terapeutica per il malato.

Inoltre l’esperienza ultraventennale dei centri diurni per i soggetti con handicap intellettivo e per i malati psichiatrici dimostra che, laddove nella realtà locale si sono realizzati centri diurni efficienti e senza oneri a carico dei familiari, questi hanno mantenuto a lungo il loro familiare non autosufficiente a domicilio, con notevoli risparmi per la collettività e benefici indiscussi per l’interessato.

Si deve altresì considerare che il centro diurno è un’occasione importante di osservazione medica e di riabilitazione per il malato e sarebbe pertanto assai grave che egli dovesse rinunciarvi a causa di oneri troppo gravosi da sostenere per accedervi.

Sicuramente il centro diurno è molto meno dispendioso dell’invio di un operatore a domicilio per ogni singolo paziente o di un ricovero in un nucleo Alzheimer in una Rsa.

Il Servizio sanitario nazionale pertanto può ben assumere tutti gli oneri relativi alle prestazioni assicurate dal centro diurno, senza penalizzare gli utenti e tanto meno i loro familiari, che non hanno obbligo alcuno di cura.

D’altra parte si deve anche tenere conto che è stata finora fallimentare la prassi di porre a carico degli utenti e dei loro familiari parte dei costi del servizio e o del trasporto e della mensa.

In alcuni casi i centri diurni hanno rischiato la chiusura e le famiglie hanno accelerato la richiesta di ricovero con oneri di gran lunga maggiori per il Servizio sanitario nazionale.

 

Maggiori e migliori prestazioni sanitarie anche nelle Rsa

Quando il malato di Alzheimer o di altre forme di demenza non è più gestibile a casa, nasce l’esigenza del ricovero definitivo in Rsa.

Questi malati dovrebbero essere ricoverati nelle Rsa con la garanzia di accesso ai livelli di prestazione più elevati. La nostra Regione prevede che la quota a carico del Servizio sanitario possa raggiungere anche il 57% del costo complessivo della retta, mentre i Lea prevedono che la quota sanitaria deve coprire come minimo il 50 per cento del costo della retta e la parte rimanente a carico dell’utente/ Comune (8).

Ovviamente una partecipazione maggiore ai costi da parte del Servizio sanitario regionale consente di prevedere livelli di prestazione socio-sanitaria più elevati e, nel contempo, riduce sensibilmente la quota a carico degli utenti: quanto sopra ci sembra corretto tenuto conto della prevalenza della malattia e del diritto alla gratuità delle cure se fossero ricoverati in ospedale.

Tuttavia vi sono soggetti che possono manifestare forti problemi comportamentali e/o di aggressività, situazioni che compromettono seriamente la possibilità di convivenza con gli altri malati anziani cronici non autosufficienti delle Rsa.

Pertanto, al fine di assicurare migliori livelli di cura a tutti, lo stesso gruppo di lavoro incaricato di mettere a punto la delibera sui centri diurni, sta predisponendo anche una normativa per l’apertura di nuclei Alzheimer in ogni Rsa per rispondere a queste particolari esigenze.

Il problema della gestione di soggetti particolarmente difficili lo abbiamo affrontato spesso con i familiari che si sono rivolti alle nostre associazioni in cerca di aiuto. Per questo, già nella piattaforma citata, abbiamo inserito la richiesta che si debba «garantire nelle strutture residenziali socio-sanitarie nella fascia di livello di prestazioni più alta, con incremento, ogni ulteriore prestazione aggiuntiva in caso di certificazione di gravità da parte della commissione Uvg, fissando la quota alberghiera a carico dell’utente comunque non oltre i limiti indicati per la fascia più alta dalla delibera in vigore» (9).

 

Compartecipazione degli utenti alla retta di ricovero in Rsa

Un altro punto importante della piattaforma riguarda il nodo della compartecipazione degli utenti alla retta di ricovero in Rsa.

In base all’art. 54 della legge 289/2002  il Servizio sanitario nazionale deve garantire la prestazione e contribuisce alla spesa (la percentuale non può essere inferiore al 50%); inoltre è prevista la compartecipazione dell’utente e/o dei Comuni per la parte della cosiddetta retta alberghiera (10).

Su questo aspetto, grazie anche alla forte mobilitazione delle associazioni di volontariato (11), la Regione Piemonte ha stabilito che «in caso di insufficienza di reddito e/o del patrimonio (secondo i criteri approvati da ciascun Comune o Ente gestore socio-assistenziale nel rispetto della normativa nazionale), l’integrazione della retta giornaliera a carico dell’utente compete all’Ente gestore delle attività socio-assistenziali di residenza dell’utente. Dalla somma di tali fattori reddituali viene detratta la somma mensile non inferiore ad euro 100 che deve essere lasciata a disposizione dell’utente per spese personali. Tale cifra è rivalutabile dalla Regione in sede di monitoraggio annuale».

Su questo importante punto che interessa la compartecipazione degli utenti alle prestazioni socio-sanitarie è intervenuto il Prof. Massimo Dogliotti. In questa sede mi preme sottolineare che sono ancora troppo numerosi gli Enti locali che non hanno dato seguito a quanto sancito dall’art. 25 della legge 328/2000 di riforma dell’assistenza e dai decreti legislativi 109/1998 e 130/2000, aggravando in questo modo la situazione economica di migliaia di famiglie con persone anziane malate e non autosufficienti.

 

Ruolo delle Uvg

Anche su questo punto abbiamo espresso il nostro punto di vista. Al riguardo si propone che l’Uvg non svolga solo gli attuali compiti relativi all’accertamento della non autosufficienza, ma sia prevista come una struttura polivalente e flessibile in grado di sovrintendere a tutte le esigenze degli anziani malati cronici non autosufficienti e dei soggetti aventi condizioni di salute assimilabili.

Pertanto, presso ciascuna Asl  l’Uvg dovrebbe da un lato essere l’unico riferimento per  i cittadini non autosufficienti e dall’altro essere strutturata in modo da rispondere alle loro molteplici e mutevoli esigenze: cure domiciliari, attribuzione dell’assegno di cura (la cui erogazione potrebbe essere affidata ad altra struttura), accoglienza presso centri diurni dei malati di Alzheimer, deospedalizzazione protetta, ricoveri transitori e definitivi presso Rsa, ecc. In sostanza le Uvg dovrebbero essere l’unico punto di riferimento e per questo chiediamo l’accorpamento delle commissioni Uva, Unità valutative Alzheimer con le Uvg, al fine di evitare sprechi di risorse e di ridurre i disagi per gli utenti.

L’assegnazione ad una unica struttura di tutte le funzioni socio-sanitarie in materia di anziani cronici non autosufficienti e soggetti assimilabili consentirebbe la responsabilizzazione dei relativi dirigenti in merito alla destinazione delle risorse umane ed economiche e ai risultati raggiunti.

 

Le risorse

I casi di Alzheimer in Italia, attualmente circa 500 mila, sembra siano destinati a raddoppiare entro questo primo quarto di secolo (12). Per questo è urgente una piena presa di coscienza pubblica, perché finalmente anche in Italia sia aumentata la quota del Pil (Prodotto interno lordo) destinata al finanziamento del Servizio sanitario nazionale, che è tra i più bassi in Europa (13).

Si possono ridurre gli sprechi in sanità, ma non si può pensare di negare il diritto alla salute ai malati inguaribili come sono i malati di Alzheimer e delle altre sindromi correlate, nonché tutti gli anziani cronici non autosufficienti.

è insensato proporre riduzione delle tasse (o dell’Ici per i Comuni), perché la conseguenza immediata è sempre e solo a scapito della fascia più debole della popolazione.

Non accettiamo che si affermi che “mancano le risorse”, quando:

- l’evasione fiscale ha raggiunto la bellezza di 100 miliardi di euro annui;

- l’evasione contributiva è di 40 mila miliardi all’anno delle vecchie lire secondo una ricerca del Sindacato pensionati Cgil;

- continuano ad essere rilevanti le conseguenze anche economiche degli sprechi, come ha sottolineato a fine gennaio 2003 il Procuratore generale della Corte dei conti, Vincenzo Apicella, nella relazione predisposta in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario;

- lo Stato continua ad erogare contributi assistenziali anche a coloro che non ne hanno alcuna esigenza, ad esempio con l’integrazione al minimo delle pensioni, senza tenere conto dei patrimoni immobiliari e mobiliari in possesso dei cittadini beneficiari.

Per cui, così come si sono trovate le risorse necessarie per la realizzazione degli stadi per i mondiali e delle strutture per le Olimpiadi invernali del 2006 e per molte altre manifestazioni, analogamente si devono trovare i finanziamenti per curare i malati di Alzheimer e di altre forme di demenza.

Claudio Ciancio, Ordinario di filosofia teoretica presso l’Università del Piemonte orientale, nella prefazione al libro citato in precedenza I malati di Alzheimer. Dalla custodia alla cura osserva che «ci sono emergenze che non solo mettono a dura prova gli assetti organizzativi della nostra società, ma anche vanno a toccare i principi etici, giuridici e organizzativi che ne stanno alla base. Fra queste metterei non solo l’immigrazione extracomunitaria, ma anche (per quanto possa sorprendere) il diffondersi della demenza senile, una grave patologia che non è semplicemente riconducibile alle tradizionali categorie della follia e dell’handicap (…). La difesa dei diritti e della dignità di questi malati passa attraverso tutte le misure che consentono loro sia di essere riconosciuti e trattati come malati (e non di essere affidati alla discrezionalità e alla strutturale inadeguatezza dell’intervento assistenziale), sia di continuare a vivere, il più possibile, nel loro ambiente, in particolare attraverso le cure domiciliari e i centri diurni».

Ci uniamo all’appello di Ciancio con la speranza che, a partire da chi partecipa a questo convegno, sia possibile costruire alleanze con quanti, preso atto della gravità della malattia e dell’emergenza in cui vivono migliaia di famiglie, vogliono concretamente darci una mano per ottenere dal Parlamento, dal Governo e dalle Amministrazioni regionali e locali il riconoscimento, mediante le leggi e gli altri provvedimenti occorrenti, del diritto esigibile alle prestazioni sanitarie, qualunque sia il luogo della cura.

 

 

 

(1) Massimo Tabaton, del Dipartimento di neuroscienze dell’Università di Genova, intervenendo su la Repubblica del 30 agosto 2005 in merito al notevole aumento dell’incidenza di morte degli anziani per il caldo osservava che «si è parlato del fatto come un problema sociale, mentre è prevalentemente un problema medico, che deve essere affrontato e risolto sul piano scientifico. La morte delle persone anziane è causata dalle complicanze della loro malattia primaria, che si chiama malattia di Alzheimer. C’è ancora molta confusione in Italia sull’invecchiamento e la demenza. In realtà la malattia di Alzheimer è la caricatura dell’invecchiamento del cervello, che non è mai normale, ma sempre patologico, per cui al di là degli 85 anni il 50% dei soggetti ha un decadimento cognitivo, che corrisponde alla malattia di Alzheimer. Queste persone hanno quindi una malattia misconosciuta perché ritenuta la semplice espressione della vecchiaia. Le complicanze di questo stato sono la perdita dello stimolo della sete, con una disidratazione che ovviamente si acuisce con temperature costantemente elevate, e porta ad infezioni, turbe cardiache, e un disordine metabolico globale».

(2) Massimo Dogliotti, Ermanno Ferrario, Pietro Landra, Francesco Santanera, I malati di Alzheimer. Dalla custodia alla cura, Utet Libreria, Torino, 1999.

(3) In media la cifra richiesta si aggira sui 15-20 euro al giorno, a volte senza comprendere il trasporto e la mensa. Una somma che è insostenibile per i pensionati a basso reddito e per le situazioni monoreddito (moglie casalinga a carico del marito).

(4) I Comuni, purtroppo, non hanno neppure obblighi adeguati alle esigenze attuali nei confronti dei cittadini che, ai sensi del primo comma dell’articolo 38 della Costituzione, in quanto  inabili e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere, avrebbero diritto ad esigere l’assistenza dallo Stato. Nessun nuovo diritto esigibile è stato previsto, infatti, dalla legge n. 328/2000 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”. Per ottenere assistenza da parte dei Comuni che non intendono intervenire occorre ancora fare riferimento agli articoli 154 e 155 del regio decreto n. 773/1931 “Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza”, la cui unica prestazione prevista per i minori, i soggetti con handicap e gli anziani in gravi difficoltà socio-economiche, considerati “inabili al lavoro”, è il ricovero in istituto socio-assistenziale. Per approfondimenti cfr. l’articolo del giurista Massimo Dogliotti, “I minori, i soggetti con handicap, gli anziani in difficoltà… ‘pericolosi per l’ordine pubblico’ hanno ancora diritto ad essere assistiti dai Comuni”, Prospettive assistenziali, n. 135, 2001.

(5) Anche sulla base delle richieste avanzate dalle più importanti organizzazioni di volontariato piemontesi che operano nel settore socio-sanitario, la Giunta della Regione Piemonte ha approvato in data 20 dicembre 2004 la delibera n. 72-14420 “Percorso di continuità assistenziale per anziani ultrasessantacinquenni non autosufficienti o persone i cui bisogni sanitari e assistenziali siano assimilabili ad anziano non autosufficiente”. È un altro passo avanti in merito al riconoscimento effettivo del diritto alle cure sanitarie e socio-sanitarie degli anziani cronici non autosufficienti, dei malati di Alzheimer e delle persone colpite da altre forme di demenza senile. La delibera è estremamente importante in quanto riconosce il diritto degli anziani e delle altre persone colpite da patologie invalidanti e da non autosufficienza alle cure sanitarie e socio-sanitarie, stabilisce gli interventi occorrenti per l’attuazione del suddetto principio, conferma la validità delle cure domiciliari, ma non impone alcun obbligo ai congiunti dei malati, riconoscendo finalmente, anche se non in modo esplicito, che le cure devono essere garantite dal Servizio sanitario nazionale.

(6) Cfr. “Proposta di delibera sul volontariato intrafamiliare”, Prospettive assistenziali, n. 123, 1998 e “Seconda proposta di delibera sul volontariato intrafamiliare rivolto ai congiunti colpiti da malattie invalidanti e da non autosufficienza”, Ibidem, n. 124, 1998.

(7) Cfr. Mauro Perino, “Volontariato intrafamiliare: dalla sperimentazione alla regolamentazione definitiva”, Ibidem, n. 144, 2001.

(8) Si veda l’articolo 54, legge 289/2002, allegato 1C, prestazioni di integrazione socio-sanitaria.

(9) Il riferimento è alla deliberazione della Giunta regionale 30 marzo 2005 n. 17-15226 “Il nuovo modello integrato di assistenza residenziale socio-sanitaria a favore delle persone anziane non autosufficienti. Modifiche e integrazioni alla Dgr n. 51-11389 del 23 dicembre 2003 - “Dpcm 29 novembre 2001, Allegato l, Punto 1.C. Applicazione livelli essenziali di assistenza all’area dell’integrazione socio-sanitaria’”.

(10) La quota sanitaria è a totale carico del Servizio sanitario nazionale, mentre la retta alberghiera è dovuta dall’ultrasessantacinquenne non autosufficiente o dalla persona con handicap riconosciuta in situazione di gravità dalla competente commissione sulla base della propria situazione economica personale.

(11) Cfr. Maria Grazia Breda, “I livelli essenziali di assistenza sanitaria: i positivi risultati raggiunti dal volontariato dei diritti nella vertenza con la Regione Piemonte”, Prospettive assistenziali, n. 150, 2005.

(12) Nell’articolo “Un nuovo malato ogni sette secondi. Entro il 2020 il doppio dei colpiti. Una bomba a orologeria per cui l’Italia non è attrezzata”, pubblicato sul settimanale Vita del 21 luglio 2006, Gabriella Salvini Porro, Presidente della Federazione Alzheimer Italia, riferisce dei dati allarmanti di uno studio pubblicato su Lancet.

(13) Secondo il rapporto Ocse, pubblicato sul Sole 24 ore Sanità, n. 26, del 4-10 luglio 2006 «l’Italia spende in salute l’8,4% del Pil, meno della maggior parte dei Paesi più sviluppati dell’Ocse, a cominciare da Svizzera, Germania e Francia che sono arrivate a superare quota 10% del Pil, mentre gli Usa hanno raggiunto l’incredibile tetto del 15,3%».

 

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