Prospettive assistenziali, n. 153, gennaio - marzo 2006

 

 

HANDICAP: RIFLESSIONI SUL LAVORO IN RETE DEI SERVIZI PER L’INSERIMENTO LAVORATIVO

MARIA GRAZIA BREDA

 

 

Premessa

Il 25 febbraio 2005, a Torino, è stato presentato il rapporto finale del progetto “Sostegno alle reti di operatori e di servizi coinvolti in iniziative integrate rivolte a persone e imprese in programmi di politiche attive del lavoro e di sviluppo locale”. Il rapporto, finanziato dal Fondo sociale europeo nell’ambito della priorità «strategie locali per l’impiego e l’innovazione» (1), è il risultato di un lavoro complesso, durato due anni, promosso dalla Regione Piemonte con il partenariato delle Province piemontesi. Benché sia trascorso un anno dalla presentazione dei risultati della ricerca, ritengo comunque utile parlarne perché sono ancora attuali gli aspetti negativi evidenziati nel rapporto finale.

La Regione Piemonte, purtroppo, non ha finora assunto gli atti utili per risolvere le disfunzioni segnalate circa la scarsa funzionalità ed efficacia della rete dei servizi indicati dalla legge n. 68/1999 (2) e cioè quelli che dovrebbero provvedere al collocamento mirato al lavoro delle persone con minorazioni fisiche, sensoriali, intellettive e psichiche.

Illustrerò quindi i punti salienti della ricerca, le conclusioni a cui sono arrivati i ricercatori, le loro indicazioni per superare gli attuali problemi e prenderò in esame gli aspetti istituzionali. Questi ultimi sono stati totalmente ignorati nel rapporto finale, mentre, a mio avviso, è proprio la mancanza di chiarezza a questo proposito la vera causa del cattivo funzionamento dei servizi per l’inserimento lavorativo e degli scarsi risultati ottenuti in questi anni in fatto di assunzioni di soggetti handicappati con limitata autonomia.

 

Presentazione della ricerca sul lavoro in rete

Nei casi presi in esame dalla ricerca viene individuato quale bacino territoriale di riferimento quello afferente al Centro provinciale per l’impiego (3), mentre la rete del territorio, con cui il Centro stesso dovrebbe raccordarsi, è quella che comprende anche i servizi del Consorzio socio-assistenziale (4) e/o dei Comuni, delle Asl, delle agenzie formative, delle imprese. Sono inoltre considerate – se presenti e in relazione con il Centro per l’impiego – le associazioni di volontariato e quelle delle famiglie.

Nella ricerca sono presi in esame solo i casi più complessi seguiti dai Centri per l’impiego e cioè quelli che «dalla natura dell’handicap e dalla sua frequente combinazione con problemi di occupabilità, con difficoltà di tipo familiare e sociale, con difficoltà soggettive, ecc…» fanno intuire che vi saranno maggiori ostacoli per l’inserimento lavorativo in azienda. È proprio dall’esame dei suddetti casi, che i ricercatori ritengono che sia possibile valutare la funzionalità della rete dei servizi.

Essi partono dal presupposto che, proprio per rispondere correttamente e con successo ai molteplici bisogni della persona, i servizi avrebbero avuto interesse a «collaborare, ciascuno per la propria parte, non solo alla progettazione ed alla realizzazione del proprio contributo, ma anche alla coerenza del percorso complessivo necessario per perseguire l’obiettivo dell’inserimento sociale e lavorativo della persona».

Il presupposto di partenza, e cioè la piena collaborazione tra gli operatori dei diversi servizi territoriali, è stato smentito dai risultati della ricerca.

 

Che cosa emerge

La ricerca mette in evidenza che il lavoro in rete nel territorio piemontese, e cioè il raccordo tra i servizi chiamati ad interagire per promuovere l’inserimento lavorativo di persone in situazione di handicap (Centri per l’impiego, Comuni, Consorzi socio-assistenziali, cooperative, formazione professionale), lascia molto a desiderare e quasi mai assicura il diritto al lavoro a chi, a causa della minorazione, ha maggiori difficoltà ad inserirsi.

La ricerca non si sofferma ad esaminare l’aspetto quantitativo degli insuccessi (5), in quanto  la scelta di campo è stata concentrata sull’analisi delle cause che sono all’origine della mancata assunzione al termine del percorso previsto per l’inserimento lavorativo.

Dai dati raccolti emerge che l’obiettivo assunzione non viene raggiunto per la presenza di molteplici fattori di cui i principali possono essere così riassunti:

- complessivo debole senso di appartenenza e di integrazione tra gli operatori, la cui criticità aumenta quando l’obiettivo dell’assunzione non viene raggiunto;

- scarsa conoscenza dei punti di forza e/o di debolezza del servizio con cui si opera in partenariato;

- mancanza di complementarietà tra gli operatori e tra le reciproche professionalità per fronteggiare i casi complessi; 

- assenza della percezione di essere una sola comunità professionale che condivide difficoltà, ma anche competenze;

- tendenza prevalente ad autoreferenziarsi;

- partecipazione non sempre estesa a tutti i partner (operatori dei servizi, imprese e famiglie) al processo decisionale;

- carenza strutturale di definizione preventiva delle competenze gestionali e di programmazione delle attività;

- problemi in relazione alla mancata definizione di ruoli, doveri e responsabilità degli attori;

- leadership non riconosciuta con conseguente fragilità e inadeguatezza sul piano della distribuzione dei poteri decisionali e del coordinamento;

- assenza di sistemi di controllo della gestione e, di conseguenza, mancanza di parametri e standard stabiliti in precedenza e condivisi per monitorare e analizzare gli scostamenti dagli obiettivi prefissati e per intraprendere le necessarie azioni correttive;

- carenza di informazione sullo stato di avanzamento degli interventi indirizzati ai soggetti direttamente o indirettamente interessati all’iniziativa.

 

La ricerca conferma i limiti della legge 68/1999

La ricerca della Regione Piemonte mette in discussione un concetto caro a molti: dare per scontato, a priori, che lavorare in rete tra servizi è di per sé un fatto possibile e positivo, anche quando il personale appartiene ad enti diversi. Contrariamente a ciò che alcuni sostengono, la ricerca evidenzia che è proprio l’operare in rete, senza obblighi istituzionali precisi, la causa principale del fallimento del percorso concernente il collocamento mirato per persone handicappate che, a causa della loro ridotta capacità lavorativa, hanno maggiori difficoltà ad essere inserite.

Le stesse criticità erano state sollevate dal Csa (Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base) nell’articolo di commento pubblicato su questa stessa rivista all’entrata in vigore della legge 68/1999 (6). Infatti, l’eccessiva indeterminatezza del ruolo assegnato ai servizi territoriali era ed è uno degli elementi deboli sui quali, invano, si è cercato di intervenire prima che la legge venisse approvata.

Il collocamento mirato previsto dalla legge 68/1999 è senz’altro una conquista importante, ma resta da soddisfare la condizione, per noi imprescindibile, che sia assegnato al Centro provinciale per l’impiego (e non genericamente in “rete”) un gruppo stabile di operatori, con il compito di realizzare concretamente l’inserimento lavorativo della persona in azienda.

Ad avviso del Csa, il gruppo di operatori, più comunemente conosciuto come Sil, Servizio di inserimento lavorativo, dovrebbe svolgere le seguenti attività:

- collaborare con il settore della formazione professionale per l’individuazione dei contenuti e delle modalità dei corsi di formazione professionale o prelavorativa (7) e delle iniziative di aggiornamento professionale;

- ricercare i posti di lavoro più idonei;

- svolgere tutte le necessarie attività tecniche per rendere possibile l’inserimento lavorativo (adeguamento del posto di lavoro, abbattimento delle barriere architettoniche, ecc.);

- proporre eventuali strumenti di mediazione e/o di incentivazione d’intesa con gli uffici competenti;

- appoggiare il soggetto nelle fasi iniziali del suo inserimento e mantenere con l’azienda un collegamento anche per eventuali momenti critici successivi, in particolare per i lavoratori con maggiori difficoltà.

Un servizio con queste caratteristiche e con questa importanza aveva  bisogno di una disposizione di legge più cogente. Invece, la definizione contenuta nell’articolo 6 della legge 68/1999 si limita ad auspicare che i vari servizi coinvolti operino in raccordo fra loro. Purtroppo, come emerge dalla ricerca in oggetto, viene confermato che questo obiettivo è spesso una vana speranza.

 

Il nostro punto di vista sui servizi di inserimento lavorativo

Da anni il Csa ha continuato, finora inutilmente, ad insistere presso tutti i livelli istituzionali (Regione Piemonte e Province) per ottenere che i diversi operatori preposti al collocamento mirato siano organizzati in un servizio stabile e fisicamente localizzato presso ogni Centro per l’impiego. Ovviamente si dovevano valorizzare le molteplici esperienze acquisite da numerosi servizi socio-assistenziali, a condizione che gli operatori accettassero il trasferimento funzionale in capo al Centro per l’impiego e da esso dipendessero.

È il caso positivo contemplato dal protocollo d’intesa siglato tra i Comuni di Collegno, Grugliasco, Rivoli, Rosta, Villarbasse della Provincia di Torino, i rispettivi Consorzi socio-assistenziali e il Centro per l’impiego di Rivoli (8).

Con tale atto viene precisato che il personale dei servizi per il collocamento lavorativo, principalmente composto da educatori che avevano operato nell’ambito dei Consorzi socio-assistenziali, è inserito funzionalmente nel Centro per l’impiego, al fine di dotarlo di un gruppo stabile di operatori con il compito di attuare concretamente gli inserimenti lavorativi.

In questo modo viene realizzato anche un notevole risparmio di risorse. Sovente ogni singolo ente (Comune, Consorzio, cooperativa, associazione, ecc.) organizza con i suoi operatori il “suo” progetto di avviamento al lavoro oppure di osservazione o di preparazione al lavoro. Le denominazioni sono molteplici, ma in sostanza si è sempre in presenza di una risposta “parcheggio”, raramente inserita in una programmazione con il Centro per l’impiego e, quindi, con pochissime probabilità che vengano realizzate assunzioni al termine del percorso.

Anzi, sovente i progetti ripropongono al giovane handicappato disoccupato attività che ha già più volte svolto nell’ambito di precedenti corsi di formazione professionale o prelavorativa. In questo modo si aumentano le frustrazioni degli interessati (che lavorano spesso senza alcun compenso) e delle famiglie, che si ritrovano alla fine con il loro congiunto a casa. D’altronde sono proprio le stesse famiglie, non correttamente orientate, ad aggrapparsi a qualunque proposta, purché il figlio sia in qualche modo impegnato.

Manca la regia di un ente, che sia anche obbligato a rispondere del suo operato. A mio avviso deve essere il Centro provinciale per l’impiego.

Attualmente, nei casi in cui non si riesce a trasformare il tirocinio in un posto di lavoro al termine del progetto di collocamento mirato, nessuno è tenuto a giustificarsi, tanto meno è obbligato a proporre nuove opportunità all’utente che si ritrova disoccupato e senza prospettive, magari dopo dieci-dodici anni di vari tentativi di inserimento.

 

La nostra esperienza negativa della rete

Dal 1999 ad oggi ho preso in esame numerosi casi di giovani handicappati intellettivi disoccupati seguiti dai Sil, che hanno permesso di conoscere le storture delle norme di legge e di proporre, conseguentemente, i necessari correttivi alle istituzioni tenute a intervenire.

Ho anche partecipato a convegni e seminari di formazione per gli operatori dei Sil, per comprendere le esigenze di chi opera in questi ambiti. Mi sono documentata sul piano normativo studiando delibere e convenzioni di numerosi Enti locali e Province. Il quadro che emerge non è confortante.

Sovente il Centro provinciale per l’impiego utilizza la rete delle risorse del territorio perché non dispone di un proprio servizio di inserimento lavorativo e si avvale di operatori del Comune, del Consorzio socio-assistenziale o di cooperative.

Tale situazione crea confusione negli utenti e nelle loro famiglie che hanno notevoli difficoltà a capire chi sia il loro interlocutore: il Consorzio? L’Assessore all’assistenza da cui dipende il Consorzio? L’Assessore al lavoro del Comune? Il Centro per l’impiego? La cooperativa sociale?

Infine, altro aspetto assai grave, è l’impossibilità per il direttore del Centro per l’impiego di disporre degli operatori della rete in base alle effettive esigenze dell’utente. Questo significa che l’operatore del Sil, che sovente è un educatore dei servizi socio-assistenziali, può rifiutarsi di svolgere le attività di tutoraggio ritenute indispensabili dal Centro per l’impiego, se non rientrano nel suo prefissato orario di lavoro.

 

Manca la regia, ma non basta la leadership tecnica

Per risolvere la questione della mancanza di un unico responsabile di tutto il percorso di collocamento mirato, nella ricerca viene proposta l’introduzione di una funzione di governo dei processi concernenti:

«a) la programmazione del progetto, vale a dire la definizione degli obiettivi da raggiungere in funzione di una corretta analisi del problema articolata in fasi che devono, per quanto possibile, essere svolte nel rispetto dei tempi e costi previsti;

«b) il controllo gestionale, ossia la verifica costante che le attività si svolgano nel rispetto del quadro normativo e delle prescrizioni vigenti, che gli obiettivi siano raggiunti, i programmi rispettati (efficacia) e le risorse umane, tecniche e finanziarie preventivate siano correttamente utilizzate (efficienza);

«c) la comunicazione e la formazione, e quindi le diverse forme di interazione e scambio lavorativi (incontri, riunioni, lavoro dei gruppi, comitati, ecc), che si realizzano con gli attori coinvolti nell’iniziativa e con gli altri soggetti esterni;

«d) la delega dei compiti e delle responsabilità e cioè la ripartizione del lavoro tra i diversi attori e l’attribuzione delle responsabilità operative in riferimento alle diverse fasi e attività».

La funzione di governo, secondo i ricercatori, va attivata mediante un leader riconosciuto: «Una figura manageriale, autorevole, forte, una figura attorno alla quale ruotino l’organizzazione e il coordinamento del progetto (…)».

In pratica «ciò che sembra urgente e importante è rafforzare la figura dell’“assemblatore” radicato nell’intima natura del caso, ossia di un regista o gestore che dall’interno segua il caso, ne unisca, armonizzi reciprocamente, organizzi e tenga insieme le parti, curando la qualità delle relazioni (…)».

In sostanza viene proposta una soluzione tecnica che, a mio avviso, è del tutto insufficiente a risolvere i nodi conflittuali emersi.

Certamente condivido l’analisi e la necessità di governare, finalmente, il percorso per l’inserimento lavorativo di una persona handicappata disoccu­pata.

Tuttavia ritengo che la regia, e quindi il governo della rete, non possa che essere individuata nel direttore del Centro provinciale per l’impiego per quanto concerne le responsabilità operative.

L’interlocutore politico istituzionale di riferimento per il cittadino deve essere l’Assessore al lavoro della Provincia, l’ente tenuto a garantire, in base alla legge 68/1999, il suo diritto al lavoro.

Come ricordavo all’inizio, ciò che manca, inoltre, è un gruppo di operatori (che nella realtà con un limitato numero di abitanti possono essere anche solo due o tre), che operi stabilmente e dipenda, in tutto e per tutto, dal Centro per l’impiego.

Ferma restando la titolarità  in materia di lavoro dell’Amministrazione provinciale, i raccordi, quando necessari, con l’Asl (ad esempio per particolari prestazioni sanitarie e per gli ausili) ed i Comuni (per l’organizzazione dei trasporti, ecc.) devono essere definiti tra gli enti titolari delle rispettive funzioni mediante l’assunzione di protocolli di intesa o, meglio, l’approvazione di delibere, nelle quali sia stabilito e concordato “chi fa e che cosa fa” e quali sono i diritti-doveri del cittadino utente.

 

Le richieste del Csa alla Regione Piemonte

La Regione Piemonte, come si deduce anche dalla ricerca, non ha finora reso obbligatori i Servizi di inserimento lavorativo presso i Centri per l’impiego, né li ha dotati di personale sufficiente, calcolato secondo il numero degli iscritti che richiedono il collocamento mirato per essere avviati al lavoro.

Ha scelto invece di sostenere genericamente la rete dei servizi mediante il trasferimento di risorse alle Province, con l’indicazione, mediante atti di indirizzo, degli obiettivi triennali che le stesse devono raggiungere.

Va riconosciuto che la priorità è stata data alle azioni rivolte alla creazione di occupazione per i soggetti con maggiori difficoltà di inserimento, quali gli handicappati intellettivi, ma come ho cercato di descrivere in precedenza, questo meccanismo non sta producendo effetti positivi in termini di assunzioni e, soprattutto, non pone le basi per la realizzazione di un servizio di inserimento lavorativo stabile e di qualità.

Non si tratta della mancanza di risorse, bensì dell’esigenza di una valida razionalizzazione. Inoltre, c’è la necessità di utilizzare con maggior saggezza le somme accantonate a seguito dei finanziamenti nazionali legati all’articolo 13 della legge 68/1999, delle somme attinte dal fondo regionale istituito secondo quanto disposto dall’articolo 14 della stessa legge 68/1999 (9).

 

L’efficacia e l’efficienza dei Sil dipendono anche dalla qualità e stabilità del personale

La ricerca non ne parla, ma a mio parere, un altro fattore che incide nel portare a buon fine il collocamento mirato, è anche la professionalità degli operatori incaricati di sostenere la persona nelle varie fasi dell’inserimento in azienda. La competenza necessaria non si può di certo improvvisare.

In base all’esperienza del Csa posso affermare che, a questo proposito, gli operatori che provengono dai servizi dei Consorzi socio-assistenziali non sempre sono adeguati. Sovente si tratta di educatori privi della necessaria competenza per quanto concerne i problemi squisitamente aziendali. Inoltre, quasi mai sono assegnati a tempo pieno al servizio di inserimento lavorativo delle persone con handicap e pertanto difficilmente riescono ad acquisire la professionalità occorrente per relazionarsi proficuamente con le aziende.

La situazione migliora quando le esperienze dei Sil sono state realizzate da personale proveniente dall’ambiente della formazione professionale e/o dalla cooperazione sociale, in quanto in entrambi i casi si tratta di soggetti con esperienze in realtà in cui sono indispensabili competenze e conoscenze del mondo dell’impresa.

Vi sono poi numerose situazioni in cui la figura del tutor (10) è assunta con contratto a progetto. In questi casi le condizioni necessarie per condurre un buon inserimento lavorativo, specialmente di coloro che hanno maggiori difficoltà come nel caso dei giovani con handicap intellettivo, sono messe a dura prova dalla durata a tempo determinato del contratto di lavoro dello stesso tutor.

Anche per queste ragioni il Csa da tempo chiede sia alla Regione Piemonte, sia alle Province l’impegno di stipulare un “contratto-progetto” tra le parti (Centro per l’impiego, utente, azienda), in modo che siano definiti gli obiettivi, le modalità del monitoraggio, i tempi delle verifiche, il ruolo del tutor e siano precisati i tempi effettivi della sua presenza, i rapporti da tenere con il Centro per l’impiego, gli orari di reperimento da parte dell’utente, della sua famiglia e dell’azienda.

Tuttavia, benché tutto questo sia importante, non è ancora sufficiente ad assicurare il raggiungimento dell’obiettivo e cioè l’assunzione definitiva della persona al termine del percorso di collocamento mirato.

 

Conclusioni

È fuor di dubbio che debba essere risolta la questione principale: dare al Centro provinciale per l’impiego la piena titolarità in merito a tutto il percorso relativo all’inserimento lavorativo. Questo comporta, ovviamente, che le Regioni trasferiscano alle Province sufficienti risorse, perché queste ultime si dotino di personale in misura adeguata al fabbisogno.

Infatti ogni cittadino handicappato in attesa di lavoro avrebbe diritto ad essere seguito dal Sil e al collocamento mirato quando, a causa dei limiti dovuti alla sua minorazione, ha oggettive difficoltà a trovare lavoro autonomamente.

Al momento, come abbiamo visto, questo diritto non è esigibile e, dunque, bisogna adoperarsi perché lo diventi.

Regioni e Province hanno il dovere di garantire alle persone handicappate disoccupate di poter sperimentare se e in che misura sono in grado di sostenere un’attività lavorativa produttiva. Allo scopo esse hanno diritto di essere messe nella migliore delle condizioni possibili per dimostrare al meglio le loro potenzialità. Trovare lavoro può fare la differenza tra vivere da adulti pienamente integrati oppure essere emarginati in centri assistenziali.

Anche il miglior Sil, comunque, da solo non basta. Servono politiche attive del lavoro a tutela di questi cittadini e quindi bisogna cominciare a pensare alla necessità di una modifica della legge 68/1999 perché siano introdotti vincoli più cogenti a tutela delle persone con maggiori difficoltà di collocamento al lavoro.

 

 

(1) L’iniziativa rientra tra quelle previste dall’articolo 6 del regolamento (Ce) n. 1784/1999 relativo al Fondo sociale europeo  che, con la comunicazione Com (2000) 894 final del 12 gennaio 2001, aveva stabilito le priorità di intervento. Il costo complessivo del progetto, di durata biennale, è stato di euro 630.960,70. La ricerca ha preso in esame anche il sostegno previsto per lo sviluppo delle imprese e la nascita di nuove realtà produttive ad opera di persone in situazione di handicap.

(2) L’articolo 6 della legge 12 marzo 1999 n. 68 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” riguarda i servizi per l’inserimento lavorativo dei disabili e modifica il decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469. In specifico prevede quanto segue: «1. Gli organismi individuati dalle Regioni ai sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469, di seguito denominati “uffici competenti”, provvedono, in raccordo con i servizi sociali, sanitari, educativi e formativi del territorio, secondo le specifiche competenze loro attribuite, alla programmazione, all’attuazione, alla verifica degli interventi volti a favorire l’inserimento dei soggetti di cui alla presente legge nonché all’avviamento lavorativo, alla tenuta delle liste, al rilascio delle autorizzazioni, degli esoneri e delle compensazioni territoriali, alla stipula delle convenzioni e all’attuazione del collocamento mirato. 2. Nell’ambito di tale organismo è previsto un comitato tecnico composto da funzionari ed esperti del settore sociale e medico-legale e degli organismi individuati dalle Regioni ai sensi dell’articolo 4 del presente decreto, con particolare riferimento alla materia delle inabilità, con compiti relativi alla valutazione delle residue capacità lavorative, alla definizione degli strumenti e delle prestazioni atte all’inserimento e alla predisposizione dei controlli periodici sulla permanenza delle condizioni di inabilità. Agli oneri per il funzionamento del comitato tecnico si provvede mediante corrispondente riduzione dell’autorizzazione di spesa per il funzionamento della commissione di cui al comma 1».

(3) La Regione Piemonte, con la legge 41/1998, ha stabilito che  gli uffici competenti, di cui all’articolo 6 della legge 68/1999, sono i Centri provinciali per l’impiego.

(4) Nella Regione Piemonte il Consorzio socio-assistenziale è  l’ente a cui due o più Comuni hanno delegato la gestione dei servizi socio-assistenziali.

(5) Il campione esaminato non è molto rilevante. I ricercatori hanno precisato di aver scelto di osservare il funzionamento delle reti territoriali di alcuni Centri per l’impiego e, per il necessario approfondimento di ogni fase, è stato seguito solo un numero limitato di soggetti in situazione di handicap con particolari difficoltà, ma in possesso di capacità lavorative sufficienti per essere avviati al lavoro.

(6) Cfr. Maria Grazia Breda, “Aspetti positivi, negativi e problematici della nuova legge sul collocamento al lavoro delle persone con handicap”, Prospettive assistenziali, n. 126, 1999.

(7) Per corso prelavorativo si intende un’attività di formazione professionale rivolta specificatamente a giovani con handicap intellettivo, che non sono in grado di frequentare i corsi normali di formazione professionale e di raggiungere la qualifica finale, a causa del contenuto nozionistico e teorico che tali corsi contengono. Si tratta però di soggetti che, nonostante la minorazione, presentano potenzialità lavorative per cui si può ragionevolmente prevedere il loro inserimento in attività produttive proficue. I corsi sono organizzati dalla Regione Piemonte, in convenzione con enti di formazione pubblici e privati, in moduli di 12-15 allievi per classe e sono inseriti nei normali centri di formazione professionale. Durano tre anni, per un totale complessivo di 2.400 ore. Caratteristica di questi corsi è l’alternanza tra una parte teorica (ridotta) e il tirocinio sul posto di lavoro, che invece occupa una parte rilevante del monte ore. I corsi prelavorativi non si prefiggono l’obiettivo di una qualifica, ma si preoccupano di aumentare l’autonomia globale dell’allievo in modo da rendere possibile un collocamento lavorativo in attività che prevedano lo svolgimento di mansioni semplici. Cfr. i volumi: Formare per l’autonomia - Strumenti per la preparazione professionale degli handicappati intellettivi, di Maria Grazia Breda e Marcella Rago, Rosenberg & Sellier, Torino e II lavoro conquistato - Storie di inserimenti di handicappati intellettivi in aziende pubbliche e private, di Emilia De Rienzo, Costanza  Saccoccio e Maria Grazia Breda, Rosenberg & Sellier, Torino.

(8) Cfr. “Valido protocollo di intesa per la istituzione di un servizio intercomunale per l’inserimento lavorativo di soggetti con handicap e per la sperimentazione del collocamento mirato”, Prospettive assistenziali, n. 134, 2001.

(9) Negli anni 2000/2004 le risorse comprendevano:

- fondo nazionale disabili (articolo 13 della legge 68/1999): euro 14.671.820,69;

- fondo regionale disabili (articolo 14 della legge regionale  51/2000):

anni 2002-2003: euro 7.071.786,47;

anni 2004-2005: euro 4.142.063,18;

- risorse complementari (programmazione Obiettivo 3 del Fondo sociale europeo per disabili), per gli anni 2000/2003: euro 4.668.150,62; euro 1.807.599,17; euro 1.549.370,70.

(10) Con il termine tutor si indica l’operatore che accompagna la persona, con difficoltà dovute alla sua minorazione, nel percorso di inserimento al lavoro. Nel volume Inserimento al lavoro di persone con svantaggio intellettivo: l’esperienza Mosil, Edizioni Cep, i compiti del tutor sono così riassunti: «Acquisisce la documentazione disponibile e le informazioni utili alla conoscenza delle persone a lui affidate; crea e/o mantiene relazioni fiduciarie e costruttive con le persone inviate in tirocinio e a lui affidate; sostiene le persone nell’affrontare le difficoltà connesse allo svolgimento del tirocinio (in alcune situazioni ciò può anche comportare, soprattutto nella fase iniziale del tirocinio, l’affiancamento del tirocinante sul posto di lavoro e lo svolgimento delle stesse mansioni a lui affidate); controlla costantemente l’andamento del tirocinio ed interviene prontamente quando si delineano anomalie o problemi di qualunque tipo nel rapporto azienda/persona svantaggiata (per individuare l’intervento più appropriato e trovare soluzione ai problemi si confronta, se necessario, con il gruppo di riferimento (…)».

 

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