Prospettive assistenziali, n. 150, aprile - giugno 2005

 

 

ASPETTI PSICOLOGICI DEL NON RICONOSCIMENTO E DELLE PRIME DIFFICOLTÀ MATERNE

MARISA PERSIANI *

 

 

 

L’esperienza a cui faccio riferimento nelle riflessioni che propongo, è quella maturata all’interno del Servizio di pronta accoglienza per la prima infanzia (Spapi: struttura gestita dalla Provincia di Roma, che ha accolto bambini sottoposti a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria minorile), dove ho operato per più di un decennio, sino al passaggio, nel marzo 2002, della competenza in materia di assistenza ai minori non riconosciuti, esposti o riconosciuti dalla sola madre, dalla Provincia al Comune di Roma.

Lo Spapi è risultato un osservatorio privilegiato del fenomeno della nascita che si manifesta in condizioni che possono essere definite di rischio psico-sociale: di esso ho potuto esaminare le diverse varianti, indagare le determinanti in termini di causalità ed osservarne le effettualità possibili.

La tematica sulla quale oggi ci confrontiamo, “le maternità difficili”, si colloca oltre la corretta applicazione di una legge. Essa ha infatti a che fare con l’“a priori” della vita, con l’imprinting del personale ingresso nel mondo, con la direzione e con l’universo di senso dell’esistenza di un bambino che nasce in condizioni di rischio, rischio connesso agli esiti che la sua nascita può produrre in termini di compromissione del processo di strutturazione della propria identità, di danno psicologico, di sofferenza individuale e di disfunzione sociale, nonché di ricaduta in termini di costo economico sulla collettività. Parliamo di maternità e non di genitorialità difficile perché far nascere un figlio è decisione preminente della donna; il partner, quando c’è, si coordina alla sua decisione, le maternità difficili di cui i servizi solitamente si occupano sono vissute da donne sole.

È ormai diffusa consapevolezza che la più funzionale opera di prevenzione di patologie individuali e sociali, e quindi anche di riduzione della spesa sociale e sanitaria, può essere realizzata soltanto attraverso azioni efficaci promosse a partire dall’epoca della nascita.

Il valore di una società si misura prioritariamente sul senso che essa riconosce alla vita ed alla dignità di ciascuna persona quale figlia unigenita della vita stessa.

La legislazione italiana tutela i diritti di chi genera e di chi nasce, al suo interno il rispetto dei diritti dell’adulto non si contrappone, ma è funzionale al rispetto dei diritti del minore.

Alla donna viene riconosciuto il diritto preliminare ad essere informata, il diritto se riconoscere o meno come figlio il bambino generato, il diritto alla segretezza del parto qualora abbia già deciso di non riconoscere il proprio nato e il diritto alla necessaria assistenza. Inoltre, qualora non abbia ancora maturato la propria decisione in ordine al riconoscimento, può richiedere al Tribunale per i minorenni un ulteriore periodo di riflessione, al massimo di due mesi, attivando la sospensione della procedura di dichiarazione di adottabilità del minore.

Al bambino viene riconosciuto il diritto a crescere in una famiglia, anche diversa da quella di origine, in grado di garantirgli le condizioni adeguate ad un armonico sviluppo psico-affettivo e fisico.

La legislazione italiana, nell’ambito di questa materia, è decisamente avanzata in quanto riconosce la donna che partorisce ed il bambino che è nato quali individualità distinte e separate, titolari di diritti propri scaturiti dal riconoscimento dei rispettivi bisogni vitali.

Sul piano normativo dunque esistono i presupposti necessari per proteggere la nascita a rischio psico-sociale e per affrontare i problemi ad essa connessi.

Episodi di grande allarme sociale troppo frequentemente segnalati dagli organi di stampa, come il maltrattamento, l’abuso, l’abbandono di neonati, sino all’atto estremo dell’infanticidio, impongono una riflessione sulle determinanti causali di tali fenomeni per poter mettere a punto strategie efficaci di intervento in termini di prevenzione primaria e secondaria e per poter operare una verifica in ordine ai modelli operativi adottati da pubblico e privato.

Parlare di maternità evoca nell’immaginario collettivo, una sorta di dimensione sacrale sulla quale si è declinato il senso dell’esistenza dell’umano e centrato ed elevato a valore assoluto il ruolo del femminile, quale garante della continuità e salvaguardia della specie. Tali premesse fanno risultare una contraddizione l’associazione tra il termine maternità e l’aggettivo difficile.

La realtà, di fatto, ci impone di accorgerci che esistono maternità difficili, ci costringe a prendere coscienza del meccanismo di negazione che su questo fenomeno ciascun individuo e l’intera società attiva e mantiene.

È necessario sapere che la donna non è intenzionata per natura ad esser madre, la sua esistenza è primariamente coordinata alla realizzazione egoica, all’affermazione personologica; avere dei figli rappresenta uno stadio secondario.

Sul piano biologico la femmina è predisposta alla generatività secondo un meccanismo che è un prefissato che è la stessa vita a garantire; essere madre, ovvero divenire genitore, nell’accezione del “porsi in funzione di...”, implica il passaggio ad una dimensione superiore, quella della “intenzionalità psichica” che presuppone identità, consapevolezza e responsabilità.

Queste premesse ci danno immediata ragione del perché non sia sufficiente una buona legge, sempre supponendo che essa sia conosciuta e correttamente applicata, a garantire una efficace protezione della nascita.

 

Dove si collocano le “maternità difficili”?

Se si vuole conoscere il bambino e cogliere autenticamente i suoi bisogni, nel rispetto dei suoi diritti, bisogna partire dal suo luogo fonte, ovvero dalla predisposizione base, dalla motivazione, dalle condizioni che determinano la sua nascita; dobbiamo dunque conoscere la donna che genera.

Nella mia esperienza professionale ho potuto verificare che la tipologia delle donne che si trovano a vivere una gravidanza non consapevole, accidentale, non desiderata e non desiderabile è fortemente variegata.

Le analisi comunemente condivise collocano le maternità difficili a ridosso di precise categorie di disagio che, ad ampio ventaglio, comprendono adolescenti, persone infantili, immature sul piano psico-affettivo, straniere emigrate, tossicodipendenti, donne affette da disturbo psichico o da patologia psichiatrica, persone senza fissa dimora, tutte unite da un comune denominatore: la condizione di isolamento relazionale, la fragilità della struttura di personalità, la solitudine e l’assenza di rapporti significativi sul piano affettivo, la mancanza di riferimenti familiari o amicali, le precarie condizioni socio-ambientali. Molto spesso queste donne sono portatrici di storie familiari pregresse caratterizzate da grave deprivazione, abbandono, violenza e dall’assenza di riferimenti affettivi e di modelli di identificazione adeguati. Non di rado il bambino concepito è frutto di un abuso sessuale subito.

Meno facilmente invece riconosciamo come gravidanze difficili, perché non collocabili nelle categorie dove il disagio viene “socialmente riconosciuto e tollerato”, quelle vissute da donne che si affacciano alla generatività in condizioni di immaturità o di prematurità genitoriale, presupposti che solitamente interferiscono con l’assunzione del ruolo genitoriale sul piano psichico. Tale limitazione percettiva produce di sovente, in queste circostanze, disattenzione e sottovalutazione dei segnali di rischio.

La gravidanza che abbiamo definito a rischio psico-sociale spesso si manifesta, sul piano della consapevolezza, quando sono già superati i tempi previsti dalla legge per valutare l’ipotesi di una interruzione spontanea della stessa. A volte la gestazione, proprio perché negata sul piano cosciente, non viene affatto percepita e si impone, con tutta la sua drammaticità al momento del parto, vissuto come evento dirompente e destrutturante che attiva, in condizioni di panico e di sospensione dell’esame di realtà, il meccanismo, purtroppo noto, della eliminazione del proprio nato, in quanto percepito come estraneo a sé e minaccioso per la propria esistenza, dunque da espellere.

La solitudine e l’impossibilità di comunicare ad alcuno la propria condizione di sofferenza, accompagnano sempre questi eventi drammatici ai quali solitamente ci si rivolge con orrore e con giudizio di condanna, più raramente con il tentativo di comprenderne le determinanti causali. Queste donne sono persone segnate da condizioni estreme di vita, accompagnate da solitudine, silenzio e timore del giudizio, che in talune circostanze possono trovarsi a compiere azioni drammatiche.

I dati relativi agli infanticidi segnalano un significativo aumento del fenomeno; dai 12 casi del 1998, ai 14 del 1999, ai 20 del 2000, sino ai 63 del 2001 (C. Patrignani, 2002), ma dobbiamo ritenere il dato sensibilmente sottostimato per l’inevitabile necessità di dover considerare mancati rinvenimenti. Non sono annoverate in questa casistica le morti definite “accidentali” di bambini, non immediatamente concomitanti alla nascita, sulle quali parimenti sarebbe necessario soffermarsi ad indagare in termini di possibili determinanti causali.

Per interrompere la catena del silenzio e della negazione che nutre e garantisce il perpetuarsi di tale fenomeno, è dunque necessario che la comunità sociale prioritariamente lo riconosca e promuova in ordine a tali problematiche uno spazio di comunicabilità possibile, dove vengano garantite l’informazione, la comunicazione e la relazione di aiuto funzionali al bisogno di quella donna e di quel bambino, in quel particolare momento della loro vita. La coesistenza di questi tre elementi può rappresentare, per una donna in difficoltà, la condizione per accedere ad una scelta consapevole quale soggetto delle proprie azioni e non oggetto delle personali dinamiche.

È necessario e preliminare operare, su tali tematiche, un cambiamento culturale e di morale nel pensiero comune, già a partire dall’utilizzo del termine “abbandono”, che evoca in sé un giudizio morale, con cui impropriamente si connotano fenomeni diversi.

Con il termine abbandono si intende rappresentare sia l’azione di lasciare esposto un neonato a condizioni di rischio di vita, non preoccupandosi di collocarlo in prossimità di figure adulte accudenti, sia l’azione di collocarlo invece in contesti ritenuti suscettibili di attivare una sua tempestiva presa in carico. Questa immagine evoca le vicende di neonati lasciati sulle scale delle chiese e quella della più famosa “ruota”, il meccanismo prossimo ad istituti di ricovero dove le donne, nel passato, deponevano il proprio nato quando erano impossibilitate ad occuparsene. Entrambe queste modalità rappresentano l’aspetto fenomenico del “segreto e della vergogna” che di sovente accompagnano queste nascite, sentimenti indotti che privano la donna ed il bambino del rispetto e della dignità di persone e li riducono ad oggetti agiti.

L’infanticidio è un fenomeno che trova le sue radici nell’origine della storia dell’umano, ma in una società civile segnala il fallimento o la mancata attuazione di misure di protezione, di difesa e di tutela della vita.

Con il termine “non riconoscimento” si intende la decisione sofferta, ma responsabile e protettiva di chi genera di non riconoscere come figlio il proprio nato; questa evenienza consente, per l’immediatezza della segnalazione al competente Tribunale per i minorenni, il tempestivo collocamento del bambino in adeguato contesto familiare.

I dati forniti dall’Istat e dal Ministero di grazia e giustizia relativi ai provvedimenti di urgenza emessi dai Tribunali per i minorenni, in ordine al periodo 1995-2000 (cfr. la Tabella n. 1), rilevano nel 2000 n.10.903 provvedimenti sulla potestà genitoriale, 12.372 quelli di urgenza a protezione del minore e 4.123 di allontanamento dello stesso dal nucleo di origine. I provvedimenti di urgenza a protezione del minore e gli interventi sulla potestà dei genitori risultano in notevole aumento rispetto al 1995, nella misura del +25,9% e del +87%. È facile supporre che il trend sia in costante e progressiva crescita.

Rispetto alle dichiarazioni di adottabilità decretate nell’anno 2000 (pari a 1.172), circa il 70% (n. 810), ha riguardato minori riconosciuti alla nascita, successivamente ritenuti privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori e dei congiunti (cfr. la Tabella n. 2). In questo gruppo possiamo far rientrare quelle situazioni comunemente definite come “abbandoni tardivi”, esito di inadeguatezze all’esercizio della funzione genitoriale decretate dai Tribunali per i minorenni.

I più recenti dati Istat segnalano che nel 2002 su 929 minori dichiarati in stato di adattabilità, ben 378 non erano stati riconosciuti alla nascita.

I dati relativi al Tribunale per i minorenni di Roma, nel periodo 1995-2003, segnalano un andamento significativamente crescente di procedimenti di adottabilità di minori nella fascia da 0 a 1 anno ed una graduale diminuzione delle dichiarazioni di adottabilità di minori in fasce di età diverse. È
presumibile ipotizzare che l’aumento dei minori
“non riconosciuti” alla nascita sia inversamente proporzionale alle dichiarazioni di decadenza della potestà genitoriale in epoca successiva, dunque si potrebbe attribuire al “non riconosciuti” una valenza preventiva rispetto all’abbandono tardivo (cfr. la Tabella n. 3).

 

Aspetti psicologici del riconoscimento

Chiunque si avvicini all’evento della nascita porta il riverbero, più o meno consapevole, del personale ingresso nella vita che ne ha determinato la visione, ciascuno quindi legge la realtà sulla base dei codici di decodificazione appresi nella acquisizione della propria “lingua madre”. Avere consapevolezza di ciò è fondamentale per acquisire il dovuto relativismo delle “realtà” possibili.

Possiamo quindi assumere che stereotipi biologici, familiari, morali, sociali e culturali, in assenza di consapevolezza, come un chip o una matrice selezionano ed orientano la stessa percezione del reale.

Per fare un esempio, è sufficiente rimandare alla convinzione largamente diffusa che il cosiddetto legame “del sangue” costituisca una precondizione garantista di una filiazione “autentica” e per questo dotata di valenza di per sé positiva. Tuttavia la legittimazione biologica non certifica affatto quella psico-affettiva, né garantisce un processo di crescita “sufficientemente buono”.

Un bambino può essere presente nella dimensione fisica di una donna, dentro la sua pancia, ma se non entra nella dimensione psichica, se non viene generato nel pensiero, non è visto.

Il contenimento fisico, dunque, da solo non garantisce ad un bambino un ingresso favorevole nel mondo della vita. Una donna che vive in frustrazione la propria condizione e la propria maternità realizzerà un uso strumentale, con valenza compensativa, del figlio.

In tali circostanze possiamo immaginare il periodo della vita intrauterina, per il processo di risonanza del feto allo stato emotivo ed endocrino della madre, caratterizzato da una condizione di incertezza, di ambivalenza, di sospensione, di conflitto, di rifiuto. La madre trasmette al feto attraverso molteplici canali, non solo gli elementi del proprio stato biologico, ma anche quelli della propria sfera mentale ed emotiva. Già prima della nascita il bambino assimila l’universo di senso che a lui viene declinato dalla donna che lo ha generato.

«Il feto reagisce nel corpo della madre esatta­mente come un organo del suo corpo. Conse­guentemente come un qualsiasi organo di un essere umano può ammalarsi per infiltrazione di emozioni negative, così accade la lesione dell’autonomia ed integrità del futuro bambino». (A. Meneghetti, 1995).

Il cucciolo d’uomo si struttura su quanto gli viene rappresentato dall’adulto che si pone come primo ambiente di protezione, dal suo modo di essere pone le radici del proprio “Io” che inizialmente è amebico. Esso si sagoma in diverse forme, in relazione a ciò di cui si nutre e che metabolizza, all’interno di un processo di etero identità che solo successivamente potrà diventare di auto identità.

La famiglia è l’unità di base di ogni istituzione sociale, politica e giuridica, ma utilizzando una metafora di natura biologica, si ricava l’impressione che ci si occupi della salute degli organi, omettendo completamente di considerare lo stato di salute delle cellule. Solo cellule sane fanno organi e organismo sani ed è dal nucleo che è necessario partire per promuovere salute e ben-essere.

Ciò che oggi si impone è la necessità di collocare l’individuo al centro, quale epifania della vita, restituendogli la dignità di individuazione che contiene in sé, in modo separato e distinto da chiunque altro, il personale progetto di natura che ha diritto a poter realizzare nell’ecosistema a sé più funzionale.

Il “seme” contiene dentro di sé la propria specificità, il progetto, l’indirizzo, tutto questo è già dato, ma rimane in una condizione virtuale se l’ecosistema in cui è accolto non gli fornisce il nutrimento necessario, l’energia per svilupparsi. Un “seme”
può portare nel suo nucleo grandi potenziali, ma se l’habitat nel quale è contenuto non è congeniale alla sua crescita, questa non si svelerà, o si manifesterà in modo alterato o deviato.

Lo stereotipo della sacralità biologica non consente il necessario rispetto di ciascun individuo quale persona in sé e per sé e porta al rischio di confondere la “stazione di partenza” con il personale “viaggio”, con l’inevitabile conseguenza di non poterlo mai realizzare.

Ogni bambino ha bisogno di quel genitore capace di consentire ed agevolare la sua realizzazione.

Mi riferisco ai numerosi casi di riconoscimento indotto o forzato, dettato da condizionamenti culturali, stereotipie e meccanismi proiettivi personali che vanno ad agire sul senso di colpa, messi in atto da figure che in posizione di forza, incontrano la donna nel periodo della gravidanza o del parto, momenti caratterizzati, per intrinseca natura, da fragilità psico-emotiva o da permeabilità alle influenze
esterne.

Sono noti a tutti gli esiti di tali “forzature”. Quasi sempre producono abbandoni tardivi, episodi di maltrattamento e di abuso, carenza di cure, con gravissimo danno sul piano psico-affettivo per il bambino ed anche per la madre.

Il momento del parto rappresenta il “punto zero”.

Il più delle volte costituisce l’unica occasione di contatto con donne irraggiungibili e di osservazione di una relazione genitoriale che già mostra i segni di sofferenza ed i prevedibili rischi evolutivi. Il momento della nascita è la condizione esclusiva in cui tutto è visibile, se si vuole vedere, è un momento in cui potenzialmente è possibile porre in essere interventi di protezione e di aiuto, nel rispetto dei diritti e dei bisogni di chi genera e di chi nasce. È a partire da questo momento, a forte valenza strutturante, in un’area particolarmente “scoperta” di servizi di diagnosi e di prognosi e di interventi psico-sociali che debbono essere progettate azioni di rete volte a proteggere la nascita e a sostenere la relazione genitoriale.

Solo da una corretta lettura del bisogno è possibile progettare servizi che producono una efficace ricaduta in termini di ben-essere.

Nel territorio di Roma e provincia le donne che hanno partorito usufruendo del diritto al “non riconoscimento” sono divenute dalle 51 del 1995 alle 80 del 2003: l’aumento del flusso migratorio, particolarmente di donne sole, sembra poter essere ritenuto un fenomeno correlato all’incremento del dato.

La scelta del non riconoscimento può essere sostenuta da diverse motivazioni; nella prevalenza delle situazioni chi ha generato, nella consapevolezza delle proprie condizioni, dei propri limiti e dei rischi a cui esporrebbe il proprio nato, rinuncia ad esercitare la funzione di genitore, consentendo l’immediata attivazione, a tutela del minore, dell’iter giuridico dell’adozione.

In questi casi il non riconoscimento anagrafico segnala invece il riconoscimento del bambino quale persona distinta che ha il diritto di vivere in una famiglia in grado di accompagnarlo nel suo percorso di crescita: si pone dunque come scelta responsabile e protettiva.

Per mia esperienza, tale condizione si manifesta con minore sofferenza e più ampio vantaggio per chi nasce e per chi genera, allorquando una donna in difficoltà viene sostenuta nel periodo della gravidanza ed in quello ad essa successivo, in un contesto adeguato e favorevole, da un servizio specialistico, competente ed ideologicamente laico, che la aiuti a maturare con consapevolezza la scelta più funzionale, in quel momento, ai bisogni di entrambi.

In questo modo la decisione di esercitare il diritto del non riconoscimento può essere vissuta come responsabile atto di amore, come decisione di affidare in mani più sicure delle proprie il bambino messo al mondo, per consentirgli l’accoglienza, l’accettazione, le cure, l’amore di cui ha bisogno per crescere in modo sano ed equilibrato. Una donna che può maturare con consapevolezza questa decisione, ricevendo il sostegno necessario ad elaborarla, vivrà la gravidanza in modo meno traumatico per sé e per il feto.

A lui trasmetterà quello che è in grado di offrire, la vita, ed insieme potranno prepararsi a quel commiato, che in tali circostanze può assumere il significato di un saluto motivato, anche se doloroso, piuttosto che di una lacerante rottura di relazione. Questa condizione oltre ad essere di maggiore protezione per il bambino, assume anche per la donna una valenza meno negativa, poiché le restituisce la dimensione di persona che ha protetto, la stima di sé viene meno pesantemente compromessa e si amplificano gli aspetti positivi di valutazione del dono della vita realizzato, rispetto alle implicazioni di giudizio connesse al mancato riconoscimento.

Drammatica invece, per gli esiti che produce nel bambino e nella madre, è una rottura tardiva della relazione, tanto più se viene decretata da un tribunale. In questo caso il bambino si trova esposto ad una relazione insicura e sospeso in termini di appartenenza. La donna dal canto suo è impossibilitata ad accettare il verdetto di madre inadeguata; dunque, tende più facilmente a contrastarlo sia promuovendo azioni di opposizione al decreto promosso dal tribunale per i minorenni, sia realizzando nuove gravidanze con modalità coatta e con finalità sostitutiva o riparativa.

Va comunque riconosciuto che non mancano casi in cui la donna non è in grado di riconoscere le proprie incapacità e/o impossibilità a crescere un figlio ed ha bisogno che qualcuno decida per lei; in queste situazioni, con responsabilità e correttezza professionale, è necessario che gli organismi preposti adottino le misure di protezione necessarie per la donna e per il bambino.

Parimenti è responsabilità delle istituzioni e dei servizi rivolti alla persona, attivare ogni intervento utile a sostegno di quelle forme di genitorialità che espongono punte di fragilità, ma che mostrano una evoluzione favorevole. Nel nostro sistema sociale sempre di più osserviamo che la genitorialità non ha una unica forma; le geografie familiari tendono ad essere più complesse e a renderne più faticosa l’assunzione della funzione educativa e di cura dei figli. Mi riferisco anche al crescente numero di famiglie monogenitoriali, di quelle ricostituite, delle situazioni di conflitto coniugale con uso strumentale dei figli, delle coppie definite miste in ragione della diversità etnica, culturale e/o religiosa. Nuove realtà di disagio richiedono all’interno di rinnovati orientamenti delle politiche sociali, nuovi codici di lettura e nuovi modelli di servizi.

 

Che cosa fare?

In via preliminare è necessario promuovere forme adeguate e mirate di informazione e di sensibilizzazione rivolte alle donne, ed alla comunità sociale, attraverso modalità di comunicazione efficaci che raggiungano sia la dimensione logico-razionale, sia quella più profonda emozionale, per consentire alla donna l’esame degli aspetti di realtà insieme a quelli dinamici che sono la causalità prima delle azioni messe in atto.

Depliants informativi sulla legislazione italiana in merito ai diritti della donna e del nascituro e di orientamento ai servizi potrebbero essere predisposti ed anche tradotti nelle lingue delle etnie presenti nel nostro paese, tenendo conto degli specifici codici culturali e diffusi nell’ambito dei consolati, dei centri Caritas, dei centri di ascolto, di tutte le strutture e le associazioni del terzo settore, dei servizi socio-sanitari, nonché dei reparti ospedalieri di maternità, ambiti nei quali, per motivazioni di diversa natura, accedono donne in difficoltà.

Parimenti potrebbero essere progettate, d’intesa con il Ministero della pubblica istruzione e con quello del lavoro e delle politiche sociali, campagne di informazione e di sensibilizzazione al problema, nella fascia adolescenziale della scuola dell’obbligo, anche al fine di creare uno spazio, luogo di “pensabilità” e “comunicabilità” su eventi intorno ai quali solitamente si coniuga il silenzio ed il meccanismo di negazione collettiva, l’ormai famoso “nessuno si era accorto di nulla”.

La stipula di protocolli di intesa tra tribunali per i minorenni, uffici di stato civile, enti locali, Asl, nello specifico consultori familiari, dipartimenti di salute mentale e servizi tossicodipendenze, centri nascita di aziende ospedaliere e coordinamento delle comunità di accoglienza, renderebbe possibile la messa a punto di un modello operativo che si avvale del contributo delle diverse e specifiche competenze professionali e consentirebbe l’efficace messa in rete di risorse sanitarie, sociali ed educativo-assistenziali che, nel rispetto della privacy, potrebbero consentire la precoce individuazione del bisogno o del disagio e la presa in carico della persona.

Serve formare specifiche categorie professionali, con l’obiettivo di costituire unità operative specializzate che operino a livello interprofessionale, secondo un modello condiviso.

Al riguardo, di maggiore complessità appare il problema della formazione e di quella che possiamo definire “autenticazione” degli operatori, pubblici e privati, che a vario titolo incontrano donne che si trovano ad affrontare una gravidanza inattesa o a rischio psico-sociale.

La complessità risiede nella imprescindibile necessità che l’operatore possegga la condizione di “autenticità”, intendendo per autenticità la piena conoscenza e la consapevolezza di sé, del proprio sistema di valori e delle personali dinamiche, unite alla capacità di percepire l’altro come persona da sostenere perché realizzi, con sufficiente consapevolezza, la “propria scelta”. Chi intercetta momenti di così forte pregnanza emotiva, strutturanti la vita, ha l’obbligo di essere autentico e consapevole a sé stesso. Realizzare tale condizione di autenticità della persona appare un obiettivo più complesso perché ha a che fare con il percorso di maturazione, di coscientizzazione e di elaborazione di ciascun individuo. All’operatore che svolge una professione di aiuto, si chiede inoltre di superare la rassicurante dimensione di autoreferenzialità, per collocarsi in quella di interprofessionalità. Il lavoro in équipe e la ineliminabile presenza di spazi di supervisione possono contenere i rischi connessi all’interferenza di aspetti dinamici personali.

Mi riferisco, nello specifico, ai rischi purtroppo frequenti di contaminazione ideologica, di proiezione inconsapevole delle personali dinamiche sugli altri, di induzione di scelte.

La severità di giudizio a volte espressa da alcuni nei confronti di chi manifesta la possibilità di non riconoscere il proprio nato, può stigmatizzare ad indurre scelte non rispettose della intima posizione dell’altro e non funzionali al benessere ed alla evoluzione psico-affettiva di chi genera e di chi nasce; forse può risultare più utile interrogarsi, in tali situazioni, sul perché ci si pone di fronte all’altro utilizzando una pre-costituita, personale lettura della realtà.

 

Le buone prassi

La funzione di cura dei figli riguarda certamente la famiglia, ma coinvolge, in termini di responsabilità, tutta la società.

Una relazione che soffre produce disagio e malattia. La sua protezione e tutela debbono divenire, a partire dalla gravidanza, oggetto di nuove politiche sociali.

Centriamo dunque il focus sui punti di criticità connessi al fenomeno della nascita a rischio per individuare i punti forza su cui investire in termini progettuali, con la prospettiva di realizzare il cambiamento ed interrompere la catena del disagio che siautoperpetua” e dell’assistenzialismo che si autopromuove.

Oggi è certamente un punto forza che le competenze su gestanti e minori non riconosciuti, riconosciuti dalla sola madre o esposti all’abbandono, competenze storicamente esercitate dalle Province sin dal 1927, vengano reintegrate in seno ai Comuni: ciò infatti può consentire di realizzare, senza più frammentazione, sovrapposizioni o totale assenza di continuità, interventi che promuovano ben-essere ad un individuo reintegrato nell’unicità di persona e percepito non solo come passivo e dipendente portatore della domanda, ma anche di risorse individuali indispensabili a comporre, in modo attivo, partecipe e responsabile la sua risposta.

La legge 328/2000 riconosce il valore della partecipazione attiva della persona ai processi civili, sociali e lavorativi e ne rivendica la portata in termini di ricchezza sociale. È indispensabile restituire al cittadino il diritto di cittadinanza di sé, facendolo uscire dalla condizione di sudditanza da uno Stato che mantiene in una condizione di dipendenza e che non emancipa. Compito delle istituzioni preposte è la promozione di politiche integrate che favoriscano la capacità di investimento e di empowerment personale.

Particolarmente in questa delicata area di intervento le politiche sociali debbono muoversi in un’ottica di prevenzione, intesa non solo come rilevazione precoce delle condizioni di rischio, ma come attivazione di risorse positive multiple che producono cambiamento e benessere.

Ed è proprio il cambiamento, in termini di processo di crescita finalizzato a realizzare autonomia e salute, la vera scommessa delle politiche sociali del terzo millennio. Se vogliamo tendere alla costruzione di una società composta di individui sani, autonomi e sufficientemente felici dobbiamo partire dalla sua cellula iniziale, l’individuo, dal momento della sua nascita, riconoscendogli il diritto a crescere in un ecosistema psico-affettivo capace di consentire lo sviluppo del suo potenziale di natura in modo sano e funzionale.

Il sistema sociale, ed in questo caso l’ente locale, deve porsi come ecosistema funzionale alla realizzazione di ciascun individuo proponendo quegli elementi di nutrimento che è tenuto a fornire, seguendo la logica della crescita e dell’emancipazione e non quella della conferma in condizioni di dipendenza infantile.

Su di me ha sempre prodotto forte risonanza emotiva il constatare, dall’analisi dei dati presenti negli archivi provinciali, la presenza di un andamento generazionale ridondante circa la condizione di madre nubile, trasmessa da nonna a madre a nipote, come fosse un tratto a trasmissione genetica.

Questa evidenza, accanto agli inevitabili sentimenti di frustrante impotenza, deve farci riflettere sulla carenza di incisività, in termini di cambiamento, delle politiche sociali sino ad oggi attuate.

La dominanza di interventi compensativo-riparativi di natura assistenziale ha portato sovente ad un rinforzo del disagio, alla cristallizzazione di categorie di assistiti, ad una radicalizzazione passivizzante di una dipendenza che disattiva le risorse personali.

La realizzazione di efficaci interventi impone anche un cambiamento radicale delle politiche sociali e l’assunzione di una nuova identità da parte dei servizi che da socio-assistenziali dovrebbero divenire socio-promozionali, centrati sulla persona e su una corretta decodificazione del bisogno, con capacità di promuovere crescita, autonomia e benessere.

Concludo prendendo a prestito una riflessione di F. Dolto per la quale prevenire significa «solle­vare dalla solitudine, condividere, superare l’inconsapevolezza, l’inquieta impotenza di fronte agli imprevisti».

 

 

 

Tabella n. 1

        Interventi sulla potestà genitoriale                                            Provvedimenti di urgenza a protezione del minore

                 anni                                  valori assoluti                                   totali                          di cui di allontanamento

            1995                               5.831                              9.830                                 2.374

            1996                               5.779                              9.848                                 2.632

            1997                               6.306                            10.341                                 2.914

            1998                               7.797                            10.961                                 2.874

            1999                               7.765                            10.450                                 3.079

            2000                             10.903                            12.372                                 4.123

 

 

Tabella n. 2 - Procedimenti e provvedimenti in materia di adozione di minori italiani presso i Tribunali per i minorenni - Anni 1995-2000

 

      Anni           Procedimenti                  Dichiarazioni                                        Domande                                   Adozioni nazionali

                       sull’adottabilità        di adottabilità del minore                      di adozione nazionale                              pronunciate

                          del minore                Totali                di cui con               Totali                di cui in casi            Totali               di cui in casi

                                                                                 genitori noti                                        particolari                                       particolari

    1995             3.200            1.133              798              8.487              663             1.475             593

    1996             3.400            1.328              970              9.374              689             1.455             621

    1997             4.106            1.468            1.171              9.839              691             1.494             516

    1998             3.208            1.276              946              10.424              627             1.611             543

    1999             4.116            1.138              838              11.529              741             1.545             545

    2000             3.797            1.172              810              11.856              730             1.716             638

 

 

Tabella n. 3

 

               Totale per i minorenni di Roma                            Totale aperture di procedimenti di adottabilità

   1999         2000        2001         2002         2003                                  1995        1996         1997         1998

      59             48           70            80            80        0-1 anno                 51           65            70            72

      18             26           18            22            20        1-3 anni                  30           20            26            23

      21             11           12            17             4        3-6 anni                  19           14            23            27

      14             15             8            10             9        6-10 anni                 21           16            25            27

        8               9             7            13            12       oltre 10 anni            23           31            23            29

     120           109         115          141          135            Totali               144          614           167          178

 

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* Psicologa, psicoterapeuta, Servizio Interventi sociali e politiche per la famiglia della Provincia di Roma, giudice onorario del Tribunale per i minorenni di Roma. Relazione tenuta al convegno regionale di Modena “Maternità difficili: la tutela della donna e del neonato”.