Prospettive assistenziali, n. 156, ottobre - dicembre 2006

 

 

Specchio nero

 

 

 

UN VILLAGGIO PER PERSONE CON HANDICAP: UNA INIZIATIVA EMARGINANTE E MOLTO ONEROSA PROMOSSA DALLA FONDAZIONE DON GNOCCHI

 

1. Anni e anni di lotte, di sacrificio personale, di cortei, di volantinaggi, nonché giornate di lavoro per elaborare le proposte non sono ancora sufficienti per ottenere un adeguato inserimento sociale delle persone con handicap con limitata o nulla autonomia.

mentre la legge 149/2001 ha stabilito che entro il 31 dicembre 2006 devono essere chiusi tutti gli istituti per minori esistenti nel nostro Paese, la Fondazione Don Gnocchi di Milano promuove addirittura la creazione di un villaggio per le persone colpite da handicap.

Allo scopo è stata costituita la Fondazione “Durante noi onlus” di cui la Fondazione Don Gnocchi è il primo socio fondatore.

Come si legge su Missione Uomo, n. 2, 2006 «il progetto è quello di un “villaggio” residenziale, con tutte le caratteristiche che il termine stesso “villaggio” implica: atmosfera calda, allegra, accogliente, familiare, attiva e, soprattutto, piena di vita con un coinvolgimento diretto non solo degli stessi genitori, ma anche di persone anziane e di pensionati che renderebbero la struttura ben integrata nella comunità».

A nostro avviso, sulla base delle nostre esperienze ormai quarantennali, i raggruppamenti di persone in gravi difficoltà sono dei ghetti, che possono essere più o meno di lusso, ma che sempre isolano i più deboli dal contesto sociale.

2. È significativo che la Fondazione Don Gnocchi, che opera da anni nel settore dell’handicap, non abbia assunto iniziative per promuovere il rispetto delle leggi vigenti da parte dei Comuni, i quali sono obbligati a provvedere alla predisposizione delle strutture residenziali (a nostro avviso, comunità al­loggio di 8-10 posti al massimo) e alla loro gestione.

Al riguardo si veda in questo numero l’articolo “Ildopo di noi’: la Fondazione Zancan e Salvatore Nocera forniscono notizie errate”.

 

 

LA FISH IGNORA LE VIGENTI DISPOSIZIONI DI LEGGE SUI CONTRIBUTI ECONOMICI

 

In occasione della presentazione della legge finanziaria per l’anno 2007, la Fish (Federazione italiana per il superamento dell’handicap) dopo aver constatato «il peggioramento delle condizioni complessive delle persone con disabilità e delle loro famiglie» ha richiesto al Governo e al Parlamento di «definire la normativa in materia di concorso spese da parte delle famiglie con disabili» e cioè della «normativa Ise (Indicatore della situazione economica)» (1).

È assai grave che, dopo che sono trascorsi ben sei anni dall’approvazione delle leggi riguardanti le contribuzioni economiche (legge 328/2000 e decreti legislativi 109/1998 e 130/2000), la Fish, che raggruppa numerose organizzazioni operanti nel settore dell’handicap, non prenda nemmeno atto delle vigenti disposizioni in base alle quali nessun contributo economico può essere richiesto dagli enti pubblici:

a) ai congiunti non conviventi con gli assistiti siano essi giovani o adulti o anziani;

b) ai congiunti, compresi quelli conviventi, dei soggetti con handicap in situazione di gravità (2) e degli ultrasessantacinquenni non autosufficienti.

Tenuto conto che la stragrande maggioranza dei Comuni italiani (oltre 8mila) continua a pretendere contributi economici dai parenti dei soggetti con handicap grave (nonché dai congiunti degli ultrasessantacinquenni non autosufficienti, è sconcertante che la Fish non renda edotte le organizzazioni aderenti ed i loro associati in merito alla normativa vigente.

Come abbiamo più volte segnalato su questa rivista, le richiesta di contributi economici alle famiglie delle persone con handicap non solo sottrae loro denaro in modo illegittimo e spesso anche con metodi ricattatori (la coercizione più frequente è: «Se non pagate, vostro figlio non potrà più frequentare il centro diurno»), ma viola anche le norme sulla riservatezza delle informazioni riguardanti le persone e quelle relative alla «indispensabilità, pertinenza e non eccedenza dei dati raccolti rispetto alle finalità perseguite» (articoli 9 e 22 del decreto legislativo 196/2003 “Codice in materia di protezione dei dati personali”).

 

 

LA FOLLIA DELL’ULTIMO MANICOMIO

 

Con il sopra riportato titolo, riguardante la struttura di Serra d’Aiello (Cosenza) (3), La Stampa del 9 ottobre 2006, Marco Sodano scrive: «I manicomi non esistono più, se basta cambiare la targhetta in “istituto di riabilitazione”. Ma niente come il “Papa Giovanni” somiglia a un manicomio. Uomini e donne lasciati a terra come cartocci, letti senza lenzuola, porte e finestre sgangherate ebbe a raccontare l’allora arcivescovo di Cosenza Giuseppe Agostino dopo una visita a sorpresa nell’aprile del 2004. Mi sono vergognato di essere uomo, cristiano, vescovo e calabrese, scrisse in una lettera pubblica Agostino definendo il (suo) istituto Una bestemmia sociale”. Gli uomini e le donne lasciati a terra come cartocci sono sempre lì, sempre lì i letti senza lenzuola, le porte sgangherate: ancora lì dovrebbe essere di conseguenza la vergogna per la bestemmia sociale (…).

«Da una decina d’anni il Papa Giovanni rotola su se stesso preda di un delirio burocratico che puzza di saccheggio politico: la Diocesi dovrebbe cederlo alla Regione, che è pronta a pagare il pacchetto 15 milioni. La Regione dovrebbe poi affidarlo a una società privata che lo gestirebbe in convenzione. I privati fanno la coda, perché la convenzione è un fiume di denaro che non si secca mai. Nonostante i conti siano una voragine senza fondo: trecento dipendenti che sopravvivono al 40% dello stipendio (in media 1.200 euro al mese). Molti hanno fatto causa all’istituito: aspettano chi 20 chi 40 mensilità arretrate. Il debito complessivo si aggira intorno ai 40 milioni. Perfino il panettiere avanza 150 mila euroe anche per questo a volte il pane manca. “Per dar da mangiare agli ospiti andiamo al banco alimentare”, spiegano gli operatori (…).

«I sindacati accusano la Curia di aver spogliato il Papa Giovanni nel corso degli anni e certo qualche affare sul bordo della follia è stato fatto».

La situazione dei pazienti dell’istituto Papa Giovanni è nuovamente presa in esame su La Stampa del 20 ottobre 2006 dallo stesso Marco Sodano nell’articolo “La reggia del prete in Harley Davidson - Quadri e gioielli con i soldi delmanicomio’”, che segnala quanto segue: «I trecentosessanta fantasmi condannati a scontare la malattia mentale – chi vent’anni chi trenta e più – all’istituto Papa Giovanni di Serra d’Aiello sono vestiti con roba di recupero. Oggi arriva un furgone carico di scarpe, domani si spera nelle maglie di lana. Nel superattico intestato all’ex presidente della Fondazione che gestisce l’istituto monsignor Alfredo Liberto, dice il faldone custodito a Palazzo di giustizia, hanno trovato un televisore al plasma in ogni stanza, una sauna e una palestra. I dipendenti del manicomio-lager travestito da casa di cura mendicano credito dal fornaio per i loro assistiti (150 mila euro gli arretrati per il pane) e fidano nella Provvidenza, in attesa di uno stipendio che non arriva intero da anni. Dai conti della Fondazione qualcuno ha spiccato assegni intestati alle gioiellerie più esclusive di Roma, boutique di grido, ad alberghi a cinque stelle nei registri dei quali sono annotati soggiorni da favola “in camera matrimoniale”. I pazienti del Papa Giovanni convivono con le zecche, i casi di scabbia sono diversi. Dormono in letti sgangherati e senza lenzuola tra i servizi in condizioni penose, pareti scrostate, finestre che fanno aria: altro che ospedale, altro che casa di cura. Il lusso più sopraffino è una cioccolata alla macchinetta nell’atrio. E invece tra i tesori acquistati dai consiglieri di amministrazione del Papa Giovanni figurano un leggio firmato Giacomo Manzù, un dipinto firmato Giorgio De Chirico, un “rarissimo orologio a pressione atmosferica” e un salotto d’antiquariato che ha lasciato a bocca aperta i periti incaricati dalla Procura di Paolo di valutarlo: “È inestimabile” hanno risposto lì per lì. Poi messi alle strette dai magistrati – “Abbiamo bisogno di una cifra, almeno indicativa” – hanno azzardato: “Un pezzo del genere si paga senz’altro più di un milione” (…). L’inventario dei tesori e delle miserie del Papa Giovanni è custodito nel fascicolo dell’indagine sul manicomio-istituto condotta dal Pubblico Ministero della Procura di Paola Eugenio Facciola».

La vicenda dell’istituto Papa Giovanni evidenzia ancora una volta i gravissimi pericoli a cui vanno incontro i soggetti deboli ricoverati presso strutture/ghetto, soprattutto quando la loro capienza è elevata. Le comunità alloggio di 8-10 posti al massimo consentono agli utenti di condurre una vita che in qualche modo si avvicina a quella dei nuclei familiari e, nello stesso tempo, favoriscono il controllo del loro funzionamento da parte non solo delle autorità preposte, ma anche dei cittadini.

 

 

(1) Per quanto concerne il Fondo per la non autosufficienza che «interessa centinaia di migliaia di famiglie», la Fish osserva che nella legge finanziaria «non si definisce nulla riguardo alla destinazione; non si è cioè minimamente in grado di capire a che cosa serva il Fondo, quali prestazioni saranno finanziate, chi saranno i destinatari, in che modo si potrà accedere alle prestazioni finanziate dal Fondo, quali processi di presa in carico  garantiranno il rispetto dei diritti umani e sociali delle persone».

(2) La condizione di soggetti con handicap in situazione de gravità deve essere certificata dalle Asl ai sensi del 3° comma della legge 104/1992 che così si esprime: «Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella relazionale, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici».

(3) La storia dell’istituto è sintetizzata dal giornale piemontese come segue: «L’istituto Papa Giovanni di Serra d’Aiello è stato inaugurato nel 1967, con quaranta posti. Nel corso degli Anni Settanta la struttura è cresciuta fino a contare 800 malati e 1500 dipendenti e ha ricevuto l’accredito del Servizio sanitario nazionale. Alla chiusura dei manicomi, dopo la legge 180, il “Papa Gio­vanni” ha accolto malati provenienti da tutto il sud. Poi è cominciata la crisi: stipendi a singhiozzo, fatture non pagate, cassa integrazione. Nell’organico, che la politica locale ha usato spesso come serbatoio di voti, ci sono una settantina di lavapiatti».

 

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