Prospettive assistenziali, n. 157, gennaio - marzo 2007

 

 

Libri

 

 

 

Fulvio Aurora, erminia emprin gilardini (a cura di), Il diritto alla salute, Edizioni Punto Rosso (Via Pepe 14, 20159 Milano), 2006, pag. 360, euro 12,00.

Il libro ha lo scopo di definire un’alternativa in cui il diritto alla salute per tutti si coniughi con il diritto di ognuno ad essere preso in carico individualmente dal sistema sanitario nazionale. Occorre pertanto che il carattere pubblico del sistema sanitario garantisca le individualizzazioni delle prestazioni.

Per questo motivo viene proposto che la programmazione pubblica si intrecci con il controllo sociale sull’organizzazione sanitaria.

La gestione statale si dovrebbe, quindi, integrare con meccanismi di controllo che incorporino la partecipazione dei cittadini e che valorizzino le esperienze di autotutela presenti sul territorio.

Allo Stato succube del mercato viene contrapposta una sua socializzazione in grado di correggere i burocratismi del settore pubblico e di determinare il pieno rispetto dell’individuo nell’ambito delle iniziative di prevenzione, cura e riabilitazione.

Il volume, con una introduzione di Paolo Ferrero, comprende i seguenti capitoli: assistenza sanitaria o mercato sanitario?; diritto alla salute e sistema sanitario; la sanità pubblica fa bene alla salute; la casa della salute; le fondazioni: un pericolo per la sanità pubblica; farmaci e ticket: per una buona pratica clinica; uscire dall’emergenza infermieristica; l’esperienza consultoriale; la salute dei migranti; la salute in carcere; salute e diritti dei tossicodipendenti; Hiv/Aids: l’amore al tempo della peste; la salute dentaria; le medicine non convenzionali nella realtà italiana; salute e sicurezza sul lavoro; il ruolo della veterinaria pubblica; gli effetti sulla salute degli inceneritori e delle centrali termiche; l’amianto: un’emergenza sanitaria ambientale; gli effetti sulla salute dei campi elettromagnetici; il cibo dell’uomo; alimentazione e salute; educazione alla salute: una proposta per la scuola; integrazione socio-sanitaria e diritto alle cure; sistema socio-assistenziale: diritto all’assistenza e gestione pubblica dei servizi sociali e socio-sanitari; salute, assistenza e disabilità.

Nel volume di Fulvio Aurora e di Erminia Emprin Gilardini sono enunciati principi fortemente innovativi: un motivo valido per leggerlo e per una approfondita valutazione delle proposte avanzate.

 

ANTONIO fiori, Poveri, opere pie e assistenza: dall’Unità al fascismo, Edizioni Stadium, Roma, 2005, pag. 226, euro 22,50.

Il volume intende offrire un contributo alla storia dei poveri e dell’assistenza nell’Italia post unitaria.

Va tenuto presente che, come riconosce l’Autore, «i poveri sono stati almeno fino alla fine del Novecento in gran parte analfabeti e, quindi, non hanno lasciato documenti o testimonianze scritte. Anche per questo motivo la loro storia risulta difficile e in realtà le storie del pauperismo sono in generale ricostruzioni dell’atteggiamento delle autorità e della società nei loro confronti».

Due capitoli (“Mendicanti, oziosi e vagabondi nella legislazione italiana, 1859-1915” e “ Silvio Spaventa e le opere pie”) sono dedicati alla mentalità con la quale la classe dirigente del nostro Paese ha affrontato il problema dei mendicanti e dei vagabondi.

Negli Stati italiani preunitari la beneficenza ai poveri veniva erogata dalle opere pie, enti morali non necessariamente religiosi, con diversissime caratteristiche. L’Autore ha individuato ben venticinque tipologie, per esempio ospedali per gli infermi, ospizi di maternità, ricoveri di mendicità, monti di pegno, monti frumentari, ecc.

Nell’introduzione viene ricordato che la situazione delle opere pie nella metà dell’Ottocento è piena di ombre: a Napoli, per esempio, la Commissione d’inchiesta presieduta da Giuseppe Saredo (1902) aveva accertato che «quasi tutti i Comuni della Provincia […], quasi tutte le opere pie [erano] in balia di associazioni di delinquenti […]».

Da notare che nel 1900 esistevano «20.396 opere pie con un patrimonio lordo di oltre due miliardi di lire, oltre a 1.914 istituti misti di beneficenza e di credito (monti di pietà, monti frumentari, casse di prestanza agraria) e a 6.689 confraternite» e che «secondo i dati statistici dell’Annuario statistico italiano al 31 dicembre 1917 le istituzioni pubbliche di beneficenza erano 28.611 con un patrimonio complessivo che si avvicinava ai due miliardi e seicento milioni di lire».

Il testo unico di pubblica sicurezza del 30 giugno 1889 n. 6144, auspice Crispi, «introduceva la generale proibizione della mendacità e, quindi, anche l’abolizione del permesso di mendicare e dava precise norme per abolire quella piaga (…). Gli individui riconosciuti dall’autorità locale di pubblica sicurezza inabili a qualsiasi lavoro, privi di mezzi di sussistenza e di congiunti tenuti per legge alla somministrazione degli alimenti devono essere inviati a cura della stessa autorità in un ricovero di mendicità o in un altro istituto equivalente di un altro Comune. L’articolo 81 stabiliva pure a chi toccassero le spese per il mantenimento degli individui inabili al lavoro: in proporzione ai loro averi la congregazione di carità, le opere pie elemosiniere, le altre opere pie e le confraternite del rispettivo Comune di origine. Se mancava o era insufficiente il concorso di questi enti la spesa totale o parziale doveva essere a carico del Comune di origine; se anche il Comune non poteva provvedervi senza imporre nuovi o maggiori tributi, doveva essere a carico dello Stato».

In merito alle sopra riportate norme, è significativo il commento di Odoardo Luchini, uno dei sostenitori della politica sociale di Crispi, che scrisse quanto segue: «Di fronte agli stranieri ci faceva veramente e ci fa vergogna l’accattonaggio com’è in Italia. L’accattonaggio di mestiere è profondamente immorale e pernicioso nelle sue conseguenze. Ma la repressione legale non è legittima se ai veri poveri, inabili al lavoro, non si dia modo di vivere. Di qui le riforme della legge di pubblica sicurezza».

Tenuto conto che le disposizioni del testo di pubblica sicurezza del 1889, favorevolmente valutate da Luchini, sono sostanzialmente quelle previste dagli ancora vigenti articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931 “Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza”, è sperabile che l’attuale Parlamento «dia modo di vivere» agli inabili al lavoro, stabilendo finalmente diritti da essi esigibili.

 

GIAN FRANCO GENSINI, PAOLO RIZZINI, MARCO TRABUCCHI, FRANCESCA VASARA (a cura di), Rapporto Sanità 2005 - Invecchiamento della popolazione e servizi sanitari, Il Mulino, Bologna, 2005, pag. 584, euro 45,40.

Il volume raccoglie la documentazione della Fondazione Smith Kline relativa all’organizzazione dei servizi per le persone anziane.

Serie perplessità suscita il contributo di Marco Trabucchi sul tema “Alla ricerca di un pensiero forte nella cura della persona anziana”. Infatti, secondo l’Autore, «di fronte ad una spesa sanitaria in continuo aumento e ai rischi di drastici tagli che si profilano nel prossimo futuro, vi è la possibilità concreta che le aree più deboli subiscano riduzioni anche a causa della loro intrinseca povertà culturale».

Il problema vero è che, dall’emanazione del decreto Craxi dell’8 agosto 1985, molti medici hanno avanzato e alcuni avanzano tuttora pretesti per sostenere la non competenza del Servizio sanitario in merito alle persone affette da patologie croniche: gli anziani non autosufficienti non sarebbero persone malate da curare, ma abbisognerebbero soprattutto di assistenza e di baldanza; competerebbero ai congiunti le prestazioni per i vecchi inguaribili; gli ospedali e le case di cura private convenzionate agirebbero correttamente dimettendo gli individui colpiti da patologie invalidanti terminata la fase acuta anche perché il Servizio sanitario non sarebbe obbligato ad assicurare la prosecuzione delle prestazioni; gli interventi per le persone con de­menza senile sarebbero di competenza dei Comuni.

In realtà la questione fondamentale non è la mancanza di risorse, ma la necessità che i medici, gli amministratori pubblici ed i politici si decidano finalmente a riconoscere che le persone affette da patologie inguaribili o da loro esiti sono degli individui malati che, in base alle leggi vigenti, hanno il diritto esigibile non solo alle cure sanitarie durante lo stadio acuto, ma anche a quelle socio-sanitarie domiciliari, semiresidenziali e residenziali durante la fase cronica.

Proprio a seguito di questo mancato riconoscimento sono dovute le disastrose condizioni di vita dei vecchi malati inguaribili e dei loro congiunti.

Purtroppo nel volume in oggetto non c’è né il riconoscimento esplicito della loro condizione di malati aventi diritto alle cure sanitarie o socio-sanitarie senza alcuna interruzione e senza limiti di durata, né la precisazione che le leggi vigenti garantiscono pienamente detto diritto.

A questo riguardo è sconcertante che Anna Banchero, Dirigente della programmazione dei servizi sociali e socio-sanitari della Regione Liguria, a proposito dei Lea (Livelli essenziali di assistenza) previsti dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 novembre 2001 e resi esecutivi dall’articolo 54 delle legge 289/2002, sostenga che «quanto è sancito sul piano normativo non rappresenta comunque “la certezza assoluta del diritto”», nonostante che le sopra citate norme stabiliscano dei veri e propri diritti esigibili.

È altresì estremamente allarmante un’altra affermazione della stessa Banchero secondo cui «l’Italia è uno degli Stati europei ad alto invecchiamento che non ha adottato alcuna misura per la non autosufficienza», affermazione sconfessata nello stesso libro da Carlo Hanau e Franco Jurlando che ricordano la legge 692 del 1955.

Orbene, in base alla suddetta legge, ai pensionati del settore privato ed ai loro congiunti conviventi di qualsiasi età era stato riconosciuto il diritto alle cure sanitarie gratuite e senza limiti di durata, comprese quelle ospedaliere.

Detto diritto, confermato da tutte le leggi successive, in particolare le n. 132/1968, 386/1974 e 833/1978, è stato confermato dal sopra citato articolo 54 della legge 289/2002 che ha posto a carico del solo ricoverato (e non dei suoi congiunti, compresi quelli conviventi) il pagamento della quota alberghiera di ricovero presso le Rsa (Residenze sanitarie assistenziali) nei limiti delle sue personali risorse economiche.

Pertanto non c’è alcun bisogno di un “pensiero forte”: è sufficiente che anche i medici, gli amministratori ed i politici rispettino i diritti degli utenti non autosufficienti ed attuino le leggi relative.

 

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