Prospettive assistenziali, n. 153 bis, gennaio - marzo 2006

 

 

Sintesi delle relazioni e degli interventi

 

 

Il convegno si è svolto alla presenza di oltre trecentocinquanta persone.

 

Giulia De Marco: Apertura dei lavori

I lavori della mattinata sono stati presentati da Giulia De Marco, Presidente del Tribunale per i minorenni di Torino.

Dopo aver ricordato come nel nostro Paese vi siano posizioni contrastanti per cui vi è chi opera per promuovere una maternità consapevole e responsabile e chi invece ritiene che la maternità non sia una scelta, ma un dovere da parte della donna, ha riferito in merito ai dati sulle interruzioni di gravidanza a Torino negli ultimi tre anni e sui non riconoscimenti in Piemonte e Valle d’Aosta negli ultimi cinque anni.

Le interruzioni di gravidanza a Torino presso l’Ospedale Sant’Anna erano 3.306 nel 2003, 3.612 nel 2004, 1.207 nel primo trimestre del 2005. Negli ultimi cinque anni c’è stato un aumento esponenziale di non riconoscimenti alla nascita in Piemonte e Valle d’Aosta: 24 nel 2001, 36 nel 2002, 47 nel 2003, 55 nel 2004, 35 nei primi nove mesi del 2005.

Le donne che scelgono di non riconoscere, secondo i dati dell’osservatorio del Tribunale per i minorenni, non sono più tanto le adolescenti italiane, quanto le donne straniere.

 

Eleonora Artesio: Presentazione del convegno e del progetto “Gemellaggio sociale”

Eleonora Artesio, Assessore alla solidarietà sociale della Provincia di Torino, ha sostenuto che la rielaborazione legislativa, in termini di politiche sociali, dalla legge 328 del 2000 in poi, ha attivato nelle diverse realtà territoriali provvedimenti di carattere legislativo e attività di programmazione territoriale, ed ha evidenziato come all’interno di questi «dovrebbero essere compresi anche gli aspetti di puntuale presa in carico, ente per ente, servizio per servizio, delle funzioni di tutela che consentono il reale esercizio dei diritti».

Purtroppo ancora oggi si verifica che non sempre i diritti siano concretamente esigibili e che siano proprio le persone in maggiore difficoltà ad avere minori possibilità di esigerli.

L’Assessore Artesio ha poi individuato alcune tematiche importanti in merito al convegno:

1. nel variegato panorama nazionale le Regioni, nella loro autonomia legislativa, possono trasferire le competenze ai diversi enti, ma «nel trasferimento delle competenze le specifiche modalità su specifici problemi possono essere rimosse, non citate, e possono essere lasciati nell’indeterminazione alcuni passaggi». Quindi, pur essendoci l’intenzione di voler agire nell’interesse del bambino, questa non viene normata ed il conseguente disorientamento dell’operato dei servizi produce una effettiva impossibilità di offrire opportunità adeguate;

2. «come la sensibilità politica e culturale si esercita in una capacità di comprendere i messaggi, i canali e le forme in cui la comunicazione sociale può prendere corpo; come rendere più comprensibile un piano di comunicazione rispetto ai diritti esigibili, ad esempio nel caso delle donne che non intendono riconoscere il proprio bambino; come avvicinare le persone che ne sono normalmente escluse ai circuiti formali della conoscenza, ma anche come costruire relazioni di fiducia, ponendo anche attenzione ai canali di diffusione»;

3. «come dare occasione agli operatori perché possano trovarsi nella possibilità di scambiare le loro pratiche, facendo emergere i punti oscuri e le difficoltà».

Eleonora Artesio ha segnalato che si è pensato che, in virtù del ruolo di programmazione asse­-gnato alle Province e del ruolo di osservatorio
sulle politiche sociali ai sensi della legge 328 del 2000, potesse essere assegnata proprio alle Province la responsabilità di tenere aperta la discussione pubblica, come forma di tutela informale che può spingere all’elaborazione legislativa ed operativa.

Da questo è nata l’idea del “Gemellaggio socia­-le” (4) con il quale le Province si impegnano a diffondere progetti di tutela e garanzia dei diritti delle persone, coinvolgendo altri enti, al fine di consentire alle Autonomie locali di approfondire ed integrare i principi e i diritti stabiliti nella legge 328/2000, avviare un processo di discussione comune sulle tematiche sociali, onde perseguire finalità comuni, con particolare attenzione ai diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, alle situazioni di marginalità sociale, alle condizioni di vita delle persone disabili ed anziane, ai diritti di cittadinanza delle persone straniere che da anni vivono e lavorano nel nostro Paese.

 

Marisa Persiani: Le esigenze affettive dei bambini e gli interventi necessari per assicurare consapevoli riconoscimenti o non riconoscimenti dei propri nati

Marisa Persiani, psicologa e psicoterapeuta, responsabile dell’Ufficio famiglia della Provincia di Roma e Giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Roma, ha evidenziato come per ciascun individuo la nascita sia il punto di partenza della vita e che «per rispondere ai bisogni di un bambino è necessario partire dalla predisposizione base della donna che lo genera, dalla motivazione, dal significato e dalle condizioni che hanno determinato il suo concepimento». Vi è quindi la necessità di «conoscere la donna che genera e in lei la compatibilità possibile tra la dimensione generativa e quella genitoriale».

Nonostante la predisposizione biologica al generare, per diventare effettivamente madre la donna deve compiere un passaggio importante, di carattere psichico, in cui si identifica come madre, ne prende consapevolezza e sceglie di assumersi la responsabilità che quel ruolo richiede.

 «Un bambino – ha ricordato la dottoressa Persianiper “esistere” deve poter essere contenuto dalla donna che lo ha generato in uno spazio uterale, psichico interno, che va al di là della dimensione biologica e del presunto “legame di sangue”. (…) È dunque necessario operare un cambiamento culturale e morale dell’essere genitore, rintracciandone la vera essenza».

In tutte le società e in tutte le culture infatti il concetto di maternità è legato a quello di sacralità, per cui la natura ha assegnato alla donna il compito della continuazione della vita: “buone” sono le donne che si conformano al compito, “cattive” quelle che lo rifiutano, meritando il giudizio e la condanna.

«Probabilmente – come rilevato dalla Persianida tali convinzioni deriva anche l’uso, spesso improprio e connotato negativamente, del termine “abbandono” attribuito, per esempio, anche alla scelta della donna di avvalersi della possibilità di non riconoscere il bambino messo al mondo» ed ha puntualizzato che «intorno alla maternità sono tessuti luoghi comuni e stereotipi che pre orientano la percezione stessa della realtà e propongono una immagine difensiva di indissolubilità del legame biologicamente dato, a difesa della sua sacralità e del rischio di poterla mettere in discussione. A smentire tali convinzioni, intervengono quelle gravidanze inattese, insostenibili, incompatibili, nell’assunzione della funzione genitoriale, con quella donna, in quel particolare momento della sua esistenza».

Spesso purtroppo la gravidanza per una donna è talmente difficile da accettare da essere negata e da spingere ad azioni quali l’abbandono non protetto e addirittura l’eliminazione del nato in quanto percepito come estraneo a sé o pericolo per la propria esistenza.

«Oltre a tali situazioni estreme, anche quelle che esprimono una relazione più o meno marcatamente disfunzionale e che si manifestano con episodi di grave incuria e maltrattamento, sovente approdano ai servizi tardivamente, quando sono manifesti in modo visibile gli effetti; la loro presa in carico spesso si realizza attraverso interventi frammentati e con modalità e procedure non sempre condivise ed omogenee. Ciò produce costi elevati sul piano personale, sia per il bambino che per la donna, per la mancata attivazione di azioni funzionali al bisogno e, sul piano sociale, per l’ingresso ed il permanere dell’individuo nei circuiti socio-assistenziali, oltre che complicanze sul piano giuridico-amministra­tivo».

Le ricerche hanno evidenziato che sono aumentate le donne a rischio di gravidanza inattesa e che alle adolescenti, alle pazienti psichiatriche, alle tossicodipendenti e alle donne con gravi deprivazioni personali e socio-ambientali si vanno aggiungendo, in numero sempre maggiore, le donne straniere a tutela delle quali i servizi hanno difficoltà ad intervenire perché percepite come irraggiungibili e difficilmente intercettabili. «Le risposte finora messe in camporileva la Persianisembrano aver solo sfiorato la complessità del problema».

In merito al problema delle donne che scelgono di non riconoscere i loro nati, l’Amministrazione provinciale di Roma, nell’ambito delle competenze attribuitele dalla legge 328/2000, dal decreto legge 286/1998 e dalla legge regionale 17/1990 ha promosso un piano provinciale, in fase di attuazione, finalizzato a proteggere la “nascita”.

Data l’estrema complessità degli interventi da attuare nei confronti delle gestanti e delle madri, il piano prevede attività di informazione e di formazione unite ad azioni di sistema con lo studio, l’analisi e il monitoraggio delle condizioni della donna in rapporto alla maternità, la messa in rete e il coordinamento di strutture di accoglienza per le gestanti, la promozione di interventi mirati al sostegno della genitorialità responsabile e l’attivazione di un numero verde. Sono inoltre previste azioni rivolte agli operatori dei servizi quali la loro formazione, la costituzione di nuclei distrettuali operativi e multidisciplinari.

«Il piano formativo – ha continuato la dottoressa Persianirivolto agli operatori socio-sanitari pubblici e privati, è caratterizzato da un approccio di formazione-azione in una dimensione etnoculturale e si articola in spazi formativi costituiti da lezioni, lavori seminariali, di gruppo e con un follow-up a distanza di tre mesi dalla sperimentazione del modello di protocollo operativo costruito. Prevede sei incontri formativi della durata di cinque ore ciascuno, rivolto a cinquanta operatori del distretto socio-sanitario, e due incontri di accompagnamento del gruppo ristretto costituitosi per la costruzione del protocollo operativo distrettuale con i docenti, singolarmente o congiuntamente, in relazione alle specifiche esigenze manifestatesi in progressione. Le aree tematiche individuate quale programma formativo sono: aspetti giuridico-amministrativi correlati alla scelta della genitorialità e al riconoscimento del minore; aspetti di competenza medico-ospedaliera, correlati al periodo della gravidanza e del parto; aspetti psicologici della generatività e della genitorialità, da articolarsi in una giornata; aspetti antropologici e culturali della generatività e della genitorialità, con specifici riferimenti alla condizione di migrante; aspetti sociali della generatività e della genitorialità: il lavoro di rete; restituzione e confronto, avvio del lavoro di costruzione del protocollo operativo».

 

Alessandro Salvi: Il sostegno psico-sociale prima, durante e dopo il parto è un servizio indispensabile anche per la prevenzione dell’abbandono e dell’infanticidio

Alessandro Salvi, responsabile dell’area programmazione dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, dopo aver esposto la cornice legislativa in merito al non riconoscimento, ha ricordato come il quadro normativo attualmente abbia minori riferimenti alle leggi nazionali che in passato poiché la «legge 328 del 2000 ha assegnato alla competenza legislativa delle Regioni il compito di disciplinare il trasferimento ai Comuni delle funzioni in precedenza attribuite alle Province, ed è stata attuata una riforma dell’ordinamento costituzionale, caratterizzata dal processo di trasferimento della funzione legislativa “esclusiva” dallo Stato alle Regioni in molte materie prima riservate alla competenza statale, tra le quali la materia dell’assistenza sociale. La dimensione nazionale si riduce quindi attualmente in prevalenza ad orientamenti e indirizzi formulati a livello di piani di intervento nazionale, alla definizione dei livelli essenziali di assistenza e prestazioni, al sostegno alle istanze di coordinamento, confronto e scambio a livello interregionale e dei rapporti tra Stato e Regioni».

Salvi ha quindi evidenziato quale è stato il percorso della Regione Toscana relativamente ai temi legati all’abbandono e all’adozione e quali sono stati gli atti amministrativi in merito: «Prima, con la deliberazione di Giunta regionale n. 1218 del 12 novembre 2001, approvando un Accordo di programma per l’applicazione delle leggi in materia di adozione tra la Regione Toscana, i Comuni capofila delle zone socio-sanitarie e le Aziende sanitarie locali; poi, con una seconda deliberazione della Giunta regionale del 25 marzo 2002, n. 313, che ha approvato una Guida relativa all’adozione e strumenti operativi in materia di abbandono e maltrattamento dei minori; ancora, con un’ulteriore deliberazione di Giunta del 16 febbraio 2004, n. 101 che ha disposto il rinnovo del protocollo d’intesa fra la Regione Toscana ed il Tribunale per i minorenni di Firenze avente ad oggetto la collaborazione alla sperimentazione dei flussi informativi nell’area dei minori; più recentemente, con un’altra deliberazione del dicembre 2004 che ha disposto l’attuazione di un Programma di iniziativa regionale (P.i.r.) “Azione di sostegno alla natalità - Mamma segreta”, individuando un nucleo di funzioni poste in capo alle quattro Aree vaste di Firenze, Prato, Pisa, Siena, per la realizzazione di azioni connesse al progetto “Mamma segreta”».

Secondo Salvi tutto ciò non è sufficiente; bisogna quindi definire linee guida per sostenere processi finalizzati a:

«1) promuovere accordi e intese tra le diverse istituzioni per sancire un patto di collaborazione che costituisca la necessaria premessa dell’integrazione tra i diversi settori nello svolgimento del percorso di intervento (sociale, sanitario, ospedaliero, educativo, giudiziario, amministrativo). Ciò richiede di essere auspicabilmente inquadrato nei principi legislativi dalle Regioni, ma poi rinvia anche a gradi successivi di perfezionamento e attuazione che non escludono di passare attraverso strumenti specifici di regolarizzazione e formalizzazione delle intese e delle collaborazioni interistituzionali;

«2) determinare il modello organizzativo più funzionale in relazione ai seguenti criteri relativi al contesto preso in esame: dimensione relativa del fenomeno; risorse disponibili; caratteristiche della realtà territoriale (sotto il profilo socio-culturale, economico, geografico); forme di programmazione e gestione delle politiche; modalità di gestione degli interventi; buone pratiche in atto;

«3) riconoscere gli snodi operativi del percorso di intervento, prima, durante e dopo l’evento rappresentato dal non riconoscimento (il territorio ove il bisogno può manifestarsi e l’impegno dei servizi a intercettare i fenomeni di disagio della donna e del nucleo familiare; l’apporto delle strutture di accoglienza per gestanti in gravi difficoltà psico-sociali; il rapporto con gli operatori sanitari, il medico curante, i servizi distrettuali; il contesto ospedaliero dove spesso il problema della scelta se riconoscere il figlio emerge per la prima volta, con i complementi rappresentati dagli aspetti delicati del ricovero e dell’accettazione e il ruolo dei reparti di ostetricia-ginecologia; la fase post-parto, la denuncia di nascita, la segnalazione alla magistratura minorile, la tutela e l’assistenza della donna);

«4) riconosciute le forme dei diversi “crocevia”, fornire ai servizi protocolli operativi che – come bussole – sappiano delineare il percorso interistituzionale e interdisciplinare, fondato su una rete efficiente di servizi e che definiscano le procedure di intervento, così da porre ogni operatore in grado di individuare e attivare canali operatori corretti».

Alessandro Salvi ha concluso il suo intervento ricordando:

• «in primo luogo il valore della documentazione e del contributo che essa può dare alla definizione delle esperienze, alla loro diffusione e consolidamento; questo apporto specifico non è affatto trascurabile se pensiamo, come bene testimoniano anche gli stessi protagonisti del progetto “Madre segreta” di Milano e “Mamma segreta” di Prato, che interventi migliori possono nascere proprio dalla migliore comprensione dei fenomeni e dei diversi aspetti in gioco elaborati e utilizzati dagli operatori in prima persona attraverso strumenti e metodologie corrette e rigorose;

• «in secondo luogo il valore dell’investimento che il sistema di servizi compie nel corrispondere positivamente agli interventi in materia di prevenzione e contrasto agli abbandoni e agli infanticidi: penso in particolare all’esigenza di integrazione che questo tipo di interventi richiama e richiede a tutti i soggetti e alla possibilità di utilizzare al meglio questa sollecitazione per potenziare le capacità dei servizi di mettersi in rete e di produrre giochi a somma positiva;

• «in terzo luogo, penso in particolare all’esperienza che più ho avuto modo di conoscere da vicino, quella realizzatasi a Prato, e al fatto che parti o elementi di quel progetto sono state “sfruttate” positivamente in termini di ritorno e ricaduta ad esempio per riflettere e migliorare le strategie e gli strumenti della comunicazione pubblica in rapporto all’utenza dei servizi o ancora per effettuare una ricognizione aggiornata delle risorse pubbliche e private di accoglienza e assistenza esistenti sul territorio».

 

Michela Calabria e Maria Brigida Frasca: Il sostegno psico-sociale alle partorienti in gravi difficoltà e la necessaria collaborazione dei servizi ospedalieri con quelli territoriali

L’Ospedale ostetrico-ginecologico Sant’Anna di Torino, uno dei maggiori centri europei di maternità, con i suoi circa 8.500 parti all’anno, è sicuramente un osservatorio privilegiato in merito all’argomento nascite. Fin dal 1975 presso l’Ospedale è attivo il servizio sociale ospedaliero, all’epoca istituito per assistere le gestanti nubili in difficoltà e per permettere uno sveltimento delle procedure dell’adozione dei neonati non riconosciuti alla nascita. Le azioni svolte dal Servizio sociale negli anni si sono consolidate e si sono adattate ai cambiamenti verificatisi in merito ai riferimenti legislativi, al contesto istituzionale, mutato sia a livello sanitario che socio-assistenziale, e alla tipologia di utenza.

Michela Calabria, assistente sociale del sopra citato ospedale Sant’Anna, ha esaminato e sviluppato il tema del ruolo del servizio sociale ospedaliero prima, durante e dopo il parto nei riguardi delle donne che decidono di non riconoscere il nascituro. L’osservazione del fenomeno del non riconoscimento alla nascita ha le seguenti finalità:

• «analizzare l’intervento offerto dal servizio sociale ospedaliero, prima, durante e dopo il parto alle gestanti che decidono di non riconoscere il proprio nato;

• «riconoscere i bisogni delle gestanti per rispondervi in modo adeguato;

• «puntualizzare sia l’intervento dei servizi territoriali coinvolti, sia il comportamento di altre professionalità che operano in ospedale (personale medico e paramedico);

• «formulare ipotesi operative che permettano di migliorare l’assistenza alla gestante e garantire al neonato il diritto ad avere una famiglia nel più breve tempo possibile, attraverso interventi precoci e tempestivi».

Le analisi fatte dal servizio sociale testimoniano come le donne che non hanno riconosciuto il proprio nato dopo il parto nel periodo 1990-2004 siano state 179 e che, mentre nel 1990 si trattava quasi esclusivamente di italiane, col passare degli anni le donne straniere sono diventate sempre più numerose, tanto che nel 2004 raggiungono il numero di 12 su 17. Per quanto riguarda l’età di queste donne la fascia più numerosa risulta essere quella compresa fra i 18 e i 29 anni.

Come ricordato da Michela Calabria «la stragrande maggioranza è rappresentata da donne nubili, separate e divorziate, che al momento del parto sono prive di un legame affettivo peraltro talvolta interrotto proprio a causa dello stato di gravidanza. L’elemento che accomuna la quasi totalità di queste donne è la solitudine nella quale si trovano sia durante la gravidanza, sia al momento del parto».

Per quanto concerne invece la situazione lavorativa «il dato più evidente è legato alla mancanza di occupazione da parte della stragrande maggioranza di donne che non riconoscono il loro nato, mentre solo una piccola parte risulta occupata. Questo significa che la disoccupazione e le precarie condizioni economiche sono indubbiamente fattori determinanti in questa scelta».

In merito alle donne italiane e straniere che riferiscono di guadagnare prostituendosi, Michela Calabria riferisce che «per quanto riguarda le italiane in genere si tratta di giovani donne nubili, spesso con problemi di tossicodipendenza. In entrambi i casi la gravidanza viene considerata “un incidente sul lavoro” e la scelta di lasciare il bambino è quasi obbligata».

Segnala inoltre che «più numerosi nel passato, oggi sempre più sporadici sono i casi di donne che provengono dal Sud. Generalmente sono molto giovani e vivono in famiglia; si trasferiscono a Torino solo negli ultimi mesi di gravidanza (quando il loro stato diventa evidente e non è più possibile nasconderlo) con il consenso della famiglia ospiti presso parenti o presso comunità per gestanti. Dopo il parto, a distanza di qualche giorno tornano a casa: sono sicuramente tra le più sole e che vivono questa esperienza in modo drammatico».

Sulla base dell’esperienza maturata nel settore, in merito alle motivazioni che determinano la scelta di non riconoscere il proprio nato, ha rilevato che «non c’è mai una sola causa, ma una compresenza di motivazioni legate a problemi di carattere sociale e personale, con implicazioni di natura psicologica. La causa più frequente è la mancanza di appoggi, l’impossibilità di contare sul partner o sulla famiglia d’origine, la quale risulta spesso multiproblematica e non può costituire una risorsa utilizzabile. La ricerca di un supporto esterno deriva anche da inadeguate condizioni economiche o da problematiche personali quali handicap fisici, psichici, tossicodipendenza. Per le giovanissime, la motivazione è legata all’età: non se la sentono di assumersi la responsabilità di un figlio che impedisce loro di realizzare i loro progetti di vita (finire gli studi, cercare un lavoro, continuare la vita di una qualunque coetanea)».

Puntualizza che «il pregiudizio e la cultura della comunità di appartenenza riguarda una piccola parte di donne italiane (soprattutto se vivono in piccoli centri), mentre è generalmente riferibile alle straniere per le quali un figlio fuori dal matrimonio è motivo di vergogna e di esclusione sociale».

Per quanto riguarda le donne straniere la loro esperienza ha evidenziato che la scelta del non riconoscimento dipende quasi sempre da:

• «una condizione lavorativa connotata da aspetti molto restrittivi: un lavoro da colf o da badante che non si vuole e non si può perdere e che appare incompatibile con la presenza di un bambino;

• «una condizione familiare di solitudine perché il coniuge è rimasto nel Paese d’origine o per la mancanza di un partner in Italia;

• «la carenza di risorse e servizi per le madri con bambini piccoli, soprattutto se prive del permesso di soggiorno;

• «la normativa del Paese d’origine che non riconosce la madre sola come soggetto di diritto».

Come ricordato da Michela Calabria una donna che arriva alla scelta del non riconoscimento «se maturata con consapevolezza, ricevendo il necessario sostegno per elaborarla, può viverla come responsabile “atto d’amore”, ovvero come decisione di affidare a mani più sicure delle proprie il bambino messo al mondo, per consentirgli l’accoglienza, l’accettazione, le cure, l’amore di cui ha bisogno per crescere in modo sereno ed equilibrato».

Maria Brigida Frasca, ostetrica presso l’Ospe­dale Sant’Anna ha raccontato la sua esperienza riferendo come le ostetriche non abbiano contatti prima dell’inizio del travaglio con le donne che non riconoscono il bambino. Dal punto di vista tecnico l’assistenza non differisce da quella prestata alle altre donne (valutazione della dilatazione, ascoltazione del battito cardiaco del nascituro, verifica del buon andamento del travaglio), ma diverso è lo stato emotivo delle donne che intendono non riconoscere. Ricorda Maria Brigida Frasca che «il momento dell’ascoltazione del battito cardiaco fetale è critico per questo tipo di donna: solitamente è emozionante per una neomamma sentire il suono del cuore del proprio bambino, mentre in questo caso specifico, è addirittura doloroso, forse più della contrazione stessa, come se ci fosse un continuo ricordarle che c’è un bambino che deve nascere e che sta bene. Tutto ciò avviene più volte durante il travaglio e la donna mantiene frequentemente un atteggiamento di apparente distacco dal nascituro, spesso voltando il viso dalla parte opposta, come se questo potesse bastarle».

Ruolo dell’ostetrica è anche gestire l’emozione della partoriente «senza lasciar trapelare giudizi e preconcetti, rispettando la donna che ha di fronte e che compie una così difficile scelta. Particolare attenzione viene prestata per il contenimento del dolore, se la donna lo desidera e non vi sono controindicazioni mediche, con analgesia peridurale o con rimedi alternativi non farmacologici. La difficoltà maggiore, riscontrata dall’ostetrica, è l’impossibilità di fare riferimento al bambino come motivazione per affrontare nel miglior modo l’esperienza difficile del parto».

Maria Brigida Frasca ha poi riportato alcuni casi realmente accaduti:

«Una donna di circa 30 anni, sposata, da qualche anno alla ricerca di un bambino, venne ricoverata per espletamento del parto. Fu sottoposta a taglio cesareo per difficoltà nel proseguimento del travaglio e con sorpresa partorì una bambina down. La allattò per tre giorni e non la riconobbe, d’intesa con il marito, che non se la sentiva di occuparsi di una bambina con problemi;

– «una donna di nazionalità francese di circa 30 anni venne a partorire al Sant’Anna. Era il suo secondo parto. Ebbe una bambina che tenne in braccio, in camera con sé, solo per poche ore. Quando chiese di portarla al nido perché non si sentiva troppo bene, si tolse il braccialetto identificatore e lasciò la bambina e l’ospedale;

– «una donna di circa 25 anni venne a ricove­rarsi un po’ di tempo prima della data presunta
del parto per contrazioni. Dichiarò immediatamente l’intenzione di non riconoscere il suo bambino. Quando tornò qualche settimana dopo per parto­rire, ci raccontò che si era da poco separata e
che aveva avuto un incontro occasionale con un altro uomo, dal quale aspettava il bambino che
portava in grembo. Abbandonata dalla famiglia, dall’ex marito, dal padre del bambino decise di non riconoscerlo. Quando nacque il bambino qualcosa scattò dentro di lei: i genitori le si riavvicinarono promettendo il sostegno che le avevano negato in tutti quei mesi e, dopo tre giorni, decise di portare suo figlio a casa con lei. Sembrava felice della scelta fatta;

– «una giovane donna musulmana, dopo il parto, dice di non voler riconoscere il suo bambino. Chiede di poterlo tenere un po’ tra le braccia. Poi ce lo affida e non lo riconosce;

– «una giovane donna magrebina partorisce assistita da una parente. Al momento della nascita del suo bambino ci comunica che non lo riconoscerà. Neanche l’accompagnatrice ne era informata. Vuole vedere il bambino, che subito dopo affida all’ospedale;

– «una rumena di 17 anni dichiarò al momento del ricovero che non avrebbe riconosciuto il suo bambino. Non vuole nessuno accanto a lei al momento della nascita, neanche sua madre che rimane fuori ad aspettare. Non vuole vedere la sua bambina».

Sulla base della sua esperienza ha poi evidenziato l’importanza di creare presupposti per la migliore accoglienza possibile nelle strutture sanitarie delle donne che scelgono il non riconoscimento. «Inoltre per tutelare la segretezza del parto è auspicabile che, al momento del ricovero ospedaliero, non siano indicati i dati anagrafici della donna nella cartella sanitaria, ma venga individuato un codice ad hoc».

Aurora Tesio: Progetto “Sos donna e parto segreto”

Aurora Tesio, Assessore pari opportunità della Provincia di Torino, ha portato, per quanto riguarda il problema del non riconoscimento, l’esperienza di “Sos donna”, progetto partito a Torino nel 1996 e attivato in collaborazione con il Centro italiano femminile, come strumento per contrastare il fenomeno degli abbandoni che mettono in pericolo la vita dei neonati. Nel territorio provinciale, ha ricordato la Tesio, il fenomeno non è più avvenuto, a riscontro dell’utilità della presenza di un numero verde supportato da un importante impegno operativo in merito, che ha permesso che fino ad oggi non si ripetesse quanto è successo in altre realtà.

La campagna partì con lo slogan “Non avere paura. La legge ti protegge”, utilizzato in spot pubblicitari messi in onda da televisioni e da radio, in locandine, cartelli e anche sulle confezioni del latte.

Oggi alla dicitura “Sos donna” è stata aggiunta la parte relativa al parto segreto per caratterizzare il tipo di intervento e l’aiuto che può essere richiesto in merito. Il numero verde (800-231310), legato all’iniziativa, è attivo in orario di ufficio, mentre per le restanti ore funziona la segreteria telefonica.

A partire dal 1996 le telefonate ricevute sono state 3.200, di cui 350 relative al parto segreto, di cui 45 decisive per il futuro dei nascituri e «tra queste si può affermare con ragionevole certezza che senza l’intervento delle telefonate e dei colloqui, almeno 24 donne avrebbero potuto lasciare il bambino in situazione di grave rischio».

Le altre telefonate avvenivano da parte di minori che chiedevano informazioni sulla contraccezione, di donne e uomini che volevano informazioni sulle separazioni e di donne vittime della tratta.

Il progetto ha inoltre previsto giornate informative per il personale degli ospedali ed in specifico dei reparti di ginecologia e di ostetricia, ha attivato rapporti con le altre Province ed oggi vi è la forte speranza che il numero verde possa essere offerto su tutto il territorio regionale. Il progetto è stato inserito anche nei progetti della legge 285/1997, quando ottenne un finanziamento e vennero organizzate informazioni giuridiche e attuate iniziative di sensibilizzazione degli operatori volontari.

Ovviamente grande importanza ha la distribuzione di materiale informativo, che col passare degli anni è stato predisposto in più lingue. È prevista, nelle prossime settimane, la distribuzione di 20mila copie di un opuscolo, in collaborazione con l’Unione per la lotta contro l’emarginazione sociale che avrà il testo in italiano, francese, inglese, spagnolo, russo, arabo e cinese, per rispondere alla sempre maggiore presenza sul nostro territorio di donne straniere.

Vi è poi una nota informativa, che comparirà su alcuni giornali quali “City” e “Metro”, distribuiti gratuitamente in città, poiché si è pensato che potesse essere uno dei modi per riuscire a raggiungere anche le donne immigrate, che è difficile acquistino un quotidiano, ma che più facilmente possono avere in mano uno di queste pubblicazioni gratuite.

Spesso per le donne immigrate il problema dell’interruzione di gravidanza e quello dell’utilizzo della legge relativa al parto segreto sono legate alle condizioni lavorative: il nostro territorio dovrebbe essere più accogliente e non considerare le straniere come un’emergenza, ma come donne che hanno diritti e quindi devono poter accedere ai servizi come gli altri cittadini.

 

Noemi Imprescia: Esperienze di sostegno alle gestanti, alle madri e ai minori

Noemi Imprescia, assistente sociale dell’Asl 4 di Prato, ha presentato il progetto “Mamma segreta” di Prato, promosso dall’Assessorato alle politiche sociali della Regione Toscana in collaborazione con l’Istituto degli Innocenti di Firenze, a cui partecipa un gruppo di 14 persone con varie professionalità. La Regione Toscana ha scelto la cittadina di Prato per attuare il progetto poiché qui vi è un unico punto nascita con una buona collaborazione fra gli enti e le istituzioni e un adeguato livello di integrazione tra ospedale, servizi e associazioni presenti sul territorio. Dal 1999, data di inizio del progetto, si sono rivolte al servizio quaranta donne. Obiettivo del progetto, nato come sperimentale, è la prevenzione degli abbandoni alla nascita che possono mettere a repentaglio la sopravvivenza dei bambini e la tutela delle gestanti e madri in gravi difficoltà.

«L’abbandono traumatico – ha ricordato Noemi Imprescia per quanto statisticamente “raro” costituisce una questione di grande complessità che tende a sfuggire alla rete dei servizi sul territorio e che necessita di operatori con specifici strumenti professionali e metodologici. La questione dell’abbandono alla nascita si presenta come un tema complesso e rispetto al quale è necessario un tentativo di definizione che possa essere condiviso anche a partire da un esame semantico del termine. La definizione nella nostra esperienza parte da due aspetti: rifiuto e rinuncia. Il termine “abbandono” infatti è una parola con un duplice significato nel senso che può rappresentare sia il rifiuto e l’indifferenza ma anche la rinuncia e la delega. Il sovrapporsi di tali significati tende a confondere senso e valore al termine producendo pregiudizi e stereotipi sociali relativamente alle madri che abbandonano. L’abbandono può essere scelto dalla madre o da entrambi i genitori che, così facendo, rinunciano di fatto al compito di crescere ed allevare un figlio».

Per comprendere meglio il fenomeno, secondo Noemi Imprescia, è opportuno proporre due livelli di riflessione. «La prima riflessione riguarda il fatto che l’abbandono è un comportamento che incide in maniera significativa sulla vita e il destino di almeno due soggetti: la madre e il bambino. Il termine rinuncia significa “potere di un soggetto di abbandonare un diritto di cui è titolare” (Zingarelli, Vocabolario della lingua Italiana, Zanichelli, Bologna, 2003): in questo caso l’accento viene posto sul diritto di chi rinuncia a svolgere il ruolo di genitore, ma non viene preso in considerazione il diritto di chi viene abbandonato di essere figlio.

«La seconda riflessione riguarda i diversi livelli di consapevolezza dei genitori che optano per l’abbandono alla nascita del figlio. La rinuncia alla dimensione della genitorialità non richiede necessariamente una consapevolezza da parte della madre o dei genitori di effettuare, mettere in atto, realizzare una scelta nell’interesse del neonato. Il termine scelta significa “decisione volontaria in base alla quale tra le tante possibili si assume una determinata possibilità” (Zingarelli, Ibidem); pertanto se viene chiarito il carattere non coattivo, volontario, della scelta rimangono in ombra le reali motivazioni che portano ad assumere certe decisioni.

«Sul piano della realtà ci si trova di fronte, anche, a madri, pur consapevoli di ciò che stanno facendo, ma proprio per questo totalmente incapaci, in quel preciso momento, di mettersi empaticamente nei panni del bambino e comprendere le conseguenze del loro comportamento. A questo proposito è utile segnalare il fatto che alcune di queste madri tendono a strutturare l’esperienza dell’abbandono come una esperienza traumatica e drammaticamente dolorosa sul piano intrapsichico e “trascorrono la loro vita percependo il dolore come per l’amputazione di un arto inesistente” (Sorosky A., Baran A., Pannor R., The adoption triangle: the effects of the seated recordon adpotees, birth parents and adoptive parents, Anchor Press, New York, 1978). A queste considerazioni sulla complessità antropo­logica e psicologica che è sottesa all’esperienza dell’abbandono, va aggiunto un ulteriore livello di riflessione sugli effetti dell’abbandono dal punto di vista del neonato. Le modalità con cui il genitore realizza l’abbandono possono incidere sul processo di elaborazione del trauma da parte del neonato, ma è arduo potersi esprimere circa le possibilità che il bambino possa essere preservato in qualche misura dalle conseguenze post-traumatiche. A questo punto diventa importante e significativo la messa in atto di una buona pratica adottiva che possa accogliere la complessità esperienziale del soggetto».

Il lavoro svolto dall’équipe di “Mamma segreta” (che, purtroppo, è un servizio di bassa soglia, che quindi non tiene interamente conto delle norme della tuttora vigente legge 2838/1928) è quello di accompagnare in modo discreto e puntuale la donna sia dal punto di vista informativo che emotivo. «Il progetto – ha spiegato Noemi Imprescia è stato avviato nell’anno 1999 ed è stato caratterizzato dalla costruzione di un gruppo di operatori appartenenti agli enti ed alle istituzioni partner (pubbliche e private), di area sociale, sanitaria ed educativa, coinvolti a diverso titolo e per le rispettive competenze nella gestione di casi di abbandono e non riconoscimento del bambino alla nascita. Il gruppo ha affrontato una formazione e a conclusione del periodo di sperimentazione ha avuto il riconoscimento a livello istituzionale come gruppo funzionale e trasversale alle altre realtà pubbliche, territoriali e ospedaliere; si è realizzato così uno spazio dedicato, e non un servizio ad hoc, per un intervento a bassa soglia senza presa in carico istituzionale. Gli operatori infatti mantengono il proprio inquadramento professionale e dedicano uno spazio del proprio ambito alle attività di mamma segreta. L’obiettivo è quello di offrire un servizio rivolto a sostenere, in maniera competente, la volontà della donna, nel momento particolare della sua vita, quando, prima, durante e dopo il parto, sta riflettendo sulla propria situazione e su quella del bambino, sulla possibilità/volontà di essere madre o meno. I destinatari dell’intervento di “Mamma segreta” sono quindi due soggetti: la donna che non intende riconoscere il neonato e il neonato non riconosciuto».

 

Matilde Guarnieri: Esperienze di sostegno alle gestanti, alle madri e ai minori

Matilde Guarnieri, responsabile del Servizio “Madre segreta” della Provincia di Milano, ha esposto l’esperienza del suddetto servizio, istituito nel 1996, per approfondire il tema del non riconoscimento nella realtà locale e per promuovere e gestire gli interventi in merito.

Il dato di circa 400 non riconoscimenti all’anno sul territorio nazionale testimonia «la realtà di un’impossibilità materna. Più numerose ancora sono le situazioni di disagio nel rapporto madre/bambino trattate dai diversi servizi, a volte con l’esito doloroso di una separazione dalla madre e di un’adozione tardiva. (…) In alcuni casi la donna diviene consapevole della propria impossibilità e sceglie con sofferenza di rinunciare al figlio separandosene alla nascita. In altri casi lo tiene con sé, ma può dare l’avvio ad un legame estremamente difficile se nasconde il problema per paura di essere giudicata e si nega la possibilità di essere aiutata ad affrontare ciò che prova».

Spesso, infatti, la donna che non riconosce il bambino è giudicata male dal punto di vista socio-culturale.

«A livello dei servizi gli operatori si confrontano con problematiche istituzionali, professionali e personali; aspetti emotivi ed affettivi complicano inoltre ancor più il lavoro. Nei servizi sociali e negli ospedali lo sforzo di integrare comprensione e azione, competenze professionali e culture territoriali è continuo. Questo si scontra però con una debolezza di riferimenti di metodo e di “apprendimenti dall’esperienza” in grado di orientare specifici progetti di sostegno, comprensione, contenimento e attenzione al neonato».

Proprio dall’analisi di questa situazione nacque “Madre segreta” che, come ha ricordato Matilde Guarnieri, svolge la sua attività “in tre aree collegate tra loro:

• «le donne in difficoltà, con la linea verde 800.400.400 e il Progetto Arianna;

• «il territorio nei suoi servizi sociali e sanitari con interventi di formazione, aggiornamento, promozione delle reti locali e consulenza, oltre che con la gestione di uno spazio di documentazione;

• «il contesto sociale in generale, con interventi di comunicazione e di sensibilizzazione».

Il numero verde, attivo dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 22 e il sabato e festivi dalle 10 alle 14, è a copertura nazionale e consente l’anonimato. «Le donne che chiamano parlano di sé e della propria gravidanza, portano la loro realtà di vita e i loro problemi, chiedendo ascolto e informazioni. Un gruppo di persone, appositamente preparate e in costante supervisione, garantisce una prima risposta di accoglienza, ascolto e informazione in collegamento con i professionisti di “Madre segreta”, che quando è necessario intervengono direttamente. Questo primo contatto può innescare percorsi diversi, dall’informazione su diritti, risorse e procedure, all’avvio ad un servizio territoriale adatto, alla consulenza dei professionisti di “Madre segreta” (telefonica o presso la sede del servizio) e a quant’altro può essere opportuno per rispondere a questa richiesta».

Ogni anno viene svolta un’indagine statistica, in forma anonima, sulla base dei dati di un campione di trecento chiamate. La statistica del 2003, ultima effettuata, ha fornito questi dati, riportati da Matilde Guarnieri: «La linea verde è utilizzata in prevalenza dalle donne italiane che costituiscono il 62%. La presenza delle straniere dal 1999 è però progressivamente aumentata fino a raggiungere il 38% nel 2003. Riguardo all’età, il 74% è nella fascia tra i 18 e i 36 anni. (...) Il 77% delle donne è nubile. (…) Il 33% è privo di occupazione, mentre studia il 24 % e lavora il 33%. Il 73% è alla prima gravidanza, mentre il 27% che ha avuto altri figli è costituito in prevalenza da donne straniere, che chiedono spesso informazioni per l’accesso all’assistenza sanitaria e a risorse assistenziali. (…) Per il 62% la relazione con il padre del nascituro si è interrotta. Nell’81% dei casi l’uomo è al corrente della gravidanza, ma di questa percentuale il 64% non è disponibile alla paternità. (…) Nel 51% delle situazioni il contesto famigliare è dichiarato assente, cioè non è percepito come una possibile risorsa di supporto affettivo. (…) La prima chiamata alla linea viene fatta nel 38% dei casi entro il terzo mese di gravidanza, tra il terzo e il sesto nel 33% e dopo il sesto nel 29%».

È stata organizzata un’importante rete di riferimenti verso i quali vengono indirizzate le donne
che telefonano alla linea verde e che coinvolgono i servizi sociali e sanitari delle Asl e dei Comuni e le organizzazioni che si occupano dell’area ma­terna.

Precisa la dottoressa Guarnieri: «Per le situazioni in cui è utile un intervento preparatorio all’avvio al servizio territoriale, e per quelle che non possono trovarvi un riferimento, “Madre segreta” ha strutturato presso il servizio un’area specialistica protetta e riservata». Le donne in assoluto anonimato vengono informate sul diritto di essere aiutate e tutelate nel gestire la propria situazione; in tal modo acquisiscono la fiducia necessaria per rivolgersi al servizio locale.

Tutta questa rete consente alle donne di avere un punto di sostegno che le aiuta ad affrontare l’angoscia e l’isolamento e «permette inoltre di recuperare la propria capacità progettuale favorendo una scelta ponderata e consapevole alla nascita del bambino. La consapevolezza delle proprie motivazioni nel riconoscimento o nella rinuncia potrà aiutare la donna a continuare la propria vita con sufficiente forza e serenità».

È stato inoltre attivato il “Progetto Arianna” per tutte quelle donne, molto meno numerose, che temono di potere essere individuate e per questo non sono disposte ad avvalersi del servizio locale.

«Attraverso il Progetto Arianna le donne vengono seguite dalla gravidanza fino alla nascita del bambino, secondo un programma di interventi di supporto personale e sociale adeguati alla loro particolare situazione. Viene loro assicurata inoltre la possibilità, anche nel tempo, di ricevere un so­stegno personale dopo la separazione dal bam-bino. Quando le donne scelgono di riconoscere il bambino ed occorre attuare un progetto di aiuto, viene coinvolta la rete dei servizi pubblici e del privato sociale che intervengono nell’area della famiglia».

Con il Progetto Arianna sono state seguite, dal 1998 al 2003, 149 donne, 58 italiane e 91 straniere: di queste circa il 40% ha poi riconosciuto il bambino, mentre il 60% non lo ha riconosciuto.

 

Luciano Tosco: Esperienze di sostegno alle gestanti, alle madri e ai minori

Luciano Tosco, coordinatore delle politiche socio-sanitarie e del settore minori del Comune di Torino, in merito al tema ed alle finalità del convegno ha svolto alcune considerazioni sulle condizioni che possono, nell’interesse del minore, rendere necessari interventi di allontanamento del bambino dall’ambiente familiare.

«Le situazioni di fragilità o esclusione della donna con figli che spesso comportano la necessità di interventi di aiuto e sostegno in accoglienze di tipo residenziale sono riconducibili alle seguenti condizioni:

- grave deprivazione e marginalità socio-culturale-relazionale-reddituale (povertà relativa). In particolare si riscontra, soprattutto nelle madri, un aumento delle problematiche relative alla salute mentale senza interventi richiesti e/o attivati dai servizi sanitari preposti nonché delle violenze e maltrattamenti intrafamiliari ai figli e/o alla donna;

- presenza in condizione di irregolarità sul territorio nazionale sia del genitore che del minore in situazione di povertà assoluta (assenza o precarietà dei beni primari quali casa e reddito);

- sfruttamento grave (es. prostituzione);

- dipendenza da sostanze e/o disturbi psichiatrici del/i genitore/i;

- carcerazione di un genitore (in genere il padre);

- trascuratezza grave, abusi sessuali da parte di un genitore».

Inoltre, secondo Tosco «occorre rilevare che spesso le condizioni sopra elencate sono compresenti nella stessa famiglia (quasi sempre priva di una rete sociale primaria in grado e disponibile ad aiutarla) prospettando un quadro ancora più difficile e complesso di multiproblematicità».

Pertanto la diversità delle situazioni crea differenti bisogni; ne consegue che gli interventi ed i servizi in merito debbono essere numerosi, vari ed articolati.

Luciano Tosco ha rilevato che le donne per le quali si rendono necessari interventi residenziali possono essere in una situazione di:

- «esclusione, cioè non capacità/possibilità personale di “giocare” con le risorse e le regole socialmente accettate. In questi casi si prospetta un pregiudizio per la crescita del bambino per situazioni di rilevanti carenze relazionali, di accudimento, materiali, di abilità sociali e di organizzazione della vita quotidiana. Si pensi per esempio alla situazione di tossicodipendenza che rende estremamente problematico il reperimento e il mantenimento di un lavoro ma anche l’esercizio delle capacità e competenze genitoriali oppure a problematiche di salute mentale. È quindi necessario (anche a seguito di provvedimenti dell’Autorità giudiziaria minorile) un ambiente “protetto”, con una presenza educativa costante ed intensa, per il sostegno, l’osservazione e la valutazione delle competenze genitoriali;

- fragilità sociale, cioè capacità di “giocare” con le risorse e le regole socialmente accettate ma in condizioni tali da rendere difficile l’esercizio di queste competenze. Per esempio la donna vittima di
continue violenze intrafamiliari ma con sufficienti competenze nella relazione con i figli e ad esercitare una attività lavorativa. Oppure la donna con figli in difficoltà non solo abitativa ma per la quale gli interventi di sostegno alla genitorialità avrebbero potuto essere effettuati presso la propria casa, se disponibile (es. affidamento diurno, educativa territoriale, assistenza domiciliare) e per la quale quindi non è necessario un inserimento in ambiente “protetto”».

Di fronte a tutta questa varietà di situazioni l’obiettivo principale è quello di favorire l’unità
familiare e dare al bambino l’opportunità di vivere con almeno un genitore, che avrà comunque
bisogno di un sostegno educativo, psicologico e lavorativo.

Inoltre per le donne di cui sopra vanno promosse iniziative affinché non siano escluse dal punto di vista sociale. «Questo comporta la costruzione, sperimentazione e/o implementazione di una rete di servizi, interventi ed accoglienze plurali tali da permettere risposte il più possibile differenziate a bisogni sempre più diversi e articolati, nonché percorsi individualizzati all’interno della rete stessa. In specifico:

– comunità alloggio madre/bambino educative e terapeutiche per le situazioni più difficili ove è necessario osservare, sostenere e valutare le competenze genitoriali affettive, relazionali e pratiche, nonché aiutare allo sviluppo delle capacità sociali. Nella realtà piemontese le comunità alloggio educative mamma-bambino sono normate, relativamente ai requisiti strutturali, gestionali ed organizzativi dalla deliberazione della Giunta regionale 15 marzo 2004 n. 41-12003 alla cui stesura il Comune di Torino ha fornito un significativo apporto di esperienza;

 – le comunità terapeutiche per donne con problemi di dipendenza in gravidanza oppure con i loro figli o ancora per coppie tossicodipendenti con figli sono previste, ma non normate dal citato provvedimento. Nello specifico della realtà torinese la maggior parte delle comunità di cui sopra in cui la Città inserisce madri con bambino sono di organizzazioni del privato sociale in rapporto di accreditamento con il Comune, mentre tre sono gestite direttamente dalla Città in nome e per conto della Provincia. Infine una comunità di pronto intervento per la prima accoglienza e osservazione/valutazione delle competenze genitoriali è gestita in convenzione tramite appalto-concorso. In tutte queste comunità sono state accolte dall’inizio di quest’anno quasi 200 madri e loro figli;

 – strutture di autonomia e gruppi appartamento per quelle donne con figli che si trovano nella condizione di fragilità sociale o sono uscite da quella di esclusione ma non ancora in grado di “camminare con le proprie gambe”. Le strutture di autonomia sono denominate dalla citata delibera della Giunta regionale piemontese n. 41-12003: “Pensionati integrati”. Sono strutture extraalberghiere ai sensi della legge regionale 31/1985 che possono ospitare, su specifico progetto, madri con bambino e giovani già ospiti in strutture residenziali o per i quali, dato il loro livello di autonomia, non è accettato né opportuno l’inserimento in comunità. I gruppi appartamento per gestanti e madri con bambino sono normati dalla citata deliberazione. Hanno come obiettivo quello di offrire a persone con una si­gnificativa capacità di autogestione sia un so­-
stegno temporaneo a livello abitativo sia un sup­porto e un accompagnamento all’autonomia pro­fessionale e lavorativa. Ciò attraverso l’apporto anche di personale con funzioni educative, di appoggio e di orientamento. Possono far parte del gruppo appartamento donne in difficoltà grave, anche con bambino, per motivi socio-ambientali, che rendono necessaria una diversa sistemazione dal nucleo di origine ma il cui rapporto con il figlio è valido e un allontanamento dalla mamma risulterebbe di pregiudizio per lo sviluppo dello stesso. Inoltre è rivolto a donne che hanno già fatto un percorso in strutture residenziali in cui è stato aiutato e supportato lo sviluppo della competenza genitoriale e verificato un positivo rapporto madre-bambino ma che necessitano ancora di protezione prima di essere avviate in via definitiva a percorsi di autonomia;

– progetti di autonomia, a cura delle comunità alloggio educative e terapeutiche, che prevedono interventi individualizzati (es. reperimento alloggio in affitto per il nucleo mamma-bambino e sostegno alcune ore la settimana da parte di un educatore). Nello specifico della realtà torinese i progetti di autonomia sono previsti dagli accordi di accreditamento del Comune con gestori di strutture residenziali per minori (comprese quelle madre con bambino). La Città inserisce gestanti e mamme con figli in otto gruppi appartamento e in tre pensionati integrati tutti a cura del privato sociale. Gestisce inoltre direttamente il “Centro residenziale autonomia donna” (Crad) costituito da otto mini alloggi in uno stesso edificio. A questi si sono successivamente aggiunti due alloggi in altro stabile per le madri con figli che non hanno più necessità di alcun supporto ma non sono ancora riuscite a reperire una sistemazione abitativa. Al Crad sono assegnati tre educatori a tempo pieno e un coordinatore a tempo parziale per seguire e aiutare le ospiti nel loro percorso di autonomia. Nei gruppi appartamento, nel Centro autonomia donne, nei pensionati integrati e nei progetti di autonomia, a cura del Comune di Torino, dall’inizio dell’anno sono state accolte oltre 160 madri e loro figli».

 

 

Dibattito

 

Prima del termine dei lavori della mattinata è stato aperto un dibattito al quale sono intervenuti alcuni dei partecipanti al convegno.

 

Raffaella Moioli, del Consultorio “La persona al centro” di Biella ha segnalato il progetto, partito nel 2002, “Maternità in famiglia” presso l’ospedale di Biella. Nella loro realtà è presente il problema delle donne straniere e di quelle affette da problemi psichiatrici, piuttosto che da dipendenza da altre sostanze. Sono numerose le interruzioni di gravidanza da parte di persone che non hanno queste caratteristiche, ma che giungono in ospedale con tale richiesta soprattutto a causa di condizioni sociali e lavorative precarie o di situazioni affettive non stabili.

Lavoro dunque importante è quello degli operatori, in questa fase del percorso della donna che ha difficoltà ad assumere il ruolo di genitore. Inoltre Raffaella Moioli ha ricordato l’importanza del supporto da garantire alla donna che sceglie di riconoscere il bambino, ma che lo alleva con un livello di conflittualità estremamente alto.

 

Claudia Deagatone, operatrice sanitaria della Asl 20, consultorio di Tortona, ha chiesto chiarimenti in merito al ruolo delle mediatrici culturali.

Ha risposto Michela Calabria, ricordando che presso l’ospedale Sant’Anna di Torino è presente dal 1997 la mediatrice culturale, inizialmente solo di lingua araba poi, in seguito al sempre maggior numero di donne straniere che accedono al servizio sanitario, sono state inserite anche mediatrici di altri Paesi. L’integrazione tra operatori e mediatori è buona e si lavora bene perché è chiaro che il loro ruolo non è solo quello di interpretare, ma di mediare le esigenze della donna con quelle dell’operatore; inoltre non devono essere rigide e portare avanti solo la loro esperienza culturale, ma tenere conto della cultura del Paese nel quale sono inserite o dal quale provengono le partorienti. Si tratta dunque di un lavoro in rete di collaborazione a livello linguistico e culturale: gli esiti sono validi ed hanno permesso di aiutare le donne a fare le loro scelte nel modo più sereno possibile.

In merito all’argomento Giulia De Marco ha sottolineato che le mediatrici fungono un po’ da interpreti e un po’ da mediatrici e che bisogna spiegare loro bene i due momenti e non permettere che si faccia confusione. Ci sono momenti in cui si pongono domande che devono essere tradotte alla lettera ed altri in cui la mediatrice, nei colloqui con il giudice, spiega e rende partecipi, media fra le due culture per spiegare perché è stata data una certa risposta o perché non viene data alcuna risposta o perché una persona tiene un determinato atteggiamento.

Come ha ricordato la stessa De Marco si tratta di un lavoro difficile e non tutti purtroppo hanno ancora raggiunto una preparazione adeguata.

 

Claudia Roffino, dopo aver evidenziato di essere presente grazie al fatto di non essere stata abbandonata, ma non riconosciuta alla nascita, ha ricordato come nei suoi confronti siano state fatte due scelte, doppiamente consapevoli e responsabili: quella di chi l’ha messa al mondo, che ha compreso di non essere in grado di svolgere il ruolo di genitore, e quella di chi, i suoi genitori adottivi, ha scelto invece di svolgere quel ruolo.

Ha poi ribadito l’importanza dei diritti di cui si è parlato nella mattinata: la scelta di non riconoscere; l’informazione, tenendo conto delle nuove e sempre più frequenti realtà di donne straniere, per cui sarebbe adeguata l’attivazione di un numero verde nazionale per rendere più agevole la possibilità di usufruirne; il segreto del parto, da mantenere nella sua assolutezza, nonostante la richiesta di alcuni non riconosciuti ormai adulti di poter accedere ai dati della donna che li ha messi al mondo, ricordando che i diritti fondamentali sono quelli del bambino e non dell’adulto. L’unico cruccio che afferma di avere è il dubbio che la donna che l’ha messa al mondo, facendole il dono della vita, non abbia avuto l’adeguata assistenza prima, durante e dopo il parto, diritto che le spettava in virtù di quei diritti espressi dalla legge del non riconoscimento numero 2838 del 1928.

 

 

Marco Borgione: Apertura dei lavori del pomeriggio

Marco Borgione, Assessore alla famiglia e ai servizi sociali del Comune di Torino, ringraziando per l’invito rivoltogli a partecipare nella veste di moderatore, ha aperto i lavori del pomeriggio in cui sono stati affrontati i temi dei diritti di tutti i bambini fin dalla nascita alla famiglia e della prevenzione dell’abbandono dei minori con un taglio più istituzionale.

Ha sottolineato come la legge sancisca il diritto del minore alla famiglia: le scale di priorità prevedono dapprima un sostegno alla famiglia originaria con interventi sociali e di sostegno al reddito; quando tali aiuti non bastano è necessario procedere all’affidamento, poiché in tal caso la permanenza del minore presso il suo nucleo familiare sarebbe un grave pregiudizio allo sviluppo del minore stesso. Per quanto concerne la città di Torino gli affidamenti residenziali disposti ogni anno ammontano a circa seicento.

Ha poi ricordato quanto detto in mattinata da Luciano Tosco in merito alle strutture residenziali per madre e bambino e alle comunità presenti nel territorio cittadino: la città di Torino ha attivato non solo queste strutture, ma anche le opportunità di accesso ai servizi primari per le famiglie.

 

Pasquale Andria: Come garantire fin dalla nascita ai minori in gravi difficoltà il diritto alla famiglia

Pasquale Andria, presidente dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e la famiglia e del Tribunale per i minorenni di Potenza, dopo aver ringraziato gli organizzatori del convegno per aver offerto questa importante occasione di riflessione sulle problematiche relative alle gestanti e alle madri in difficoltà, ha affrontato l’argomento con un taglio tecnico-giuridico.

In merito al problema del come garantire fin dalla nascita ai minori il diritto alla famiglia ha ricordato che nel sistema legislativo vigente vi sono contraddizioni che, a suo dire, sono più apparenti che reali, ma che al momento della loro applicazione si rivelano spesso distorsive.

Pasquale Andria ha evidenziato, per quanto concerne la segretezza del parto, l’importante legge del 1928 n. 2838, ripresa nell’ordinamento dello stato civile del 1939 e poi dal nuovo ordinamento dello stato civile del 2000, che offrono la possibilità o meglio il diritto alle donne di non essere nomi­nate.

Il non riconoscimento è una scelta saggia a tutela del bambino, concreta alternativa alla interruzione di gravidanza, all’infanticidio e all’abbandono non protetto, ma è anche una forma di tutela della donna da altre scelte ben più traumatiche e laceranti, vissute nella solitudine e nella disperazione, ovviamente a condizione che questa decisione sia assunta con la massima responsabilizzazione possibile e con la più ampia libertà da condizionamenti esterni.

I temi dell’accompagnamento, del sostegno, della responsabilizzazione nella fase preparto e di quella immediatamente successiva, condotti in modo integrato tra servizi ospedalieri e servizi del territorio, come ha sottolineato Andria, sono quanto mai importanti perché anche i diritti della donna non divengano degli atti meramente formali o non si traducano in scelte forzate.

Per quanto riguarda il diritto del bambino non riconosciuto alla famiglia il Presidente del Tribunale per i minorenni di Potenza ha ricordato la norma centrale, l’articolo 11 della legge 184/1983 sull’adozione, modificata dalla legge 149/2001.

Il suddetto articolo, con i suoi vari commi, prevede un procedimento accelerato e molto semplificato dell’adottabilità: affida al Tribunale per i minorenni l’iniziativa nella promozione del procedimento di adottabilità per i non riconosciuti e attraverso l’accelerazione procedurale conferma in qualche modo implicitamente l’opzione presente nel nostro ordinamento giuridico, non da oggi, ma dal 1928 con la legge 2838.

L’articolo 11 della legge 184/1983 consente dunque l’immediata dichiarazione dello stato di adottabilità: il mantenimento di questa norma e la sua corretta applicazione sono elementi fondamentali per realizzare il diritto alla famiglia dei minori non riconosciuti.

La disciplina di questa rapida pronuncia dell’adozione prevede una ipotesi di sospensione obbligatoria, disposta di ufficio, nel caso in cui il genitore non possa riconoscere il figlio perché minore di sedici anni: in questo caso la sospensione si prolunga fino al compimento del sedicesimo anno, con possibile proroga di altri due mesi, purché sussistano le condizioni di assistenza del minore.

Questa norma, come ha sottolineato Andria, contrasta con la legge sulla interruzione volontaria di gravidanza, che prevede che la minore di sedici anni possa decidere di interrompere la gravidanza; però se la stessa porta avanti la gravidanza la legge non le consente di riconoscere il nato.

Vi è poi una sospensione decisa dal giudice, su richiesta del genitore ultrasedicenne, che chieda un termine per effettuare il riconoscimento: in questo caso il giudice può concedere un termine non superiore a due mesi, sempre che sussistano le condizioni di assistenza del minore.

La dichiarazione di adottabilità e l’affidamento preadottivo, una volta intervenuti, rendono inefficace il riconoscimento; pronunciata l’adozione in via definitiva, l’eventuale giudizio concernente la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, già sospeso durante la procedura di adottabilità, si estingue.

La legge che riconosce alle donne il diritto di non essere nominate al momento del parto è stata pienamente confermata dalla legge 149/2001. Pur avendo aperto l’accesso alle origini da parte degli adottati, ha però previsto la preclusione dell’accesso alle informazioni se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla donna che l’ha procreato e qualora anche uno solo dei genitori abbia dichiarato di non volere essere nominato o abbia manifestato il consenso all’adozione, a condizione di rimanere anonimo.

Pasquale Andria ha poi ricordato l’articolo 93 (certificato di assistenza al parto) del decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196, con cui è stato adottato il codice per la protezione dei dati personali (Gazzetta ufficiale del 29 luglio 2003, n. 174, supplemento ordinario n. 123), contenente l’importantissimo articolo 30, che prevede che «il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui all’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000 n. 396, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento». L’articolo 177, 2° comma, del suddetto decreto legislativo stabilisce che l’accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della donna che abbia dichiarato al momento del parto di non voler essere nominata. Vietare l’accesso alle informazioni solo nei confronti della donna sembrerebbe, secondo Andria, consentire questa possibilità per il caso in cui ci sia stato il riconoscimento da parte del padre: aprire questa possibilità significa innescare una bomba ad orologeria, poiché indebolisce fortemente la donna, che invece l’esperienza ci ha insegnato essere soggetto da tutelare fortemente, in quanto, attraverso l’accesso alle informazioni sull’identità del padre, l’adottato potrebbe arrivare ad identificare la donna che lo ha partorito.

 

Antonio De Poli. Il trasferimento delle competenze assistenziali dalle Province ai Comuni: il ruolo delle Regioni

L’Assessore alle politiche sociali della Regione Veneto e Coordinatore interregionale degli Asses­sori alle politiche sociali, Antonio De Poli, ha inviato una lettera al convegno, letta dall’Assessore Angela Teresa Migliasso, che è riportata integralmente nell’allegato 4 delle conclusioni operative.

 

Angela Teresa Migliasso: Le scelte della Regione Piemonte volte ad assicurare idonee prestazioni socio-psico-sanitarie alle gestanti, alle madri e ai minori in difficoltà

Angela Teresa Migliasso, Assessore al welfare della Regione Piemonte, ha ringraziato la Provincia e l’Associazione promozione sociale «non solo per l’incontro di oggi, ma anche e soprattutto per il lavoro, per la storia, per la dedizione assoluta e ferma alla causa dei bambini in difficoltà».

Ha poi espresso la sua profonda preoccupazione in merito ai tagli finanziari che si stanno profilando per il 2006; molte delle prestazioni a cui hanno fatto riferimento i precedenti relatori, infatti, rischiano di essere messe pesantemente in discussione: sempre più difficile sarà perciò attivare, mantenere e potenziare i servizi.

Angela Teresa Migliasso ha poi esteso la sua preoccupazione anche in merito al recente disegno di legge presentato al Senato dalla Ministra Prestigiacomo sulle adozioni internazionali, le cui norme prevedono che la selezione/preparazione degli adottanti non sia più affidata ai servizi sociali degli enti locali e sia sufficiente la semplice pre­sentazione di una autocertificazione da parte delle coppie.

«In queste settimane – ha poi ricordato – con l’Associazione di promozione sociale e con l’Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie abbiamo lavorato ad un disegno di legge che pensiamo possa, da un lato, chiarire responsabilità e dall’altro assegnare risorse, per garantire la segretezza del parto e la continuità assistenziale alle nate e ai nati non riconosciuti e alle donne in difficoltà. È composta, naturalmente, di pochissimi articoli; modifica un articolo della legge della Regione Piemonte numero 1 dell’8 gennaio 2004, che prevede l’applicazione della legge regionale 328/2000, intitolata “Norme per la realizzazione del sistema regionale integrato di interventi e servizi sociali e riordino della legislazione di riferimento”. Si compone di un solo articolo, che modifica l’articolo 9 di questa legge, in 5 commi» (5).

Le norme a cui fa riferimento la Migliasso definiscono i destinatari degli interventi, trasferiscono le funzioni delle Province ad alcuni Comuni o Consorzi individuati da un successivo provvedimento e scelti fra gli enti gestori delle attività socio-assistenziali, garantiscono la continuità delle prestazioni a favore dei neonati non riconosciuti fino al momento dell’adozione definitiva. Gli interventi sono assicurati alle donne su semplice richiesta delle stesse e senza alcun vincolo per quanto concerne la loro residenza anagrafica. «Naturalmente per tutte le donne sono garantiti, nei primi sessanta giorni dopo il parto, gli interventi socio-assistenziali al fine di favorire il loro reinserimento sociale. Dopo tale periodo ai medesimi soggetti è assicurata la continuità assistenziale, secondo i criteri e le modalità attuative previsti dal comma 9 dello stesso articolo».

L’Assessore al welfare della Regione Piemonte ha sottolineato l’importanza di queste questioni e ha manifestato la propria soddisfazione per essere riuscita ad arrivare al cuore del problema predisponendo in tempo utile per il convegno la bozza di questo articolato che ora dovrà seguire l’iter istituzionale all’interno della Regione Piemonte, per essere poi esaminato dalla IV Commissione del Consiglio regionale ed infine ottenere l’approvazione del Consiglio stesso.

Angela Teresa Migliasso si augura «che questo iter (…) possa essere portato in porto abbastanza rapidamente, perché penso che ci sia una sostanziale uniformità di intenti, sulla necessità di garantire alle donne, sia che riconoscono il loro nato, la loro nata, sia che non lo riconoscono, e ai piccoli, gli interventi di cui hanno bisogno e hanno diritto».

I nati non riconosciuti, lungi dal diminuire, come sembrava fino a non molti anni fa, stanno invece aumentando e la casistica prevalente, secondo quanto evidenziato anche da precedenti interventi, non è più quella della adolescente italiana, ma è rappresentata prevalentemente da donne straniere o da donne in stato di forte deprivazione sociale: queste persone, che più di altre hanno avuto nel loro percorso di vita eventi dolorosi, traumatici per i quali portano dentro di sé ferite non facilmente sanabili e forse nemmeno guaribili, devono essere prese in carico e amorevolmente seguite, professionalmente accompagnate nel loro percorso di reinserimento sociale.

Il cambiamento della tipologia oltre che del numero dei soggetti colloca, secondo Angela Teresa Migliasso, la segretezza del parto e anche le attenzioni nei confronti della donna, che ha riconosciuto o non riconosciuto il proprio nato, in una dimensione che va oltre il diritto civilissimo alla segretezza: impone un approccio di sostegno ad alto contenuto assistenziale e sociale, spesso anche sanitario, richiede l’assegnazione di consistenti risorse e
l’intervento delle diverse professionalità coinvolte, che devono essere rafforzate e numericamente ampliate.

«Penso alle mediatrici culturali ha proseguito Angela Teresa Migliasso alle assistenti sociali, agli educatori, ma anche al mondo della sanità, che apparentemente pare non essere coinvolta dopo l’evento del parto, ma che invece, proprio per tutte le situazioni dolorose e traumatiche vissute, dovrebbero essere in campo, come risorsa pre­ziosa».

Con l’approvazione del disegno di legge preannunciato, con la messa a disposizione delle risorse necessarie, con il coinvolgimento pieno della rete delle autonomie locali e dei vari presidi socio-assistenziali e sanitari sul territorio, nonché con la competenza e l’impegno dei Comuni, l’Assessore Migliasso ritiene che sarà possibile raggiungere l’obiettivo prefissato.

 

Gina Pedroni: Il trasferimento delle competenze assistenziali delle Province alla luce delle esperienze del Comune di Reggio Emilia in materia di sostegno alle gestanti, alle madri e ai minori

Gina Pedroni, Assessore ai diritti di cittadinanza e pari opportunità del Comune di Reggio Emilia, dopo aver ricordato che tutte le azioni presentate oggi in materia di sostegno alle gestanti, alle madri e ai minori, portate avanti con grande fatica dagli amministratori e da chi «lavora in trincea», devono anche essere nutrite con finanziamenti adeguati, associandosi all’Assessore Migliasso in merito alla preoccupazione per i tagli previsti, ha sottolineato la preziosa importanza della “Carta del gemellaggio sociale”. Parlare di diritti è importantissimo: bisogna fare in modo che questi non rimangano sulla carta, ma che siano esigibili ed applicabili.

Dopo aver poi richiamato rapidamente quelli che sono stati gli sviluppi legislativi in merito alla tutela dei diritti della famiglia, della mamma e del bambino, ha rimarcato che ognuna di queste leggi non tutela mai abbastanza le persone, per cui sono sempre necessarie nuove integrazioni; inoltre ci sono zone che hanno lavorato di più ed altre di meno e per questo è necessario compiere controlli e verifiche.

Ha poi riassunto la normativa della Regione Emilia Romagna: la legge regionale 27/1989 “Norme concernenti la realizzazione di politiche di sostegno alla scelta di procreazione ed agli impegni di cura verso i figli” che ha portato alla costruzione di iniziative riguardanti in particolare la procreazione e la genitorialità. In seguito a questa legge sono nati servizi per le famiglie: si tratta di centri di accoglienza, informazione, ascolto, attivazione di progetti di mutuo aiuto, istituiti dai settori pubblico e privato, con la collaborazione delle parrocchie, delle Circoscrizioni e dei Centri sociali per anziani.

La legge regionale 9/2005, che prevede l’istituzione del garante regionale per l’infanzia e adolescenza, si pone l’obiettivo di assicurare la piena attuazione di tutti i diritti riconosciuti ai bambini e alle bambine, ai ragazzi/ragazze presenti sul territorio dell’Emilia Romagna.

Ha infine esposto le delibere del Consiglio regionale in tema di abuso sessuale, adozione ed affido:

• n. 1425/2004 concernente il protocollo regionale di intesa in materia di adozione tra la Regione Emilia Romagna, le Province, le istituzioni titolari delle funzioni in materia di infanzia e adolescenza, gli altri enti autorizzati;

• n. 1495/2003 riguardante l’approvazione delle linee di indirizzo per le adozioni nazionali ed internazionali in Emilia Romagna;

• n. 1378/2000 avente per oggetto una direttiva regionale in materia di affidamento familiare;

• n. 1294/1999 che stabilisce le linee di indirizzo in materia di abuso sessuale sui minori.

Gli sportelli famiglia sono attualmente aperti in alcune Circoscrizioni e c’è il progetto di estenderli in tutte. Attraverso questi sportelli, che operano anche come banca dati, vengono raccolte tutte le indicazioni utili alla continua verifica.

A Reggio Emilia, grazie ai finanziamenti della Regione, è stato aperto lo Sportello donna, che oltre alle funzioni di informazione e accompagnamento offre assistenza legale.

Le donne che nel 2004 si sono rivolte allo Sportello donna sono state 799, di cui più della metà straniere; rispetto alle problematiche relative alla segretezza del parto si sono rivolte ai consultori circa quindici donne clandestine all’anno e quest’anno, nel primo semestre, già venti.

All’interno dei consultori vi è l’“open g”, cioè il consultorio giovane, dove si accompagnano i minori nel percorso di comprensione per aiutarli a prendere una decisione, affiancandoli anche nel rapporto con i genitori, nel comunicare la notizia e nel decidere se tenere o no il bambino.

Una delle nuove iniziative della Regione Emilia Romagna ricordata da Gina Pedroni riguarda «l’inserimento nei servizi di una nuova figura professionale denominata “esperto giuridico” con l’obiettivo di affiancare le tradizionali figure come gli assistenti sociali, gli psicologi e gli educatori nella tutela dell’infanzia, dell’adolescenza e delle famiglie». Con questo nuovo professionista si vogliono raggiungere i seguenti obiettivi: «Supportare giuridicamente i servizi nelle situazioni difficili; potenziare l’efficacia e la tempestività nelle emergenze; sostenere gli operatori nella collaborazione con gli uffici giudiziari e gli organi di polizia; curare l’aspetto della legalità nelle relazioni tra enti e mass media per la tutela della dignità delle persone e della corretta rappresentazione del modo di funzionamento dei servizi».

Il territorio è un laboratorio in cui agiscono i vari soggetti pubblici e privati: i poli territoriali a Reggio Emilia corrispondono con le Circoscrizioni proprio perché tengono conto della specificità del territorio. È stata creata una figura specifica per l’accoglienza, in modo da poter costruire insieme il percorso più idoneo.

La politica del territorio parte dall’etica della cura assunta come valore pubblico: il territorio è il luogo di partecipazione del diritto di cittadinanza. L’orizzonte della normalità (poiché si lavora non solo sulle famiglie in sofferenza, ma anche sulla prevenzione) e la progettazione partecipata, cioè la condivisione e la conoscenza delle iniziative in atto, sono finalizzate alla promozione dei diritti, nonché alla presa di coscienza dei doveri, mettendo al centro le persone e le relazioni.

La persona con la sua famiglia ed il suo contesto sono assunti come riferimenti essenziali: i servizi hanno il compito di promuovere, di facilitare l’accesso, di abilitare, puntando sull’educazione, per trasformare l’assistenza in sussidiarietà.

 

 

Dibattito

 

Lucia Borgia, Vicepresidente della Commis­sione nazionale per le pari opportunità è intervenuta illustrando la campagna di informazione sul diritto al non riconoscimento che la Commissione sta attuando tramite un opuscolo in cinque lingue, distribuito anche ai partecipanti al convegno.

Tale campagna è partita nell’estate del 2005 con l’invio di opuscoli e depliants ai consultori familiari, alle aziende sanitarie locali, alle principali strutture ospedaliere, ai centri della Caritas, alle parrocchie, alle principali associazioni femminili, agli organismi di pari opportunità. L’invio è stato anticipato da una lettera informativa al Direttore della Caritas italiana, al Presidente della Conferenza episcopale italiana, ai venti Assessori regionali, agli Assessori dei Comuni con popolazione superiore ai 15mila abitanti, ai Direttori delle Asl, nonché ai dirigenti dei consultori familiari, delle associazioni e degli organi di parità.

Nel frattempo è cominciata, sui principali quotidiani e settimanali, la pubblicazione del simbolo del bambino chiocciola in cui viene illustrato il diritto a non riconoscere. «Spirito della nostra campagna – ha ricordato Lucia Borgia – è soprattutto mettere il bambino prima di tutto, ma anche tenere molto in considerazione la madre e non puntare a salvare solo il bambino, ma anche la madre, in una rete di informazione e prevenzione».

La donna che lascia il bambino può essere arrivata al culmine della disperazione e della solitudine, incapace di proiettarsi nel futuro e senza prospettive per la propria esistenza. Ci sono casi in cui arriva persino ad eliminare la creatura appena venuta alla luce perché pensa che aggraverebbe la sua già disperata esistenza.

 

Maria Grazia Breda, rappresentante del Coor­dinamento sanità e assistenza tra i movimenti di base di Torino, è intervenuta per focalizzare alcune proposte operative che sono emerse dagli interventi dei relatori.

In primo luogo ha invitato l’Assessore a rilanciare nel coordinamento degli Assessori regionali ai servizi sociali i contenuti della lettera inviata al convegno dall’Assessore De Poli affinché si traducano in leggi regionali. Allo scopo ritiene utile che il disegno di legge anticipato dalla stessa Angela Teresa Migliasso venga assunto come riferimento.

Ritiene inoltre che sia indispensabile individuare tre o quattro poli fra quelli attualmente preposti alla gestione delle attività socio-assistenziali, per tutta la Regione Piemonte, capaci di assumere, con la necessaria professionalità, tutte le funzioni riguardanti il sostegno psico-sociale prima, durante e dopo il parto: solo con una vera presa in carico da parte di un servizio dedicato a queste specifiche problematiche la donna può essere messa nella condizione effettiva di poter scegliere se riconoscere o non riconoscere il proprio nato.

Altro nodo è quello di riuscire a raggiungere le interessate perché siano informate sui loro diritti e su quelli del nato. In merito ha ricordato, come anticipato dall’Assessore Aurora Tesio, la predisposizione di un opuscolo da parte dell’Unione per la lotta contro l’emarginazione sociale e il rilancio del numero verde della Provincia di Torino: l’auspicio è che si giunga presto alla possibilità di un numero verde per tutta la Regione ed in seguito per tutto il territorio nazionale.

 

Frida Tonizzo, assistente sociale dell’Asso­ciazione nazionale famiglie adottive e affidatarie, ha sottolineato l’importanza dell’uso dei termini appropriati quando si affrontano questi temi: il non riconoscimento, essendo un gesto responsabile, un “gesto d’amore” come lo definisce Catherine Bonnet, non ha in sé la connotazione negativa di “abbandono” e pertanto tale vocabolo non dovrebbe essere utilizzato per i bambini di cui parliamo.

Per quanto riguarda il termine genitore è pertinente a chi si prende effettivamente cura di un bambino, indipendentemente dal fatto di averlo generato. Ha poi invitato a “educare” i mass-media affinché comunichino in modo corretto: anche istituzioni, magistrati, operatori e non solo le associazioni dovrebbero scrivere alle direzioni dei giornali e delle televisioni per creare la cultura ed il clima favorevole affinché le persone che hanno difficoltà si rivolgano invece con più fiducia alle istituzioni ed ai servizi.

Frida Tonizzo ha infine richiamato le competenze istituzionali delle Province e invitato la magistratura, qui rappresentata da Pasquale Andria, ad agire nei confronti degli enti locali che non applicano correttamente le vigenti disposizioni di legge relative all’assistenza alle gestanti e madri in difficoltà e ai loro nati.

 

 

Eleonora Artesio: Iniziative di “Gemellaggio sociale” e chiusura dei lavori

Eleonora Artesio, Assessore alla solidarietà sociale della Provincia di Torino, ha ricordato che uno degli obiettivi del convegno era quello di porre il tema del diritto di tutti i bambini fin dalla nascita alla famiglia e la prevenzione dell’abbandono all’attenzione delle amministrazioni pubbliche, non perché nelle diverse legislazioni regionali il problema sia trascurato, ma affinché il diritto che si dà per riconosciuto ed affermato possa essere tenuto presente nelle relazioni operative dei servizi e nelle responsabilità di intervento e di spesa degli enti locali.

«Direi – ha affermato Eleonora Artesio che l’impegno, il quadro di riferimento e il luogo sono stati individuati; forse a noi (Associazione promozione sociale ed enti che hanno promosso il convegno) tocca un passaggio aggiuntivo, cioè di provare a definire, in maniera puntuale, a partire dalla legislazione in corso presso la Regione Piemonte, quale può essere il modo con il quale le Regioni, definendo gli indirizzi di carattere territoriale, individuano la gestione della tutela della donna e dei bambini, chiamando in causa i livelli di responsabilità istituzionale, non rinviabili ad un generico disegno di decentramento amministrativo, e mettendo in capo ruoli e funzioni alle amministrazioni comunali, in forma distinta o in forma consorziata».

Una seconda questione riguarda un lavoro di diffusione delle buone pratiche che questo convegno ha promosso e che riguardano in particolare:

- «i protocolli tra le amministrazioni e gli ospe­-dali;

- «il ragionare e interrogarsi rispetto al rapporto madre/bambino, ai tempi di permanenza nelle comunità di accoglienza e all’interesse superiore del minore;

- «le segnalazioni, le compilazioni e le trasmissioni dei dati, affinché siano puntuali ed i servizi coerenti;

- «la presentazione al Tribunale per i minorenni di un procedimento completo ed uniformemente leggibile, in modo tale che i tempi di decisione sul bambino siano a suo vantaggio e non richiedano ulteriore ricostruzione di percorsi burocratici».

«Tutte queste questioni – ha proseguito Eleonora Artesio possono diventare oggetto di un lavoro di puntualizzazione, per accogliere le idee di regolare e rendere generali le sperimentazioni, che sono in atto in alcuni territori, e per ragionare su come la rete che si costituisce possa adottare l’idea, il servizio, lo strumento e progressivamente farlo diventare almeno di scala regionale, quando non di scala nazionale».

Riprendendo quanto emerso nel dibattito in merito all’uso di un linguaggio appropriato, ha altresì rimarcato l’importanza dell’attenzione e della puntualità dell’uso dei termini adeguati in primis nella stesura dei testi normativi, ma anche nella diffusione della comunicazione, per informare nel modo più corretto possibile e per fare un’adeguata promozione culturale.

Tutto questo richiede naturalmente, che quanto definito nell’odierno convegno, venga riproposto anche in altre sedi: sarebbe opportuno che appuntamenti simili siano promossi in quelle parti d’Italia, che oggi non sono riuscite a partecipare, per diffondere quell’idea di cultura dei diritti qui emersa, in ordine al diritto del minore ad avere una famiglia e in ordine al diritto della donna di poter partorire nella dimensione del segreto del parto, nonché in merito alla cultura dei diritti su cui si fonda l’idea del “Gemellaggio sociale”.

Nei lavori di oggi si è ragionato sulla reale esigibilità di un diritto che peraltro era già formalmente sancito e definito nella vigente normativa. Va però evidenziato che non sempre le interpretazioni sono corrette per cui succede che i diritti non siano a volte realmente esigibili.

L’idea del “Gemellaggio sociale” ha come oggetto fondamentale proprio la tematica della cultura dei diritti. L’esigibilità dei diritti non è condizionabile dalle maggioranze politiche. Non a caso la nostra Carta costituzionale, quando nomina i diritti delle persone, dice anche che lo Stato e la Repubblica promuovono la rimozione degli ostacoli che si frappongono alla reale e pratica attuazione dei diritti individuali nell’interesse della collettività.

«La legge 328/2000 – ha precisato Eleonora Artesioriprende il tema dell’esigibilità dei diritti, attraverso la definizione della possibilità di usufruire delle prestazioni e dei servizi, affermandone il carattere di universalità e definendo quale è il livello essenziale, ma non minimo, sul quale si devono attestare le prestazioni».

La stessa legge 328/2000 attribuisce alle Province il compito di funzionare come osservatorio delle politiche sociali, garantendo agli enti territoriali la conoscenza della dimensione statistica e di tendenza del territorio sul quale si programma; è quindi l’organo che, per dovere normativo, dovrebbe in primo luogo interpretare e segnalare ai soggetti gestori quale è la dimensione economica e sociale del territorio e quali sono le nuove ten­denze.

Il “Gemellaggio sociale” può diventare una sorta di catena delle amministrazioni provinciali che sottoscriveranno il relativo protocollo di intenti, per cui, a partire dai temi sui quali vanno realizzate le garanzie fondamentali, ciascuna Amministrazione provinciale possa promuovere, nell’arco di un anno, un appuntamento collettivo.

Questo gemellaggio non deve essere solo un impegno politico ed operativo, ma anche un’alleanza sociale; ad oggi vi hanno aderito le Province di Alessandria, Biella, Cagliari, Caltanissetta, Cuneo, Firenze, Frosinone, Lodi, Lucca, Milano, Parma e Pescara. Ulteriori adesioni saranno ricercate attraverso l’invio della documentazione concernente i lavori di questo convegno.

 

 

(4) Il documento base del “Gemellaggio sociale” è riportato in allegato nel capitolo riguardante le conclusioni operative.

(5) Il testo integrale del disegno di legge è riportato nell’allegato 5 delle conclusioni operative.

 

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