Prospettive assistenziali, n. 157, gennaio - marzo 2007

 

 

IL RUOLO DEGLI OPERATORI DEI SERVIZI SOCIO-ASSISTENZIALI

MAURO PERINO (*)

 

 

 

Premessa

Da tempo la rivista Animazione sociale ha avviato un percorso di riflessione sui servizi sociali che è approdato, nel 2005, ai tre convegni nazionali “Re/immaginare il lavoro sociale”. Dal dibattito che si è svolto in tali sedi «è emerso – secondo quanto affermato nella nota editoriale con la quale si apre il numero di agosto/settembre 2006 della rivista – il desiderio degli operatori di trovare nuovi linguaggi, nuove parole per riformulare la propria funzione sociale, la propria identità personale e professionale, il proprio modo di leggere il mondo in cui viviamo e per poter proporre per questo mondo – e non per quello sognato e idealizzato – una possibile strada per tutelare i diritti di cittadinanza» (1).

L’esigenza di definire un “lessico dell’azione sociale” comune è sicuramente sentita tra gli operatori. Ma la “sindrome da assedio” (2) che – secondo Franca Olivetti Manoukian – caratterizza i servizi sociali in questa fase, può giocare brutti scherzi. Può cioè condurre a teorizzare che il mandato dei servizi sia semplicemente quello di mettere in relazione l’utenza – indifferenziata in quanto potenzialmente coincidente con il complesso delle “persone in difficoltà” – con un contesto territoriale che dovrebbe essere in grado di progettare e produrre autonomamente le necessarie risposte ai problemi. Agli operatori verrebbe dunque richiesto di superare la logica della “presa in carico” e della “erogazione del servizio” – ovvero di assicurare alle persone a rischio di emarginazione le prestazioni materiali occorrenti per il superamento delle condizioni di disagio – per assumere come prioritaria (se non come esclusiva) la dimensione della relazione e dell’ascolto finalizzato all’accompagnamento della persona/utente verso una comunità locale responsabilizzata nella gestione dei servizi.

Sono queste – in sintesi – le conclusioni alle quali arrivano gli estensori dell’articolo “Una scommessa sul welfare di prossimità” (3) – pubblicato nel sopra citato numero di Animazione sociale – che descrive l’esperienza di costruzione dei “Poli di servizi sociali territoriali” da parte del Comune di Reggio Emilia. Una riorganizzazione finalizzata all’esigenza dell’Amministrazione di assumere le disposizioni della legge quadro 328/2000 che richiederebbero di superare un impianto dei servizi storicamente orientato alla «presa in carico del caso» ed alla logica della «erogazione del servizio» per perseguire efficacemente il condivisibile obiettivo di «garantire un disegno unitario all’intervento sociale che, senza negare la specificità dei problemi che ogni cittadino può portare, mantenga una visione di insieme e una capacità di connettere risorse, e che, mentre garantisce la presenza sul territorio, sappia produrre forti livelli di integrazione con tutti i servizi e le risorse informali» (4).

 

Il territorio e la famiglia come risolutori dei problemi

Le sfide che i servizi devono cogliere sarebbero dunque rappresentate dall’esigenza di «intervenire in una società pervasa dall’idea di crisi», di «tornare dentro la vita del quartiere e delle persone» e di «tradurre in pratiche il mandato della giustizia so­ciale».

Secondo gli autori, l’appartenenza ad un sistema che richiama fortemente l’individuo come promotore e fautore della propria realizzazione ha prodotto una diffusa incapacità di investire nei legami sociali come risorsa per fronteggiare le inevitabili crisi e difficoltà. Si riscontra così una «delega e un’attesa alla risoluzione specialistica dei problemi sociali, rivolta ai servizi» e «un indebolimento e talvolta una scomparsa delle responsabilità di ciò che accade». La crisi del modello di famiglia, la precarietà del posto di lavoro, l’introduzione di modelli culturali differenti, la riduzione del sentimento identitario e della condivisione di valori «sono sintomi o forse cause di una società pervasa dall’idea di crisi». Accade così che «i servizi siano chiamati a intervenire in relazione a problemi (…) che attraversano un’area del disagio sempre più invisibile ma sempre più estesa e che non riguarda solo determinate categorie sociali».

In questa cornice il ruolo dei servizi è di «mettere al centro le persone (…) e  investire laddove esse vivono e lavorano, per provare a riagganciare i fili invisibili della solidarietà», di costruire legami solidali «come strada oggi possibile per stare nella complessità dei sistemi (familiari, sociali, relazionali)»; di «mettere al centro territorio e famiglia come due dimensioni che riconnettono le appartenenze e le identità all’interno di percorsi invisibili». A tal fine occorre che «il mandato dei servizi sociali sia di moltiplicare le relazioni, di creare contesti densi di relazioni», «nella logica di costruire una giustizia sociale culturalmente e territorialmente condivisa». Una giustizia che assume, come criterio fondamentale, la possibilità per i cittadini – «tutti, perché la giustizia sociale è universalistica» – di partecipare alle scelte che li riguardano in qualità di attori.

 

Una società complessa ma non patologica

Per realizzare questi obiettivi è necessario che si vada «oltre lo schema “per ogni problema un servizio”» contrastando, in tal modo, l’idea diffusa «che per ogni problema esiste un posto in cui esso possa essere portato, si abbia diritto di portarlo e di trovare risposte soddisfacenti (con il rischio che per ogni problema ci sia una coerente definizione patologica, con l’esito di “patologizzare” la società)». Un esito da contrastare perché «non possiamo accettare acriticamente l’ipotesi di essere di fronte a una società patologica. Sicuramente è complessa, ma non patologica. Occorre, in questo complesso scenario, poter uscire dalla polarità persona/utente e servizio, per costruire un continuum che coinvolga, oltre alla persona interessata, la comunità, il vicinato, il quartiere, il volontariato e i servizi». Inoltre con «la polarità “utente/servizio”», «le richieste di aiuto sono aumentate negli anni in modo esponenziale, diventando sempre più complesse, e i servizi preposti non sono in grado, da soli, di sostenere, con le risorse limitate, ogni problema (problem solving)».

Di qui la necessità, espressa dagli autori, di costruire «un’alleanza tra operatori rispetto al fatto che il prodotto del nostro lavoro sia anche altro (non solo il sussidio o la casa protetta). L’idea prevalente è che il servizio sociale si occupi solo delle “gravità”; in realtà oggi dobbiamo rappresentarci un ambito di lavoro di ascolto non finalizzato alla presa in carico ma all’accompagnamento. A volte le persone hanno bisogno, anche solo per brevi periodi, di essere ascoltate, affiancate, accompagnate. Naturalmente gli esiti di questi “prodotti” si verificano a lungo termine. Quanto riusciamo a contenere la spinta ad agire e tollerare l’ambivalenza delle persone, che ti chiedono aiuto, ma allo stesso tempo ti attaccano? Occorre condividere che noi offriamo un servizio di ascolto e aiuto a capire insieme quali sono le richieste e i problemi, offrendo orientamento rispetto ai servizi e ad alcune offerte strutturate nel territorio».

In conclusione, si tratta di rivedere le proprie mappe cognitive investendo in modo prioritario nella dimensione dell’ascolto, della comprensione, della rielaborazione e del collegamento. In tal modo «viene restituita al territorio la sua funzione di ascolto e di capacità elaborativa, ma anche e soprattutto alla comunità l’impegno di “farsi carico con i servizi” dei problemi restituendole la sua funzione educante e progettante».

Si tratta in sostanza di “leggere” il territorio non alla luce delle categorie tradizionali (anziani, minori, persone con handicap, ecc.) ma dei problemi prevalenti che esso esprime. «Se si assume questo come orientamento metodologico allora la specializzazione richiesta agli operatori è nell’ascolto, nella messa a fuoco dei problemi, nell’accompagnamento alle scelte in una dimensione fortemente dialogica e che tenga conto della famiglia, della sua storia, della sua rete di relazioni, come luogo privilegiato di interesse. La vicinanza con il singolo non deve essere abdicata, ma ri-collocata in un quadro più generale dentro un tessuto di comunità con il quale costruire soluzioni vicine ai problemi».

 

I “Poli di servizi sociali territoriali”

Gli obiettivi della riorganizzazione dei servizi del Comune di Reggio Emilia così come declinati nell’articolo in esame appaiono francamente contraddittori. A fronte della considerazione che i servizi sono chiamati ad intervenire in relazione a problemi che gravano su un’area di disagio «sempre più estesa e che non riguarda solo determinate categorie sociali» e della constatazione che «i servizi preposti non sono in grado, da soli, di sostenere, con le risorse limitate, ogni problema» si trae la conclusione che è necessario investire in modo prioritario sulla dimensione dell’ascolto, non – come sarebbe lecito attendersi – per “selezionare la domanda” (in base agli obblighi normativi ed alla “gravità” delle problematiche espresse), ma affidando ai “Poli di servizi sociali territoriali” il compito di «lavorare nel processo di mediazione delle diverse interpretazioni dei problemi». Quasi a dire che – non potendo risolverli tutti – i problemi vanno “ridimensionati”, onde poterne attribuire la soluzione ai cittadini stessi. Beninteso dopo aver fornito «risposte progettuali e sistemiche che valorizzano la loro capacità anche attraverso lo sviluppo di legami sociali».

Ciò che appare discutibile non è tanto la decisione di attribuire ai poli territoriali la funzione di “sportello sociale” – al quale hanno libero accesso tutti i cittadini e non solo alcune tipologie d’utenza – ma la preoccupante decisione di sostituire il “problem solving con il “problem making” (la “costruzione dei problemi”) senza operare una distinzione tra la persone che (legittimamente) manifestano bisogni e segnalano problemi pur non avendo titolo a rivendicare – in termini di diritto – alcuna specifica risposta assistenziale e coloro verso i quali i servizi sociali pubblici hanno dei precisi obblighi. Se per i primi è comprensibile che si applichi la formula di aiutarli ad orientarsi più efficacemente nei «mille reticoli fatti di micro-legami, che possono ossigenare e rigenerare le storie di vita delle persone, delle famiglie, dei gruppi, della società», per gli altri, invece, deve essere reso effettivo il diritto ad accedere ai servizi ed alle prestazioni essenziali, così come stabilito dalle leggi vigenti.

 

L’ingombrante concetto di comunità

Gli autori dell’articolo sul “welfare di prossimità” dovrebbero, in ogni caso, riflettere sul monito lanciato da Arnaldo Bagnasco, secondo il quale «il concetto di comunità è divenuto ingombrante, troppo denso: ci fa porre dei problemi significativi, ma porta con sé anche troppi equivoci. Non dobbiamo immaginare che la comunità sia di per sé una parola che richiama qualcosa di bello e giusto. Non solo perché le società tradizionali sono state raramente tali, essendo per lo più afflitte da povertà e iniquità, e caratterizzate da scarsa libertà e mobilità delle persone. Ma anche perché, a pochi mesi dal nuovo millennio, in nome di comunità si sono attuate vere e proprie epurazioni etniche, con le atrocità che tutti conosciamo. È un esempio di come comunità possa essere una parola rischiosa. Bisogna quindi stare molto attenti» (5).

Occorre inoltre considerare che – stante la necessità di una pratica di inclusione sociale atta a ridurre in tutta la misura del possibile il numero degli individui che devono ricorrere alle prestazioni socio-assistenziali – «vi è – e purtroppo vi sarà anche in futuro – una parte degli abitanti (in via di larghissima approssimazione il 2-3 % della popolazione, e cioè da 1 milione a 1 milione e mezzo di persone) che, a causa delle carenze del proprio nucleo familiare (minori del tutto o in parte privi dell’indispensabile protezione parentale) o a seguito di difficoltà personali (insufficienza mentale e altri gravi handicap, ecc.) non sono capaci, pur utilizzando le risorse sociali (sanità, casa, scuola, ecc.) di inserirsi autonomamente nella vita comunitaria. In questi casi, o interviene adeguatamente l’assistenza, o le persone subiscono le deleterie conseguenze dell’emarginazione e dell’esclusione che si ripercuotono, a volte pesantemente, sulla loro qualità di vita» (6).

Infine – senza voler entrare troppo nel merito del giudizio degli autori, secondo i quali la società della quale facciamo parte «è complessa, ma non patologica» – giova ricordare che le condizioni di emarginazione e di esclusione delle quali i servizi socio-assistenziali sono chiamati ad occuparsi sembrano essere, secondo le acquisizioni delle scienze umane contemporanee, parti costituenti di un sistema «che fa pagare al più debole l’esigenza di funzionamento dell’organizzazione sociale» (7). In tal senso è corretto riaffermare la necessità «che i “fruitori” dell’assistenza, in prima persona, siano coinvolti nella scoperta delle cause e nella gestione dei problemi e tutta la comunità locale si conquisti e mantenga aperto lo spazio per assumere in proprio le contraddizioni che la dinamica sociale produce» (8). Ma ciò richiede che «le situazioni create dai fenomeni devianti siano lette in termini globali, ricercandone le cause più profonde e verificando il senso dei rapporti esistenti» (9).

 

Non tutti hanno diritto all’assistenza sociale

La questione è dunque di definire in modo puntuale il rapporto che deve intercorrere tra diritti esigibili dai più deboli (le “gravità” alle quali fa riferimento l’articolo) ed opportunità da offrire alla cittadinanza in generale. Ciò consente di operare in maniera correttamente selettiva anche sul piano dell’allocazione delle risorse: agli interventi ed ai servizi destinati alle persone che necessitano di assistenza sociale vanno assegnate le risorse (finanziarie, umane e strumentali) necessarie. Al resto dei potenziali fruitori è destinato “il di più”, nel caso in cui siano disponibili mezzi aggiuntivi.

La cosa non deve scandalizzare, perché il diritto all’assistenza sociale ha caratteristiche diverse dal complesso dei diritti che afferiscono alla “sicurezza sociale”. Il primo deve avere carattere selettivo, gli altri – il diritto alla salute, il diritto al lavoro ed il diritto all’istruzione – devono essere obbligatoriamente rivolti a tutta la cittadinanza.

Ciò che appare evidente è che i servizi socio-assistenziali – oggi impropriamente definiti servizi sociali – rappresentano un “sotto insieme” del complesso dei servizi preposti ad assicurare l’effettività dei diritti afferenti al sistema di sicurezza sociale. Si tratta dunque di servizi che hanno una specificità che deve essere preservata, pena la lesione dei diritti dei più deboli.

Se si considera la casistica che dà luogo alla necessità di assistenza, risulta chiaramente che «una prevenzione reale si realizza solo attraverso concrete riforme che assicurino il lavoro con salari adeguati, prevedano pensioni sufficienti, rendano disponibili a tutti i minori i servizi prescolastici e scolastici (frequenza degli asili nido, delle scuole materne e dell’obbligo anche agli handicappati, gravi compresi), garantiscano a tutti una casa adeguata, forniscano idonei servizi sanitari compresi quelli curativi e riabilitativi a tutta la popolazione e in particolare agli handicappati ed agli anziani cronici oggi troppo spesso costretti a ricorrere agli istituti pubblici e soprattutto a quelli privati di assistenza» (10).

In sostanza la prevenzione si attua, oltre che con la piena occupazione, garantendo ai cittadini di accedere al complesso dei “servizi alla persona e alla comunità” indicati dal titolo IV del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 ed in particolare a quelli preposti alla “tutela della salute”, alla “istruzione scolastica”, alla “formazione professionale”, ai “beni e attività culturali”, allo “spettacolo” ed allo “sport”.

Un discorso a parte va fatto per i “servizi sociali”, anch’essi compresi nel titolo IV. Come ho detto, risulta mistificante comprendere tra i servizi sociali destinati a tutti i cittadini anche quelli che – più propriamente – dovrebbero essere definiti assistenziali ed andrebbero garantiti solamente a coloro che necessitano “di qualcosa in più” per evitare l’emarginazione sociale.

Inoltre è opportuno che si prenda atto – con riferimento alle situazioni di disagio sociale conclamato – che i servizi socio-assistenziali hanno pochissimi strumenti per svolgere azioni dirette ad eliminare le cause che provocano le richieste di intervento. Al massimo possono individuare le situazioni “a rischio” e cioè tutte quelle carenze che, se non colmate, provocano o favoriscono la richiesta di assistenza. Da ciò consegue che la prevenzione del bisogno assistenziale non può, con riferimento a tali situazioni, rappresentare una funzione del settore dei servizi di assistenza sociale.

Tuttavia i servizi socio-assistenziali – proprio perché hanno a che fare con gli effetti dell’esclusione ed hanno la possibilità di individuarne puntualmente le cause – possono operare in senso promozionale, nei confronti degli altri settori coinvolti nelle politiche sociali (specie locali), per far sì che vengano introdotti i cambiamenti occorrenti per eliminare, o almeno per ridurre, i fattori che generano difficoltà e disagio sociale ed al fine di evitare che, agli utenti dell’assistenza, venga negato il diritto di accedere ai servizi resi disponibili dal sistema di sicurezza sociale nel suo complesso (casa, scuola, sanità, previdenza, ecc.). Infatti «se si vuole veramente una società a misura d’uomo, di tutti gli uomini, che tenga cioè anche conto delle esigenze dei bambini, degli anziani e degli handicappati è indispensabile che i servizi non siano predisposti per questa o quella categoria, ma siano aperti a tutti. Di qui anche la necessità di evitare ogni carattere selettivo» (11).

 

Occorrono servizi che prendano in carico l’utenza ed assicurino le prestazioni necessarie

La pratica professionale degli operatori deve saper finalizzare la relazione, l’ascolto e l’aiuto a capire i problemi alla «presa in carico» che si concretizza nella messa a disposizione delle persone in condizione di disagio sociale dei servizi e delle prestazioni necessarie ad evitarne l’emarginazione e l’esclusione. È dunque profondamente scorretto affermare che è necessario che si vada «oltre lo schema “per ogni problema un servizio”». Deve inoltre essere obbligatoriamente previsto – nell’ambito delle organizzazioni socio-assistenziali – «un posto in cui esso possa essere portato, si abbia il diritto di portarlo e di trovare risposte soddisfacenti».

La società dipinta dagli autori dell’articolo oggetto di commento non sarà “patologica” (nel senso che in essa le diseguaglianze vengono purtroppo assunte come “fisiologiche”), ma certamente non è “taumaturgica”. Al territorio ed alla famiglia – sulla quale vengono sistematicamente scaricati i problemi degli anziani cronici non autosufficienti e delle persone con handicap (12) – non si può chiedere di progettare e produrre le necessarie risposte al disagio semplicemente ricollegando «i fili invisibili della solidarietà».

Porre attenzione agli utenti significa, certamente, riconoscere che essi hanno (o meglio, devono avere) un ruolo in merito all’individuazione dei loro bisogni e delle relative prestazioni. I destinatari dei servizi ed anche i soggetti direttamente coinvolti nelle prestazioni (ad esempio gli affidatari di minori) sono infatti troppo spesso considerati incapaci di fornire un apporto positivo alla definizione ed alla valutazione delle linee di intervento (13).

L’azione di aiuto deve essere perciò condotta “dando la parola” – e quindi dignità di cittadinanza – agli utenti ed alle organizzazioni di tutela che essi esprimono, per quanto concerne l’accertamento delle esigenze, la programmazione delle attività ed il funzionamento dei servizi, nonché nella verifica dei risultati raggiunti (14). Si tratta però di una azione che non può compiutamente realizzarsi se non si coniugano i saperi professionali (che vanno dunque affinati e concretamente messi in campo) con i saperi sociali (che devono essere maggiormente valorizzati) allo scopo di promuovere una “cittadinanza attiva” che – per essere tale – deve essere “competente”.

«Sapere quali sono i propri diritti non vuol dire ignorare i doveri. Significa, invece, avere presente un serio e onesto quadro di riferimento per la propria vita individuale, familiare e sociale. Per poter difendere le esigenze personali e quelle delle persone in difficoltà è indispensabile, altresì, essere in grado di valutare obiettivamente i contenuti di una legge, di un regolamento, di una circolare, di una deliberazione» (15).

Conoscere quali sono le prestazioni dovute ai cittadini – ed in particolare a quelli che non sono in grado di autodifendersi – è una condizione obbligatoria per i gruppi di volontariato che operano per ottenere il rispetto delle esigenze fondamentali delle persone in difficoltà. Ma districarsi nella foresta delle disposizioni di legge, orientarsi nell’intrico delle istituzioni pubbliche e private per accertarne la reale competenza ad intervenire non è facile nemmeno per gli addetti ai lavori. Pertanto è necessario adottare un metodo che consenta alle associazioni di acquisire – anche con il doveroso aiuto dei servizi – una adeguata conoscenza degli aspetti fondamentali dei problemi e gli elementi occorrenti per muoversi in modo corretto e tempestivo.

In primo luogo agli operatori compete trasmettere agli utenti e alle loro organizzazioni informazioni con un linguaggio comprensibile, preferibilmente in forma scritta e quindi verificabile.

Vi è infatti l’esigenza imprescindibile che tali forze sociali vengano messe in condizione di avanzare proposte concrete che rispondano il più compiutamente possibile alla esigenze dei cittadini, dei nuclei familiari, della comunità locale. Inoltre è necessario che le organizzazioni rappresentative dell’utenza siano anche in grado di fornire una tempestiva ed esauriente consulenza a terzi (persone, enti pubblici e privati), nonché di assumere la difesa dei singoli individui a cui sono stati negati o violati diritti.

Occorre infatti considerare che le cause dell’esclusione sociale dipendono essenzialmente dalle misure politiche e sociali adottate dalle istituzioni e non semplicemente dalla gestione delle attività. E che è altresì indubitabile che gli spazi di autonomia concessi dalle istituzioni agli enti gestori e da questi agli operatori (pubblici o del terzo settore) sono, in genere, estremamente limitati. Da ciò consegue che non è realistico “dare per scontato” che gli operatori possano (o, addirittura, debbano) assumere iniziative in contrasto con le linee politiche dell’ente dal quale dipendono (direttamente o a seguito di appalti di servizi), nell’ambito dell’esercizio della propria professione.

 

L’operatore “agente di cambiamento”

In questo senso credo sia utile riesaminare la questione dell’operatore “agente di cambiamento”. È vero che spesso – negli anni settanta – «la cultura degli operatori era “anti”, con una svalutazione della preparazione professionale tradizionale e una forte motivazione a opporsi al potere e al sapere costituito» (16). Ma non si trattava di una “prerogativa” dell’operatore in quanto tale; infatti anche la cultura dello studente e dell’operaio metalmeccanico esprimeva gli stessi valori.

Quanto ai comportamenti che da quei valori derivavano, si può dire che la modalità di approccio ai problemi era “politica” e l’azione “collettiva”. Si lottava contro le istituzioni (per abbatterle o per cambiarle) mettendo in discussione i ruoli (operaio, studente, insegnante, infermiere, medico, ecc.) ed i contenuti professionali che, all’interno delle stesse, venivano imposti “dal sistema”.

Nella fase successiva i ruoli sono certamente cambiati – ed anche le istituzioni – ma questo fatto non ci consente di affermare che, da allora in poi, la funzione di “agente di cambiamento” è diventata “un tutt’uno” con la professione esercitata per conto delle istituzioni stesse. Non è certamente così per l’insegnante o per il medico e non lo è nemmeno per l’operatore sociale. È infatti difficile immaginare che l’istituzione per la quale si lavora (e dalla quale si riceve lo stipendio) sia disponibile – in modo indolore – a consentire ai propri dipendenti (operatori sociali inclusi) di “remare contro”. Sia chiaro: non è che i “tecnici” non facciano politica, anzi. In genere però le componenti professionali tendono molto più ad operare in termini di conservazione (o di ampliamento) dei propri spazi di potere nell’ambito dell’istituzione che non ad allargare quelli della cittadi­nanza.

Quel che valeva per allora – e cioè la consapevolezza che è la politica che determina il cambiamento (in meglio o in peggio) dei rapporti sociali – vale, in realtà, anche oggi. Ma è solo attraverso una pratica politica che sappia esprimersi in modo autonomo dal potere costituito che gli operatori (attraverso le proprie organizzazione sindacali e professionali), gli utenti (attraverso le associazioni di tutela) ed i cittadini in genere (in primo luogo con l’esercizio del voto), possono realmente incidere sulla situazione sociale complessiva per migliorarla. Nel lavoro quotidiano bisogna invece che l’operatore persegua la traduzione in pratica del «mandato di giustizia sociale» cercando di fare tutto il suo dovere, e di farlo bene. Senza cadere nella tentazione di considerare il lavoro sociale solamente “un lavoro come un altro” e continuando a ricercare delle risposte ai problemi (condizione necessaria, questa, per essere un «soggetto attivo nei cambiamenti» (17).

«La funzione che i servizi – pubblici e privati – svolgono è in sé e per sé una funzione pubblica perché fa sì che la società possa in qualche modo gestire il disagio che essa stessa produce senza volerlo esplicitamente. In questo modo i servizi escono dall’assedio perché considerano interlocutori sui problemi tutti coloro che vivono in un territorio, che ne sono parte e che sono potenzialmente implicati a prendere parte al mantenimento di assetti sociali più vivibili» (18).

Non si tratta, dunque, di tornare agli anni settanta (e di pensare all’operatore sociale come ad una sorta di “militante di professione”), ma di fondare l’azione quotidiana dei servizi sui principi formulati negli articoli 2 e 3 (19) della nostra Carta costituzionale. Avendo nozione che la promozione e la tutela dei diritti civili e politici del cittadino rappresenta una finalità da perseguire attraverso l’attività – legislativa, di governo, amministrativa e professionale – delle istituzioni repubblicane; deve indirizzarsi in tutte le direzioni in cui si verificano situazioni di difficoltà dei cittadini e deve concretizzarsi attraverso la realizzazione di politiche di sicurezza sociale finalizzate a garantire la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale quale condizione necessaria per l’effettivo godimento di tali diritti.

A tale proposito, giova ricordare quanto prevede l’articolo 28 della Costituzione con riferimento a coloro che svolgono il proprio ruolo in ambito pubblico. «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pub­blici».

La promozione dei diritti fondamentali dei cittadini costituisce dunque un dovere per gli operatori del settore socio-assistenziale, sia che essi operino direttamente nelle pubbliche istituzioni, sia che appartengano alla cooperazione sociale. Nella legge che disciplina tali organizzazioni si afferma infatti che «le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverso: a) la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi; b) lo svolgimento di attività diverse – agricole, industriali, commerciali o di servizi – finalizzate all’inserimento di persone svantaggiate» (20).

Ma per chi lavora in assistenza – così come per chi opera in sanità – agire per la tutela pubblica del diritto ad essere adeguatamente assistiti e curati rappresenta anche una “convenienza”. A quanti è già capitato di vedersi “precipitati” nella (desolante) dimensione di utente all’insorgere di una patologia cronica grave (Parkinson, Alzheimer, esiti da ictus, ecc.) in un congiunto? Stante la tendenza demografica – che prospetta un futuro caratterizzato dalla presenza di un sempre maggiore numero di persone molto anziane e molto malate – quanti saranno quelli di noi che, divenuti non autosufficienti, dovranno “beneficiare” di servizi analoghi a quelli nei quali si è trascorsa la vita professionale? Penso che la risposta a queste domande dovrebbe suggerire, a tutti gli operatori, che conviene riconoscersi fino in fondo nella scelta a suo tempo espressa da Norberto Bobbio: «Continuo a preferire la severa giustizia alla generosa solidarietà».

 

“Essere” o “fare” l’operatore sociale

Posto che è condivisibile l’affermazione che «i servizi sono nati per lavorare sulle questioni del disagio attraverso la relazionalità» (21) – nella quale è spesso difficile mantenere distinta la sfera professionale dalla sfera personale – occorre spendere un’ultima parola sull’annosa questione dell’essere o del fare l’operatore sociale.

Io condivido l’opinione secondo la quale «un uomo non è altro di ciò che esso fa di quello che gli altri hanno fatto di lui» (22). Parafrasando Jean-Paul Sartre si potrebbe dunque dire – con riferimento a chi lavora in assistenza – che non c’è nessuna essenza “operatore sociale”, ma solo esistenza, progetto, azione. In buona sostanza occorre che l’operatore (come persona prima ancora che come professionista) abbia “un progetto su di sé” (F. Ferrario) ed una sua visione – necessariamente dinamica – del servizio e dell’organizzazione in cui opera, così come del complesso delle relazioni sociali che caratterizzano il momento storico in cui vive.

La dicotomia tra essere e fare è un falso problema. Il lavoro sociale è – per l’appunto –  un lavoro, con la sua intrinseca dignità. Un “fare”, per il quale si viene remunerati, che richiede motivazione e che si sostanzia nell’esercizio di una funzione importante: quella pubblica. Nell’ambito della quale si opera, perseguendo doverosamente l’interesse generale, per «garantire i beni collettivi, che insieme danno il benessere sociale, cioè la possibilità delle persone di star bene, anche attraverso l’acquisizione di quelle cose che non si possono comprare, che non sono disponibili al mercato» (23). E ciò richiede la capacità di spendere il proprio sapere professionale per l’attuazione dei principi democratici. Nella consa­pevolezza che «più i beni comuni e i servizi pub­blici sono parte integrante e qualificante del vivere insieme, più forte e reale deve essere il coinvolgimento dei cittadini al governo dello sviluppo comunitario» (24).

 

 

 

 

(*) Direttore del Cisap (Consorzio intercomunale dei servizi alla persona trai Comuni di Collegno e Grugliasco).

(1) “La bacheca”, Animazione sociale, n. 8/9, 2006.

(2) Franca Olivetti Manoukian, “Re/immaginare il lavoro sociale”, i Geki di Animazione sociale, 2005.

(3) Federica Aghinolfi, Chiara Bonazzi, Germana Corradini, Elena Orlandini, Daniela Scrittore, “Una scommessa sul welfare di prossimità. La costruzione dei Poli di Servizi sociali territoriali a Reggio Emilia”, Ibidem, n. 8/9, 2006.

(4) Tutte le citazioni non corredate da nota sono tratte dall’articolo che è oggetto di commento.

(5) Arnaldo Bagnasco, “Libertà e solidarietà cercano casa”, intervista a cura di Paola Molinatto, Animazione sociale, n. 12, 1999.

(6) Maria Grazia Breda, Donata Micucci, Francesco Santanera, La riforma dell’assistenza e dei servizi sociali, Utet Libreria, Torino, 2001, p. 49.

(7) F. Carugati, G. Casadi, M. Lenzi, A. Palmonari, P. Ricci Bitti, Gli orfani dell’assistenza, Il Mulino, Bologna, 1973, p. 159.

(8) Ibidem.

(9) Ibidem.

(10) Alberto Dragone, Donata Micucci, Francesco Santanera, Interventi alternativi al ricovero assistenziale, Edizioni Controcittà, Torino, 1980, p. 104.

(11) Ibidem.

(12) «Che l’Italia abbia un sistema di welfare fondamentalmente basato sulla famiglia non è una novità. È una novità invece – e di quelle epocali, che dovrebbero far riflettere i cosiddetti policy-makers – il fatto che la suddetta famiglia, sulle cui spalle è stato depositato tale carico, semplicemente non c’è più. E mentre si discute all’infinito sui testi di legge per riconoscere le coppie di fatto, cioè per dare uno status giuridico ed economico di qualche tipo a chi non vuole o non può legarsi in matrimonio, non si vede la realtà macroscopica: l’Italia sta s-coppiando. Lo dicono molti dei numeri egregiamente riassunti e illustrati in una ricerca curata e pubblicata dalla Fondazione Agnelli, dedicata a “l’Italia di domani”». R.C., “I vecchi, i giovani, gli altri. L’Italia che s-coppia”, Il Manifesto, 12 gennaio 2007. L’articolo recensisce il libro Generazioni, famiglie, migrazioni. Pensando all’Italia di domani, Edizioni Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 2006.

(13) Un aspetto significativo della scarsa considerazione degli utenti dei servizi di assistenza sociale è la pressoché totale assenza di norme regolamentari che consentano ad essi di ricorrere contro i provvedimenti adottati dagli enti gestori.

(14) Per quanto riguarda le realizzazioni promosse dal volontariato, si veda il volume di Giuseppe D’Angelo, Anna Maria Gallo e Francesco Santanera, Il volontariato dei diritti - Quarant’anni di esperienze nei settori della sanità e dell’assistenza, Utet Libreria, Torino, 2005.

(15) Roberto Carapelle, Giuseppe D’Angelo, Francesco Santanera, A scuola di diritti, Utet Libreria, Torino, 2005.

(16) Franca Olivetti Manoukian, op. cit, p. 12.

(17) Intervista a Franca Olivetti Manoukian a cura di Roberto Camarlinghi e Francesco D’Angella, “Possiamo ancora cambiare? Da ‘agenti di cambiamento’ a soggetti attivi nei cambiamenti”, Animazione sociale, n. 8/9, 2006.

(18) Franca Olivetti Manoukian, op. cit., p. 27.

(19) Articolo 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

(20) Legge 8 novembre 1991, n. 381: “Disciplina delle cooperative sociali”, articolo 1, primo comma.

(21) Franca Olivetti Manoukian, op. cit., p. 27.

(22) Massimo Recalciati, “Sartre. Dopo di lui soli e senza scuse”, Il Manifesto, 21 giugno 2005.

(23) Carlo Podda, “La funzione privata nel governo”, Carta, n. 9, ottobre 2006.

(24) Riccardo Petrella, “Interessi privati e non partecipati”, Il Manifesto, 31 ottobre 2006.

 

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