Prospettive assistenziali, n. 157, gennaio - marzo 2007

 

 

La cura del paziente affetto da demenza nella senilità

Luigi Pernigotti *

 

 

Il declino del demente senile si articola intorno alla progressiva incapacità di ricondurre l’esistenza ai riferimenti del tempo, del proprio corpo, dello spazio. La casa si rapporta a tutti e tre questi elementi strutturali dell’attività di pensiero dell’individuo. Obiettivo di questa relazione è l’analisi dei rapporti che esistono, si modificano, ancora possono esistere tra il malato affetto da demenza e la casa. Si prova a definire se e come il medico debba organizzare il rapporto paziente-casa nei diversi individui e nelle modificazioni che intervengono durante il lungo declino.

 

 

La casa: luogo di cura più lungo dei malati di demenza

La maggior parte dei giorni di malattia della quasi totalità delle persone affette da demenza viene trascorsa a casa sia nei casi più rari in cui l’inizio dei sintomi giunge precocemente, in età presenile, ad interrompere drammaticamente il corso finale della vita lavorativa, sia nei casi più frequenti, in cui l’insorgenza è senile e si accompagna al correre delle modificazioni funzionali del soma, alla evoluzione di altre malattie croniche, alla ricollocazione sociale che caratterizzano l’esistere del vecchio.

Ne consegue che diventa importante e prioritario interrogarsi sulla necessità di considerare se nella gestione del paziente demente possa avere importanza, dal lato medico, orientare gli interventi tenendo in conto il significato, le limitazioni, gli apporti, la modificazione terapeutica dell’ambiente domestico.

Nella comprensione dei binomi casa-paziente e vecchio-demenza è importante riflettere su alcuni aspetti clinico-epidemiologici; il tempo più lungo della maggior parte dei dementi è trascorso a casa, ciò è vero in generale, ma nella considerazione dei grandi vecchi può esistere un percorso di malattia differente. Per molti di essi la demenza non viene vissuta mai a casa, essa esplode con la perdita della casa.

 

Il significato di casa

Il concetto di casa costituisce una coordinata attorno alla quale si dipingono i fatti del vissuto di ogni individuo. I movimenti di ognuno partono dalla casa, ritornano alla casa: l’interiorizzazione del concetto di casa comporta che essa si integri come valenza fondamentale dell’esistere senza la quale, o senza la sua immaginazione, l’io si disintegra.

In una indagine condotta sulle case di riposo del Piemonte orientale, alcuni anni fa, si sono individuate molte persone incapaci di riferire il proprio nome: alcune non vi erano state ospitate perché dementi, ma in quanto prive delle capacità di gestire una casa propria per povertà economica, affettiva o di forze fisiche sufficienti a continuare il governo autonomo di un ambiente domestico.

La perdita della casa aveva funzionato come meccanismo disintegrativo, come causa di una esplosione delle facoltà cognitive, come caos, forse anche come difesa contro la fine della vita.

Ognuno di noi può rivestire interesse differente nella casa; per ognuno essa si coniuga differentemente con gli altri elementi che condizionano la realizzazione dell’individuo; tuttavia, comunemente, ancora nell’anziano, il significato, anche inconscio, che le si attribuisce è che essa sia una determinante della possibilità di far funzionare il pensiero.

 

Limitazioni della casa

Vivere la casa smuove il pensiero, consuma energia; vivere a casa comporta consumo di risorse, fisiche ed economiche, affatica e, quando non esistano supporti sociali, impoverisce, o può essere immaginato come causa di impoverimento.

Di fronte alle perdite dell’efficienza il corpo del vec­chio diventa sempre più un peso, qualcosa che altri devono curare, un fardello da trasportare; invaso dalle malattie è osservato e vissuto passiva­mente.

A questo processo psicologico di reificazione del corpo si può associare un parallelo processo di materializzazione della casa immaginata non più come spazio animato ed animante, ma come fisicità costosa che consuma energie, che determina stress ed ansia.

Questa caratterizzazione psicologica del pensare alla casa è relativa alla gravità delle perdite del soma o alla difficoltà di agibilità dell’ambiente domestico, alla presenza di barriere, quando siano presenti disabilità. La povertà di relazioni di aiuto, l’emarginazione, una società povera di solidarietà sono elementi che fortemente contribuiscono ad una visione di casa limitante.

La consapevolezza dei problemi del vivere nella casa sfugge alla persona affetta da demenza globale, o forse inconsciamente anche in essa può realizzarsi; è talora presente nelle fasi iniziali del corso della malattia quando spesso il dramma della perdita di intelligenza viene apprezzato come aspetto somatico; è invece frequentemente caratteristica di chi nella stessa casa accompagna la vita del malato affetto da demenza e che con lui diviene un tutt’uno in una unità di famiglia che si sostituisce all’individuo nei rapporti con il mondo, con il medico.

 

Gli apporti

L’aver casa indica la collocazione di un individuo nella società. Abitare in casa si contrappone ad essere ricoverato in istituto: già la declinazione attiva o passiva del verbo esprime la connotazione di un attributo attivo o passivo alla collocazione del vec­chio che mantiene la propria casa e di quello che invece si ritira dalla comunità nel recinto della istituzione. La casa, riuscire ad aver casa, comporta eman­cipazione nella giovinezza, colorisce il pensiero del vecchio che la mantiene con attributi di indipendenza, competenza, appartenenza, potenza, attività.

In istituto, nel ricovero, grava il rischio di uno spostamento di queste caratteristiche del comportamento psicologico verso la dipendenza, la separazione, l’incompetenza, l’impotenza, la passività. Ed inoltre introversione anziché estroversione, immobilità anziché mobilità sono attributi che definiscono la scelta o l’imposizione di chi abbandona la casa.

Questi comportamenti psicologici si coniugano con connotati del soma, con lo sviluppo della sindrome da immobilizzazione, la cui lotta è il fulcro del fare del geriatra. Questi elementi psicologici possono in parte apparire strutturali della personalità ma, per quanto interessa il medico, hanno più spesso connotazione di condizionamento ambientale: sono la risposta adattativa ad atmosfere di inutilità che l’anziano respira in contesti sociali in cui la realtà di vecchio, ed ancor più di vecchio cronicamente malato, deve essere rimossa dall’immaginario collettivo.

Quando l’idea della casa, nella società, è coniugata alla immagine di potenzialità, di forza e di integrità, in quella società il vecchio, ancor più quando si ammala cronicamente, è disturbante, non si può abbandonarlo perché è politicamente scorretto, quindi si allontana introducendolo nel limbo delle istituzioni.

Il prioritario apporto alla salute del vecchio è il mantenergli il posto nella società, quindi un posto a casa. Tuttavia sorge, agghiacciante, la domanda se nel demente, o per la salute del demente abbiano senso queste argomentazioni.

Al medico che ha di fronte un individuo che perde il pensiero e la possibilità di sapere possono essere utili queste riflessioni? Da esse possono conseguire comportamenti che servano per contrastare la perdita intellettiva, per sanare la condizione di malattia?

Le risposte non possono essere totalitarie, ma devono limitarsi, per il medico, a valutazioni parziali, settoriali di ogni elemento positivo o negativo.

La globalità della risposta comporterebbe una definizione di quanto valga la pena mantenere l’esistenza del malato affetto da demenza, o di fino a che punto sia consentito farlo sopravvivere. Questo è l’aspetto etico della domanda che la rende agghiacciante, di fronte al quale incombe il rischio dell’immobilismo del medico. Per superarlo, affrontando parzialmente i contenuti della domanda, la prima risposta comporta la necessità di distinguere il soggetto demente in relazione alle sue fasi di alterazioni cognitive ed emozionali. Successivamente si considererà la dimensione esistenziale, che travalica l’individualità corporea e della residualità intellettiva e si definisce nella pluralità del malato con i suoi prossimi. Infine il trinomio demente-casa-comportamento, la terminalità.

 

Gli apporti della casa nelle diverse fasi della malattia

Considerando l’individuo affetto da Alzheimer, non è insolito che esso giunga a vivere con i sintomi della malattia un quinto della sua esistenza. In questo lunghissimo corso temporale la destrutturazione della persona avviene per gradi lasciando per molto tempo liberi da intaccamenti le parti che funzionano per relazionarsi, pur con progressiva limitazione, con l’ambiente.

La capacità di sapere, l’apprendere che ne è alla base può perdere ampiezza, ma per alcuni versi permane per tempi lunghi in cui il fare del medico, non solo del farmacologo, può sortire in effetti utili per il benessere. Pur lasciando ingiudicato l’effetto del vivere a casa, o con una casa, sulla intelligenza che convenzionalmente tendiamo a rinchiudere nelle cosiddette capacità cognitive, il poter continuare ad usufruire dell’ambiente domestico produce effetti positivi sicuri su quella parte di capacità che permette il muoversi in uno spazio che, almeno per gli altri, è considerato uno spazio della salute.

Usare il proprio letto, lo stare alla tavola famigliare, l’utilizzare più o meno aiutato gli strumenti del vivere quotidiano che hanno una storia personale, è in ultima analisi espressione di libertà, ovvero di uno dei massimi, più desiderati prodotti della esistenza psichica di un individuo.

I rapporti tra demenza e cultura non sono chiari, difficili da misurare sul piano della patogenesi, esistono dati sul piano dell’analisi dei fattori di rischio e della descrizione della evoluzione clinica.

Il fattore casa può essere assimilato al fattore cultura, ed in effetti la casa è cultura. Così come negli acculturati il declino demenziale, quando debba avvenire, assume un corso ritardato, è possibile ipotizzare che chi ha casa, chi vive la casa, possa di­sporre di una protezione di fronte al correre dell’insorgere e dello svilupparsi della demenza, forse non in generale, nella comprensione comune di malattie ad insorgenza precoce e di quelle tardive, ma in particolare nel caso della demenza della senilità.

Dal punto di vista di quanto appare nella clinica geriatrica, il continuare a vivere in una propria casa è elemento di minore suscettibilità a manifestare i sintomi della demenza che accadono nella senilità e quando questi insorgono diviene elemento di supporto per compensarli.

Nelle fasi conclamate della malattia gli stimoli della casa lasciano liberi da contratture; infine, fan sì che si sia più facili da maneggiare nelle relazioni di aiuto.

Possiamo ancora considerare questi eventi come capacità o espressioni residuali di intelligenza motoria. Può essere aperta la discussione se e sino a che punto il mantenimento degli schemi corporei possa essere distaccato dall’intaccamento delle capacità di sviluppare e mantenere il sapere cosiddetto cognitivo, la memoria dei nomi, la lettura, il calcolo, l’astrazione, il giudizio critico.

Quanto la casa possa mantenere la psicomotricità come intelligenza, o quanto possa risultare più semplicemente stimolo a compensi alla perdita di intelligenza, anche motoria, non deve interessare più di tanto al geriatra: quale che siano le dinamiche, di fatto la casa intesa come avere una propria casa, uscire di casa e ritornarci, migliora l’efficienza delle relazioni corporee.

Quando il declino cognitivo è tale da non permettere più di dare un senso alle situazioni e alle relazioni, quando il paziente va a pezzi, e l’obiettivo della cura diviene il contenerlo, ossia tenerlo insieme, l’atto terapeutico si costituisce nel mettere in atto, tra gli stimoli spaziali e la sensazione, elementi che permettano di elaborare la sensazione come percezione buona, rassicurante, di protezione.

Questi elementi costituiscono il clima relazionale, l’atmosfera in cui si respira la sensazione, il sapore dello spazio circostante, il suo colore affettivo.

Quando il paziente giunge al punto in cui è solo più in grado di carpire il clima degli atti relazionali, e non i contenuti, quando residua solo più la capacità di acquisire una sorta di sapere affettivo, e solo più questo pilota le sue emozioni e le sue ansie, allora la casa, pur non riconosciuta, lo addolcisce, i muri non sono più i suoi ma sono ugualmente ospitali come i suoi.

 

Gli apporti della casa al caregiver

La cura del demente è varia, modulata sui sintomi e sul comportamento suo e di chi gli sta accanto, assumendosi il compito di farlo sopravvivere. Accade spesso che la cura delle malattie e la ricerca del benessere di quest’ultimo divengano l’obiet­tivo principale del medico che ha in cura un de­mente.

Il soggetto che guida il demente è, spesso, anch’egli un anziano, con un fardello di malattie rischiosamente aggravabili dallo stress dell’impegno di caregiver.

Le caratteristiche di questo ruolo comprendono: 1) assistenza diretta al malato (sorveglianza, aiuto nelle funzioni basali) e indiretta (pulizia della casa, preparazione dei pasti); 2) preoccupazione per la responsabilità organizzativa dell’assistenza; 3) mediazione nelle relazioni con gli altri membri della famiglia e con la vita sociale del malato; 4) collaborazione nel mantenere i contatti con i supporti sanitari formali.

Assumendo questi carichi il caregiver è obbligato a riorganizzare le altre sue funzioni familiari e sociali. La prevalenza delle relazioni di aiuto sono gestite da donne di età di mezzo ed anche, non di rado, più anziane: coniuge del paziente, figlia, nuora, amica. Sono figure non deboli ma suscettibili ad indebolirsi di fronte ai molti ruoli che devono affrontare.

L’analisi del peso della cura familiare al demente comporta la definizione di aspetti molteplici, soggettivi ed oggettivi. Il desiderio di curare può risalire ad un sentimento di gratitudine, la cura, però, si può porre in conflitto con le esigenze di realizzazione della personalità, sia in ambito familiare (la moglie che per curare il marito non può essere compiutamente nonna) che extrafamiliare (la figlia che per assistere i genitori deve rinunciare alle prospettive carrieristiche). Il conflitto si accentua di fronte al progressivo convincimento che la situazione del malato è irreversibilmente progressiva e ai dubbi sull’utilità della sua sopravvivenza. Questi aspetti soggettivi del carico si sviluppano in una costante interazione tra personalità del caregiver e disabilità ingravescente del malato. Aspetti oggettivi riguardanti l’entità delle modificazioni, a cui va incontro la vita del caregiver, condizionano sia il precipitare della sua salute fisica e psichica sia l’esaurimento economico conseguente ai costi e ai mancati redditi. Le molteplici componenti del carico assistenziale stimolano capacità reattive che permettono di sostenere il peso; quando ciò non avviene si altera la omeostasi e si instaura una situazione genericamente definibile di stress.

Gli elementi di questa condizione sono diversi e spesso complessi: affaticamento e malattia di donne anziane che assistono il marito o la sorella; uno stato depressivo indotto dalla schiacciante impotenza nei confronti della sofferenza del malato verso il quale si prova affetto e si hanno obblighi di gratitudine, il disadattamento reattivo al crollo economico. La casa, con i percorsi di uscita e di ritorno perpetuati sino a fiaccare il vagabondaggio, è lo spazio in cui si costruiscono le maggiori fatiche dei caregiver, il mantenere o il voler mantenere a casa il demente è la condizione che carica di peso il caregiver.

La dinamica demenza-casa-fatica può apparentemente presentare la casa come fattore limitante il benessere dei prossimi del demente. Tuttavia demente e caregiver diventano una unica individualità e il ricovero, quando non sia vissuto come esperienza per un temporaneo sollievo dalla fatica, assume la connotazione di perdita.

Molto spesso non è la fatica a rendere stressante il ruolo di caregiver, ma la consapevolezza della perdita della personalità del demente, della rappresentatività di un suo ruolo (che serviva al caregiver per confrontarsi, sostenersi e realizzarsi).

Vederlo in casa, spesso surroga l’esistenza del ruolo perduto con la demenza. Talora queste dinamiche affondano in motivazioni profonde, talora in sensi di colpa, ma spesso sono sostenute dal ricrearsi di nuove relazioni, mediate dalla manualità nelle manovre di cura del corpo, nell’imboccare, nel vestire.

Si costruiscono nuovi rapporti pieni di affetto, soddisfacenti per superare il vuoto di una vitalità senza ruolo di esistenza, per accettare l’inesistenza, per non entrare in quel lutto che spesso inizia alla prima conoscenza della diagnosi, e che diviene profondamente più doloroso nel momento in cui il caregiver vede il suo demente che abbandona la casa.

 

Gli apporti della casa per contenere le deviazioni di comportamento e affrontare la terminalità

Di fronte al procedere di variazioni comportamentali e in risposta al dispiegarsi di corrispondenti variazioni nei bisogni del paziente e dei suoi prossimi, un atteggiamento utile è quello di considerare l’ambiente come spazio vissuto, spazialità animata di «prossimità e di istanze ignote alla geometria, perché misurate dalla forza del desiderio».

I disturbi delle idee da cui nascono le alterazioni comportamentali interessano in quanto sono l’espressione di chi è il malato, di come è nel mondo, non in quanto anormalità dal punto di vista biologico o psicopatologico.

Allo stesso modo in cui di fronte alla mania, alla schizofrenia, all’ansia, alla depressione si possono riconoscere modificazioni qualitative della percezione di tempo e di spazio e da queste alterate percezioni si può cercare di individuare una norma intrinseca che modera e governa forma e stili del rapportarsi di quell’organismo alienato con l’ambiente, si può tentare di capire come la demenza si rapporta con la sua presenza nel mondo (nel mondo particolare di quella persona che vive, si esprime, esiste, è uomo, ha diritti in quanto demente).

Accorgersi che uno spazio tende ad essere troppo piccolo per il maniaco, il quale si muove per occupare, saltando, tutti gli spazi, cercandone nuovi (due righe riempiono il foglio, il gesticolare riempie la stanza), accorgersi che l’ambiente è una semplice occasione per ritornare a scenari passati per il depresso (dove spazio e tempo, presente e futuro, subiscono una contrazione con avvicinamento di tutti i punti di vita segnati come momenti di perdita), accorgersi che per lo schizofrenico si aboliscono i confini tra il corpo e lo spazio esterno che il corpo delimita, per cui parti del proprio corpo si confondono, smarrito ogni limite e confine, con parti di corpi estranei, contrassegnando l’esperienza allucinatoria, accorgersi che l’ideazione nel demente si interrompe, spazi e tempi del passato assumono l’attualità dentro alla quale si sposta e si misura.

Individuando le qualità delle alienazioni possono essere capite le regole che impongono i comportamenti deviati, si può tentare di individuare il “mondo” del demente, inteso non solo come luogo che lo ospita, ma anche e soprattutto termine in cui proietta le sue intenzioni e la sua progettualità.

Continuare ad appartenere alla casa evita una separazione negativa. Curarsi fuori dalla casa, nell’ospedale come nell’istituto, può essere una esperienza vissuta come opportunità di crescita, riempita di senso positivo sin tanto che esistono le capacità di comprendere il significato di ricerca di un luogo dove stare meglio.

Quando queste capacità sono perse, la separazione dall’appartenenza alla casa ripete l’esperienza angosciante del bambino strappato alla mamma. La sindrome confusionale all’ingresso in ospedale, la prostrazione totale, e talora la morte, nei primi giorni o mesi dopo l’istituzionalizzazione, possono essere effetti di una patologia ambientale che si sovrappone alla malattia organica.

Quando nelle decisioni terapeutiche per il demente si pone attenzione a considerare l’ambiente come spazio vitale, ricercando una spazialità terapeutica, concependo l’ambiente come organizzazione dello spazio fisico in cui si articolano le funzioni della vita quotidiana si finisce sempre di individuare nella casa il luogo di cura ottimale.

Il concetto di ambiente come spazio vitale si identifica nella disponibilità a poter godere dei diritti al movimento, alla comunicazione residua, all’usare i servizi, ad aderire emotivamente al circostante: lo sviluppo di questi diritti non riguarda solo la fisicità dell’ambiente, ma anche il significato affettivo che i luoghi di vita assumono. Esiste eterogeneità nelle dinamiche comportamentali del malato demente, sia in rapporto alla evoluzione della malattia che alle caratteristiche personologiche. Queste ultime, a pari grado di evoluzione della malattia, possono condizionare gravità differenti di disturbi comportamentali (il vagabondaggio negli estroversi, il mutacismo negli introversi).

Ne deriva che il principio generale dell’organizzazione dello spazio per il malato demente è la possibilità di adeguamento alle variabili espressività modificando terapeuticamente la casa. Le complicanze della demenza associate ai sintomi psicopatologici e comportamentali rendono la persona critica. Cascate di compromissioni multiorganiche possono svilupparsi in modi infiniti partendo dall’esteso ventaglio sintomatologico: dall’anoressia, dalla caduta, dalla paralisi, dall’insonnia, dalla convulsione, dalle ferite e dai traumi di prassie bizzarre, afinalistiche e autolesionanti, dalla disfagia.

La sofferenza neuropsicologica finale, l’agonia o la morte improvvisa giungono intervallate da giorni e lunghi mesi, dall’insorgere dell’evento complicante. La situazione assume spesso i connotati di un criticismo cronico, non diverso da quello delle vite vegetative mantenute dalle rianimazioni nei casi dei comi stabilizzati.

La casa, contrariamente al ricovero ospedaliero, alla rianimazione, offre l‘unica possibilità vitale, quella di coltivare la morte, costruendo per i prossimi il supporto per elaborare positivamente il lutto, evitando l’abbandono ospedaliero. Questo si svi­luppa attraverso il disinteresse al caso che non sopravviverà, o in senso opposto attraverso una deviazione dell’interesse, dal corpo animato (con l’anima) al corpo meccanico, nelle applicazioni di interventi magari ricchi di intensività formale, ma non intensi nelle riflessioni del prendersi cura. Nella casa queste riflessioni non possono essere non affrontate e cresce la dignità della fase terminale e della morte.

 

La modificazione terapeutica dalla casa

La casa quanto più è considerata dalla collettività, e quindi nelle politiche sociali e sanitarie, come cultura, come prodotto di una organizzazione della società, e quindi come tale viene protetta e supportata, tanto più può assumere una valenza terapeutica e corroborare piuttosto che limitare la salute del demente e dei suoi prossimi in tutte le fasi esistenziali. Ciò significa adeguamento dei servizi, perché possano favorirla. Adeguamento significa costruzione di nuove strutture organizzative che operino nella casa, ma anche costruzione di obiettivi che facilitino la massima utilizzazione della casa da parte dei servizi che operano fuori dalla casa, ad esempio l’ospedale.

La facilitazione dei percorsi di accesso e di dimissione dall’ospedale, ma anche la riflessione sulla reale utilità di percorsi diagnostici non effettuabili che con il ricovero e la loro conseguente limitazione, l’evoluzione tecnologica volta alla semplificazione delle metodiche diagnostiche e terapeutiche, perché non debbano richiedere il ricovero ospedaliero, sono meccanismi di adeguamento di servizi per sfruttare la valenza terapeutica della casa. Talora si tratta di assumere metodi innovativi di comportamento: l’affidamento delle decisioni a chi è preparato ad una visione globale dell’esistenza del demente, piuttosto che a chi è il miglior terapeuta di una sua parte malata, porta alla costruzione di un giudizio che favorisce la casa. Ne sono esempio alcune decisioni di precoci dimissioni ospedaliere, globalmente meno rischiose di una continuazione del ricovero per diminuire il rischio di non far guarire bene la parte malata.

L’ortogeriatria, la competenza di ricovero in geriatria nel caso di infarto miocardico o di aritmie del demente sono organizzazioni che esprimono come si possa adeguare i servizi ospedalieri per favorire la valenza terapeutica della casa.

Lo sviluppo nel territorio dell’Unità di valutazione geriatrica è un altro elemento per modificare terapeuticamente la casa. Questa può diventare la sede organizzativa ove prendano corpo, elaborando, talora inventando piani di intervento adeguati, le strategie di mantenere la cura a casa per il massimo tempo possibile.

Bloccare una istituzionalizzazione con un ricovero ospedaliero o residenziale temporaneo per il sollievo del caregiver è spesso premiante per la salute del demente, dei suoi familiari e per l’economia sanitaria.

Ma ancor prima che da programmi di intervento formali (assistenziali domestici o semiresidenziali), il sostegno del setting di cura domiciliare, attualmente più frequente e più vantaggioso di quanto non sia svelato, ma problematico (per il carico di lavoro parentale), ha possibilità di svilupparsi solo in relazione al riconoscimento, non teorico, ma pratico, della dignità della malattia.

La realizzazione di questo diritto richiede edu­cazione. Educazione come insegnamento di quan-to possa essere crescita civile riconoscere l’uti-
lità che un malato più, e per più tempo, possa godere del pieno rispetto della sua dignità, vivendo a casa.

Quanto questo insegnamento sia necessario agli operatori della sanità si può derivare dai risultati di una inchiesta, condotta tra i medici e gli infermieri delle corsie ospedaliere del Piemonte, sulle opinioni del personale sanitario in merito alla frequenza di ricovero, ospedaliero o residenziale, del malato affetto da demenza. Numerosi intervistati indica­vano la convinzione che la maggior parte dei malati dementi sia assistita in ospedale o in residenza, solo i medici di preparazione geriatrica hanno risposto che la maggior parte dei malati è assistita, come realmente avviene, a casa da parte dei familiari. Su 107 operatori, 57 medici e 50 infermieri, il 58,9% ritiene che i familiari richiedano “molto spesso o sempre” di ricoverare i loro congiunti o non hanno opinione sul problema, il 37,4% “a volte”; solo un esiguo numero, il 3,7% ritiene rara questa eve­nienza.

Si osserva che l’opinione non è univoca nell’intero gruppo degli intervistati ed anche differisce in relazione al tipo di formazione: le opinioni dei medici geriatri differiscono da quelle degli altri medici e degli infermieri e risultano più attinenti a quella che è la realtà di cura.

In ultima analisi, la concezione terapeutica della casa parte dalla costruzione di una coscienza civile, che si sviluppa operativamente in richieste di politiche della casa, della città, dei mezzi di trasporto, di facilitazioni sociali a chi assiste i dementi in famiglia, si arricchisce di valenze ulteriori nella solidarietà sviluppata attraverso il volontariato di denuncia e proposizione, si completa nell’attività del volontariato di supporto assistenziale alla famiglia e agli interventi sanitari domiciliari.

Già anni fa l’esperienza di ospedalizzazione a domicilio aveva dimostrato la percorribilità di interventi alternativi al ricovero e i contenuti necessari che il territorio deve sviluppare per facilitare la domiciliarità. La cura con l’utilizzazione di approccio diagnostico, clicnico e strumentale, di solito riservato al trattamento ospedaliero, ma reso semplice per portarlo al domicilio, ha fatto affrontare gravi malnutrizioni, polmoniti severe, complicanze delle piaghe da decubito, scompensi cardiaci acuti. Nel contempo l’educazione al familiare, il prendersi cura delle loro malattie non solo psicologiche, ma fisiche, aggravate dal carico di lavoro di caregiver ha aggiunto utilità alla efficacia delle cure al demente.

L’accoglimento di problematiche di ridefinizione dei ruoli familiari, di convivenza con il sentimento di perdita, del senso di impotenza conseguente agli insuccessi, delle ferite provocate dall’aggressività del congiunto permette di rielaborare le strategie di intervento familiare, suggerisce e rafforza l’ot­tenimento di pensioni, ausili, presidi; aiuta nella
risistemazione della casa e degli arredi secondo
una concezione di utilità ambientale. La poliedri-
cità della casa e della sintomatologia del demente comporta un continuo adeguamento dei medici, come di ogni altro operatore per costruire nei
rapporti medico-paziente-casa le relazioni di aiuto più utili.

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·          Direttore del Dipartimento di geriatria dell’Asl 2, Torino.

 

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