Prospettive assistenziali, n. 150, aprile - giugno 2005

 

 

ASL TORINO 3: L’ESPERIENZA DI DUE COMUNITà TERAPEUTICHE PER HANDICAPPATI INTELLETTIVI CON GRAVI MALATTIE CRONICHE

 

 

Il 2 e 3 ottobre 2003 ha avuto luogo a Torino, promosso dall’Asl 3, un importante convegno sul tema “La gestione multidisciplinare e multiprofessionale della gravissima disabilità” (1), che è stato l’occasione per fare il punto sull’esperienza della prima e unica realtà italiana di gestione sanitaria di una Rsa, residenza sanitaria assistenziale, dedicata a handicappati intellettivi affetti da pluripatologie.

Come ha ricordato il prof. Bellucci Sessa nella sua introduzione agli atti del convegno «con rilevante lungimiranza, dopo una serie infinita di controversie e manifestazioni al limite del romanzesco, il Comune di Torino affidava nel 1995 la gestione della prima ed unica Rsa per “Handicappati gravissimi ultraquattordicenni”, realizzata con progetto avveniristico nei primi anni ‘80, ma poi rimasta per lunghi anni incagliata nelle secche procedurali e burocratiche e quindi inutilizzata, all’Asl 3 la quale incorporava nell’Unità operativa autonoma di medicina fisica e riabilitazione per la gestione clinica diretta, avviando una nuova collaborazione clinico-riabilitativa tra fisiatri, infermieri della riabilitazione, occasionalmente terapisti, da una parte ed educatori e psicologi dall’altra, su un terreno tanto inesplorato, quanto fecondo di risultati inattesi. (…) Si è infatti impostato fin dall’inizio un lavoro strettamente interprofessionale e multidisciplinare che, partendo dalla valutazione di accettazione collegiale, anche fra le componenti sociali e sanitarie, si sviluppa mediante protocolli educativi in stretta collaborazione tra la componente degli educatori e fisiatrica, con un costante supporto sanitario infermieristico e medico specialistico oltre che fisiatrico, strettamente interdisciplinare, sempre attento a non esasperare la medicalizzazione del rapporto con un ospite verso il quale prevale sempre il rapporto il più possibile della residenzialità nella sua accezione più familiare».

In breve, l’Asl 3 di Torino ha accettato la sfida di gestire in prima persona una struttura residenziale dedicata a soggetti con handicap intellettivo, con prevalenti esigenze di natura sanitaria che, se non soddisfatte adeguatamente, potevano compromettere seriamente la loro esistenza.

La novità (e l’unicità) dell’esperienza è tutta qui, ma, come vedremo, non era affatto scontato che il Servizio sanitario regionale accettasse di occuparsi in prima persona di questa tipologia di soggetti.

 

Un po’ di storia

Verso la fine degli anni ’70, le associazioni aderenti al Csa - Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base (2) si trovano ad affrontare il problema delle persone con handicap intellettivo, anche giovani, che presentavano gravi problemi di natura sanitaria.

Per queste persone, in primo luogo malate, vi era l’esigenza di individuare una risposta residenziale – alternativa all’ospedalizzazione a vita – che avesse le caratteristiche della comunità alloggio per quanto concerne la riproposizione di un ambiente familiare, ma che nel contempo fosse in grado di assicurare loro anche interventi sanitari complessi e tempestivi, che l’organizzazione di una comunità alloggio assistenziale non può prevedere.

All’inizio degli anni ’80, dopo lunghe trattative con il Comune di Torino, viene progettata una struttura moderna, adiacente ad uno degli ospedali di riferimento dell’Asl 3, che comprende tre moduli (3). Due di questi sono adattati a piccola residenza e comprendono due nuclei da 8 posti letto con annesso un ampio soggiorno più locali per vasca a farfalla, bagno, lavanderia, uffici. Il modulo rimanente verrà adattato successivamente a centro diurno, per evitare di riproporre una concentrazione di soggetti problematici, che avrebbe avuto un difficile impatto con la realtà circostante compromettendo a priori l’integrazione sociale.

Passano quindici anni prima che sia finalmente inaugurata la Rsa di corso Svizzera 140. Sono notevoli le difficoltà incontrate per ottenere che la gestione sia assunta dall’Asl, e non dal Comune di Torino, settore assistenziale.

 

Perché una piccola Rsa gestita dall’Asl

È il Csa a insistere per la gestione sanitaria e a non desistere di fronte alle difficoltà frapposte continuamente dalle istituzioni, ritenendo che solo con l’assunzione di una diretta responsabilità da parte della sanità si potesse davvero tutelare le esigenze degli handicappati malati, che sarebbero stati ricoverati nella Rsa.

Le difficoltà nascevano proprio dal fatto che il concetto di cure sanitarie in strutture residenziali per handicappati gravissimi non era per nulla scontato, ma le esperienze operative hanno confermato la validità delle richieste.

Tiziana Iacomussi, medico dell’Unità operativa autonoma di medicina fisica e riabilitazione dell’Asl 3 di Torino nel suo intervento ricorda come «il problema sostanziale che ha determinato l’accumulo di ritardi nella apertura e soprattutto nell’avvio di gestione della prima struttura residenziale per disabili gravissimi, è legato al tipo peculiare di assistenza erogata che contempla una componente sanitaria istituzionale accanto ad una componente educativo-sociale nel rispetto della integrità fisico-psichica degli ospiti, incentivando la socializzazione e la comunicazione in ambito residenziale, nella accezione più fedele del termine. (…) Realtà operativa quindi particolarmente complessa e nuova, che prevede un’azione coordinata ed a volte contemporanea o consequenziale di più figure professionali alla ricerca costante del mantenimento di un delicato equilibrio tra sanitario e sociale, che eviti da un lato la medicalizzazione spinta della struttura con interventi sanitari preponderanti e contemporaneamente garantisca un’assistenza sanitaria specialistica organica ed integri a livello di riabilitazione globale l’intervento educativo specifico. (…) Nella struttura residenziale per disabili gravissimi la modalità di lavoro utilizzata abitualmente in riabilitazione subisce una metamorfosi per la necessità di avviare una collaborazione attiva tra educatori e psicologi e fisiatri e infermieri della riabilitazione. (…) La multiprofessionalità e interdisciplinarietà delle varie figure specialistiche (nutrizionista, neurologo, foniatra, internista, ortopedico, odontoiatra) diventa estremamente importante e fondamentale nella risoluzione di problemi sanitari individuali, a volte complementari e consequenziali, in funzione di un migliore approccio alle potenzialità riabilitative residue, con risultati sinergici ad ampia valenza clinica senza incorrere nel pericolo di medicalizzare l’ospite o la struttura» (4).

 

Esigenze sanitarie degli ospiti

Come risulta dalla relazione presentata nel giugno 1999 dalla dott.ssa Maria Gabriella Bolloni «sono state individuate otto aree di criticità sanitaria e per ciascuno dei 16 ospiti è stato valutato il livello di compromissione e quindi il carico sanitario che ne deriva:

«a)  Insufficienza respiratoria: moderata in 3 ospiti; grave in 2 ospiti; gravissima in 4 ospiti.

«b)  Necessità di clisteri evacuativi: saltuaria per 2 ospiti; frequente per 4 ospiti; costante per 6 ospiti.

«c)  Necessità di dieta particolare e modalità di alimentazione sorvegliata: a medio impegno sanitario per 4 ospiti; a notevole impegno sanitario per 9 ospiti. Sono presenti patologie quali disfagia (con possibile transito del bolo alimentare nelle vie aeree), varici esofagee da ipertensione portale, ulcera peptica, edentulia, anemia sideropenica cronica.

«d)  Infezioni delle vie urinarie: saltuarie in 3 ospiti; frequenti in 8 ospiti che indossano abitualmente presidi per l’incontinenza.

«e)  Sorveglianza stato di idratazione e nutrizione: necessità costante per tutti i 16 ospiti.

«f)   Crisi comiziali: in buon compenso con anticomiziali 5 ospiti; crisi saltuarie 1 ospite; crisi frequenti 4 ospiti; crisi molto frequenti e gravi 1 ospite.

«g)  Sorveglianza stato della cute utile per tutti ma costante per 4 ospiti a continuo rischio di ulcere da pressione.

«Inoltre sono presenti necessità più o meno costanti quali:

- effettuazione di medicazioni;

- somministrazione di terapia iniettiva e/o infusionale;

- gestione delle schede infermieristiche degli ospiti;

- segnalazione delle problematiche sanitarie al medico curante;

- programmazione di prenotazione ed espletamento di esami e visite specialistiche quando disposto dal curante».

 

La riflessione in itinere dei responsabili dell’Asl

L’avvio della Rsa vede inizialmente una sottovalutazione delle problematiche sanitarie da parte della stessa componente medica. Lo ammette con estrema onestà intellettuale il direttore sanitario dell’Asl 3 nel corso del suo intervento al convegno suddetto. L’evoluzione dell’organizzazione delle cure è stata preceduta da una evoluzione “ideologica”: in primo luogo si è dovuto toccare con mano che  i soggetti ricoverati nella piccola Rsa erano in effetti malati gravi e, come tali, andavano trattati e seguiti dai vari comparti della medicina specialistica.

Il Csa contribuisce a questa accelerazione. Attraverso visite periodiche cerca di monitorare i soggetti che vengono ricoverati, per evitare che la struttura, nata per coprire esigenze sanitarie, venga utilizzata ad esempio dal Comune di Torino per ricoverare soggetti con handicap intellettivo in carenza di comunità alloggio assistenziali.

Verifica con gli operatori, che gestiscono la parte di assistenza tutelare alla persona (educatori, assistenti personali), il funzionamento del supporto medico dell’Asl. Viene così a sapere che vi sono carenze per quanto riguarda la presenza infermieristica, difficoltà di accesso degli operatori ai dipartimenti di emergenza, scarsa possibilità di usufruire degli stessi specialisti.

Tutto questo comporta ripercussioni negative anche sugli stessi soggetti ricoverati. Infatti,  non vengono seguiti sempre dagli stessi medici e ciò aggrava ulteriormente la possibilità di intervenire correttamente su pazienti non in grado di esprimere i loro bisogni.

I problemi emersi vengono affrontati insieme dal Csa con i dirigenti della cooperativa sociale che gestisce la parte assistenziale e i responsabili sanitari dell’Asl 3, che, come abbiamo visto, è impegnata in questa esperienza. Ne consegue la revisione del modello organizzativo da parte dell’Asl 3.

Viene assegnata un’infermiera fissa per quattro ore al giorno,  si mettono a punto protocolli per la prevenzione dei decubiti, l’assistenza dietologica, quella odontoiatrica; sono predisposti percorsi preferenziali con i dipartimenti di emergenza, sono programmate visite specialistiche da effettuare nella struttura.

La prima conseguenza positiva è la riduzione del ricorso al pronto soccorso, riduzione che nasce dalla tranquillità degli operatori di poter contare sempre, anche attraverso la reperibilità, su medici di riferimento che conoscono i pazienti e sul supporto importantissimo per ogni bisogno sanitario di esperti del settore: nutrizionista e dietista, foniatra, logopedista, neurologo, fisiatra, ortopedico, oculista, otorino, internista.

Tutti questi specialisti sono intervenuti al convegno e hanno illustrato con molta chiarezza il ruolo importante che hanno avuto per migliorare le condizioni di vita dei soggetti ricoverati nella Rsa, non mancando di riconoscere quanto a loro volta abbiano appreso dalla necessità di reinventarsi una modalità di intervento nei confronti di malati le cui condizioni di salute erano estremamente com­plesse.

Nel tempo i responsabili dell’Asl comprendono, altresì, che nell’interesse dei ricoverati è opportuno individuare solo due medici di medicina generale di riferimento tra i medici dell’Asl, “congelando” così i 16 medici dei pazienti che in teoria potevano intervenire se la struttura fosse stata considerata come l’abitazione di ciascuno dei 16 ricoverati.

Dalla nuova organizzazione delle cure sanitarie hanno tratto indubbiamente vantaggio le persone accolte, ma anche il personale educativo ha acquisito notevole serenità e tranquillità, che si è tradotta in un investimento maggiore nella qualità delle prestazioni assistenziali ed educative sulla quale hanno potuto dirigere le loro energie, una volta sollevati dalle problematiche sanitarie.

Va riconosciuto infine sia all’Asl 3, che alla cooperativa sociale, di aver sempre cercato il coinvolgimento non solo delle famiglie ma anche delle associazioni di tutela, accettando il confronto e, come è stato dimostrato dai fatti, anche con modifiche sostanziali di percorso.

A dimostrazione delle concrete possibilità e capacità degli operatori sanitari di assumere validamente le valenze relazioni e sociali riportiamo un’ampia sintesi delle relazioni presentate al convegno in oggetto di Maurizio Colonna, Dirigente medico dell’Unità operativa autonoma di Medicina fisica e riabilitazione dell’Asl 3 di Torino, della dott.ssa Maria Vece, responsabile della gestione della struttura e di Rosa Talarico, infermiera professionale dell’Asl 3.

 

Relazione di Maurizio Colonna

È possibile ancora un progetto riabilitativo? La risposta che potrebbe nascere da una domanda così categorica è no. L’indole fisiatrica che mi appartiene, mi induce a riflettere ed a ricordare la ormai risaputa, ma mai obsoleta, definizione della riabilitazione in ambito socio-sanitario:

«processo di soluzione dei problemi e di educazione nel corso del quale si porta una persona disabile a raggiungere il miglior livello di vita possibile sul piano fisico, funzionale, sociale ed emozionale, con la minor restrizione possibile delle sue scelte operative, pur nell’ambito della limitazione della sua menomazione e della quantità e qualità delle risorse disponibili. Processo che per le disabilità gravi deve coinvolgere anche la famiglia del disabile, quanti sono a lui vicini e, più in generale, il suo ambiente di vita».

Come si può notare in queste righe si ritrovano molti particolari interessanti, da cui prendere spunto per iniziare a ragionare in modo fisiatrico nell’ambito di una Rsa di questo tipo. Per poter intraprendere un cammino riabilitativo coerente e che possa raggiungere obiettivi propri della nostra professione mi sono chiesto se sia possibile stabilire un progetto riabilitativo. Al riguardo ho ripreso in mano la definizione di progetto riabilitativo che può essere individuale o di struttura.

 

Progetto riabilitativo individuale

è un insieme di proposizioni, elaborate dal team riabilitativo, coordinato dal medico responsabile che:

– tiene conto dei bisogni, delle preferenze del paziente (e/o dei suoi familiari quando necessario), delle sue menomazioni, disabilità e abilità, oltre che dei limiti imposti dalle situazioni ambientali e dalle risorse disponibili;

– definisce quali siano gli esiti (outcomes) desiderati, le aspettative e le priorità del paziente, dei suoi familiari quando necessario e del team dei professionisti (individuando eventuali divergenze e incompatibilità);

– deve dimostrare la consapevolezza e la comprensione, da parte del team riabilitativo, dell’insieme delle problematiche del paziente, compresi gli aspetti che non sono oggetto di interventi specifici;

– definisce il ruolo del team riabilitativo rispetto alle azioni da intraprendere per il raggiungimento degli esiti desiderati;

– definisce nelle linee generali i tempi previsti, le azioni e le condizioni necessarie al raggiungimento degli esiti desiderati;

– è comunicato in modo comprensibile ed appropriato al paziente, e/o ai suoi familiari quando necessario;

– è comunicato a tutti gli operatori coinvolti nel progetto stesso;

– costituisce il riferimento per ogni intervento svolto dal team riabilitativo;

– deve essere modificato ed adattato qualora:

1) si verifichi un cambiamento sostanziale degli elementi in base a cui è stato elaborato (bisogni, preferenze, menomazioni, abilità-disabilità residue, limiti ambientali e di risorse, aspettative, priorità);

2) vengano raggiunti determinati esiti;

3) si verifichino menomazioni non previste rispetto ai tempi, alle azioni o alle condizioni precedentemente definiti;

– è nuovamente comunicato al paziente ed agli operatori in occasione di ogni modifica o adattamento.

 

Progetto riabilitativo di struttura

È dato dalla necessità di garantire da parte di un presidio o di un’altra struttura sanitaria o sociale un’azione genericamente riabilitativa tramite la dotazione, la disponibilità e l’organizzazione di spazi adeguatamente attrezzati, l’organizzazione del lavoro e delle modalità operative di tutta la struttura al fine di garantire un’idonea funzione di supporto finalizzata alla protezione ed alla stimolazione delle capacità funzionali e relazionali di tutti i soggetti ospitati nell’ambito della struttura stessa; conseguentemente, non richiedendo di norma, l’erogazione di prestazioni individuali di riabilitazione, può non essere necessaria la presenza di personale tecnico-professionale di riabilitazione.

Ogni struttura protetta dedicata al ricovero di anziani e disabili, Rsa, strutture di lungodegenza post-acuzie internistica ed ogni tipologia di presidio genericamente riabilitativo devono essere dotati e organizzati con un ben evidente progetto di struttura anche se non realizzano progetti e programmi riabilitativi individuali.

Queste strutture sono destinate a soggetti non autosufficienti con scarse prospettive di recupero, non gestibili al proprio domicilio, per i quali non è indicata la realizzazione di un progetto riabilitativo individuale, ma è necessario un progetto riabilitativo di struttura finalizzato al mantenimento ed alla promozione dei livelli di autonomia e delle abilità comunicativo-relazionali.

Nella struttura di Corso Svizzera, in questi anni, si è cercato di realizzare una forma di riabilitazione mista sociale e medica, di tipo “estensivo” (in quanto caratterizzata da interventi di più moderato e protratto impegno terapeutico e da un maggiore livello assistenziale quale quello diretto alla prevenzione di aggravamenti possibili in disabili gravi stabilizzati od a lenta evoluzione), prendendo in considerazione i reali bisogni dei pazienti, degli operatori coinvolti nell’assistenza e dei loro familiari.

Nel cercare d’identificare le problematiche (vedi il processo di soluzione dei problemi) che coinvolgevano i pazienti presenti nella struttura, abbiamo analizzato “la tipologia dei pazienti-utenti”, le necessità degli operatori coinvolti e della famiglia, la struttura.

Certamente le caratteristiche dei pazienti-utenti della Rsa di Corso Svizzera a Torino, non lasciano, a prima vista, molto spazio all’iniziativa di un riabilitatore.

Nonostante questo presupposto, abbiamo iniziato ad effettuare, su alcuni pazienti, una valutazione del grado di spasticità agli arti superiori ed inferiori.

Nei casi in cui non si è rilevato anche un certo grado di retrazione tendinea, abbiamo iniziato una terapia con farmaci miorilassanti per via orale, che ha permesso con dosaggi crescenti fino alla risposta terapeutica, di migliorare l’approccio al paziente da parte degli operatori con minori difficoltà nei trasferimenti e durante le manovre di igiene e delle attività di vita quotidiana.

Lo scopo che ci eravamo prefissati con l’introduzione della terapia miorilassante era anche quello di poter considerare in una fase successiva la prescrizione di idonei ausili (sistemi di postura, carrozzine basculanti, ecc.) che, se prescritti in maniera frettolosa, potevano non essere più idonei nel momento in cui il paziente avesse risposto alla terapia introdotta.

Sono state fatte valutazioni individuali per l’utilizzo di deambulatori, carrozzine elettroniche, ecc.

In quasi tutti i pazienti abbiamo cercato di valutare i fabbisogni calorici, controllando il peso corporeo e calcolando il Bmi dopo aver richiesto una consulenza del nostro nutrizionista e proseguendo in collaborazione con lo stesso e la dietista.

In molti casi si è valutato il grado di compromissione neurologica, controllando i dosaggi delle terapie in atto, cercando di gestire gli eventuali effetti collaterali delle terapie, previa richiesta di consulenza specialistica.

Per una valutazione dei disturbi della deglutizione, nei casi ritenuti necessari, si è proceduto ad effettuare un’indagine videofluorografica, che ha permesso di identificare un certo numero di pazienti con alterazioni delle normali fasi della deglutizione.

Sono stati inoltre considerati i disturbi della comunicazione con prove di fattibilità, nelle forme di comunicazione aumentativa alternativa a cura della nostra foniatra e logopedista, tuttora in corso.

Periodicamente vengono eseguiti esami ematochimici per ricercare eventuali effetti collaterali della terapia farmacologia e per determinare i dosaggi terapeutici dei farmaci anticonvulsivanti.

Sono stati considerati i disturbi delle funzioni autonome con la preparazione di protocolli dedicati al problema delle evacuazioni, in stretta collaborazione con lo specialista gastroenterologo.

Vista la difficoltà nell’assunzione dei cibi e nella successiva igiene orale si è ritenuto opportuno far valutare tutti i pazienti dallo specialista odontoiatra che ha fornito, oltre alla disponibilità per eventuali cure dentarie, anche consigli sull’igiene orale.

Grazie all’attività degli operatori e ad una fattiva collaborazione con la parte sanitaria, ci tengo a sottolineare che, nonostante la difficoltà motoria dei pa­zienti presenti all’interno della struttura, non si sono registrate presenze di gravi lesioni da decubito.

La presenza di figure sanitarie all’interno di questa struttura ha permesso agli operatori di poter richiedere, in tempo pressoché reale, la consulenza su vari problemi che si sono verificati nel corso delle attività quotidiane. Richieste specifiche di carattere rieducativo sono state effettuate per problemi di postura, sia in carrozzina che a letto; modalità nei trasferimenti dei pazienti (eventuale utilizzo di sollevamalati); valutazione della possibilità di assumere la posizione ortostatica per alcuni pazienti (con utilizzo di uno standing) e di deambulazione (con girello ed ascellari).

Nell’ambito di un progetto congiunto con gli operatori, partito lo scorso anno, si è cercato di valutare la possibilità, per alcuni pazienti presenti nella struttura, di poter effettuare un ciclo di idroterapia, accompagnandoli in acqua, sotto stretta sorveglianza di operatori qualificati.

Tutti noi operatori della riabilitazione non possiamo non riconoscere le potenzialità del movimento in acqua. L’acqua, ad idonea temperatura, è in grado di facilitare il rilasciamento muscolare ed aiutare nella sedazione del dolore.

L’azione sul tono muscolare nell’immersione è legato all’effetto termico, che non è comunque peculiare dell’acqua ed un effetto meccanico grazie al quale viene contrastato lo stiramento rapido che innescherebbe la risposta patologica. Dopo l’uscita dall’acqua i disturbi del tono tendono a ricomparire quasi sempre con gradualità nel giro anche di qualche ora. Il beneficio percepito può essere sfruttato anche nella successiva seduta di palestra.

Sempre grazie alla sua temperatura l’acqua permette al cuore di compiere un minor lavoro per eliminare il calore prodotto nell’esercizio; si ha un incremento della circolazione di ritorno, della pressione ventricolare destra e del volume di eiezione; migliora la gettata ed abbassa la frequenza car­diaca.

A livello renale permette l’aumento della liberazione di sodio e potassio favorendo la diuresi, la diminuzione della pressione, l’eliminazione dei cataboliti, tutti effetti che si mantengono dopo il periodo di immersione.

A livello respiratorio l’azione della pressione idrostatica sul torace combinata con l’aumento del volume sanguigno intratoracico ha l’effetto di aumentare il lavoro di ventilazione e di ridurre il volume di riserva espiratoria.

Grazie alla viscosità dell’acqua, durante il movimento in essa, la resistenza incontrata da un corpo che si muove, è direttamente proporzionale alla superficie del corpo in movimento ed alla velocità.

L’indubbio beneficio legato all’acqua mi ha visto positivamente predisposto a ripetere l’esperienza dello scorso anno.

Voglio infine ricordare il ruolo svolto dalla famiglia nell’ambito del progetto riabilitativo, soprattutto nelle gravi disabilità. La famiglia deve essere considerata come una reale risorsa e va integrata, con il paziente, all’interno del team riabilitativo. Il concetto è che alla base di tutto la famiglia deve fruire esattamente come il paziente, della presa in carico riabilitativa, è un utente del team riabilitativo, oltre che un’importante risorsa da utilizzare al meglio per il raggiungimento del miglior risultato possibile.

Nessun progetto o programma riabilitativo può essere perseguito e portato a termine senza la collaborazione e la piena condivisione del “paziente” e soprattutto, come nel caso specifico, della sua famiglia. Bisogna considerare che in alcuni casi i pazienti sono tutorati e pertanto è importante definire attentamente ed accuratamente quelli che sono gli obiettivi proposti.

Questo concetto, trova la sua massima esplicazione e ragion d’essere in caso di patologie gravi, che esitano in situazioni di grave disabilità permanente, in cui la famiglia è l’unico interlocutore possibile del team. L’addestramento dei familiari deve iniziare nel momento della presa in carico del paziente da parte del team (nella nostra realtà, durante la presa in carico dei pazienti, all’interno della Rsa, sono presenti, oltre al paziente, i famigliari od eventuali tutor, gli operatori precedenti e futuri, l’assistente sociale, il medico specialista di riferimento e l’infermiera).

Devono esistere determinati programmi mirati all’integrazione della famiglia all’interno del team dei professionisti. Questi programmi devono presupporre un’approfondita conoscenza reciproca tra il team e la famiglia e favorire un’efficace alleanza terapeutica.

Alcuni di questi programmi hanno lo scopo di:

– permettere alla famiglia di prendere visione della struttura riabilitativa prima o al momento del ricovero del paziente;

– permettere un’ottimale ed efficace accoglienza del paziente e della sua famiglia da parte del team dei professionisti al momento dell’arrivo nella struttura;

– fornire alla famiglia informazioni sulla struttura dove il loro caro è stato accolto (organizzazione, componenti del team, tipologia di pazienti presenti);

– permettere al team di raccogliere informazioni sulla famiglia e sul paziente;

– permettere ad entrambi di condividere il progetto riabilitativo (se attuato) e la “stipulazione di un corretto contratto terapeutico iniziale”.

Gli strumenti da utilizzare dovranno essere: visita guidata di presentazione del reparto; colloquio di accoglimento; colloquio di raccolta dati familiari e sociali; prima riunione familiare; materiale informativo sul mandato, l’organizzazione, l’organigramma del reparto; colloqui informali.

L’obiettivo dei programmi di addestramento della famiglia deve mirare ad ottenere che i familiari del paziente (o chi si occupa dello stesso) mettano in atto durante tutta la giornata comportamenti adeguati alla condizione fisica, cognitiva, comportamentale del paziente in modo da non vanificare i risultati ottenuti in sede di trattamento specifico. Bisogna fornire alla famiglia indicazioni a valenza terapeutica da mettere in atto durante eventuali sospensioni temporanee della presa in carico (es. schemi terapeutici che accompagnano il paziente all’uscita dal centro e che devono essere sempre fornite ai familiari con i relativi aggiornamenti)  o, per pazienti con outcome funzionale finale che non supera un certo livello di disabilità, per la loro gestione nel lungo termine: vestizione del disabile, stimolazione del paziente alle normali attività della vita quotidiana, manovre per l’igiene orale, alimentazione per bocca dei pazienti disfagici, controllo delle funzioni sfinteriche, gestione presidi per l’incontinenza, trasferimenti, addestramento alla deambulazione, gestione turbe comportamentali, prevenzione delle lesioni da compressione.

 

Relazione di Maria Vece

La Rsa è composta strutturalmente da due moduli abitativi speculari da otto posti ciascuno. Dal giorno dell’inaugurazione, avvenuta il 29 settembre del 1995, sono arrivati i primi ospiti, che inizialmente sono stati suddivisi fisicamente in due gruppi di otto in maniera casuale.

L’équipe di lavoro per la parte socio-assistenziale è composta da un responsabile, dieci educatori, quindici Adest, cinque di personale ausiliario addetto alle pulizie, tutti soci lavoratori della Cooperativa sociale Quadrifoglio.

Nell’arco della giornata sono presenti dodici operatori nei turni diurni, che garantiscono un rapporto numerico di un operatore ogni tre ospiti e due operatori notturni.

La forte presenza di educatori nell’équipe di lavoro, indica la valorizzazione dell’aspetto educativo-riabilitativo in una struttura di tipo sanitario che ha dato origine ad un nuovo modello di servizio residenziale rivolto a persone con handicap psico-fisico grave.

La convenzione definisce infatti la Rsa un “servizio socio-sanitario” ed indica come obiettivo “il recupero e/o mantenimento dell’autonomia personale degli utenti e la loro integrazione ed autodeterminazione nelle varie realtà sociali”. Viene richiesto a questo scopo che per ogni ragazzo sia predisposto un progetto educativo per la cui realizzazione l’Asl mette a disposizione prestazioni sanitarie specialistiche.

Durante i primi due anni di attività l’obiettivo principale del gruppo degli operatori è stato cercare di capire quali erano le risorse disponibili, i possibili impieghi di queste, come potevano essere soddisfatte le aspettative degli ospiti, delle famiglie e dei Servizi, oltre che rendere agibile una struttura rimasta inutilizzata per molti anni, al fine di creare un ambiente di vita che potesse diventare la nuova casa per i ragazzi che venivano accolti.

Il primissimo compito degli operatori è stato quello di valutare le condizioni degli ospiti che venivano man mano inseriti e che presentavano livelli di disabilità diversi: alcuni possedevano un discreto livello di autonomia ed abilità di base, che richiedeva interventi mirati ad acquisire ed incrementare le loro potenzialità e di un approccio di tipo educativo-riabilitativo, altri presentavano una situazione di disabilità più elevata, con necessità di un maggiore intervento mirato al mantenimento e di un approccio più di tipo conservativo.

In base a queste prime osservazioni, che consideravano alcune caratteristiche dei ragazzi legate alle abilità e qualità possedute, si è evidenziata la possibilità di operare una suddivisione che rispettasse un maggiore livello di omogeneità dei gruppi degli ospiti, per cui gli educatori hanno considerato utile definire una distinzione primaria basata principalmente sul livello delle abilità motorie.

Dopo due anni circa dall’inaugurazione infatti, in seguito a queste osservazioni ed all’esperienza acquisita, l’équipe degli educatori ha progettato una ridefinizione del modello operativo, con l’intento di renderlo più funzionale alla tipologia dell’utenza, a partire da una suddivisione degli ospiti nei due moduli abitativi diversa da quella iniziale e destinando la comunità gialla per i ragazzi con assenza di possibilità di deambulazione autonoma e la comunità blu per i ragazzi in possesso di capacità di deambulazione autonoma.

Tale suddivisione, oltre a migliorare l’organizzazione degli spazi, degli arredi e degli ausili, uniformandoli alle esigenze diverse dei ragazzi, ha reso possibile una gestione autonoma della quotidianità nei due nuclei abitativi ed ha permesso di ottimizzare le risorse strumentali ed il lavoro assistenziale ed educativo.

In seguito alla realizzazione del nuovo modello operativo sono stati elaborati i primi progetti sulle acquisizioni di abilità, rivolti agli ospiti della comunità blu, che hanno come obiettivo generale aiutare i ragazzi ad acquisire un sufficiente grado di autonomia.

A questo scopo sono stati creati dei protocolli di intervento per attività che mirano a coinvolgere i ragazzi nell’espletamento di alcune funzioni legate al vivere quotidiano: igiene personale, vestizione e svestizione, riordino letti, apparecchiamento e sparecchiamento tavoli, distribuzione dei pasti, pulizia zona pasto,  riciclo plastica.

Il modello seguito è quello di una situazione che si avvicini il più possibile ad un ambiente familiare, all’interno del quale vengono distribuiti ai singoli componenti compiti diversi. Attraverso lo svolgimento di piccole mansioni domestiche, i ragazzi partecipano attivamente alla vita della comunità, secondo le proprie possibilità.

Parallelamente ai protocolli di intervento per le attività quotidiane, rivolte agli ospiti in possesso di un sufficiente repertorio di requisiti, sono stati attivati dagli educatori dei laboratori che, in un contesto di attività individuali o di gruppo, con caratteristiche ludico ricreative, permettono anche la partecipazione dei ragazzi che, pur essendo compromessi dal punto di vista delle abilità di base ed autosufficienza, presentano possibilità di intervento nell'area delle abilità cognitive e relazionali.

Le attività laboratoriali sono state differenziate in relazione ai diversi ambiti di intervento possibili: acquaticità in vasca a farfalla, massaggio e contatto corporeo, attività motoria, attività espressiva, gite ed uscite sul territorio finalizzate.

Sono attività programmate che offrono ai ragazzi svariate possibilità: sperimentare situazioni di stimolo sensoriale e motorio attraverso il movimento, il ritmo e la musica, il massaggio, l’ascolto, tutto questo in funzione di un maggiore benessere psicofisico, di contribuire al mantenimento di alcune abilità motorie, di stimolare lo sviluppo di elementari abilità interpersonali quali il rispetto delle regole, oltre che favorire la formazione del senso di appartenenza al gruppo.

Per garantire per ogni ragazzo un’equa alternanza nella partecipazione alle varie attività, ognuna delle quali inserita in un contesto progettuale individuale, gli educatori hanno predisposto un programma settimanale, che è lo strumento che scandisce i vari momenti della giornata e della settimana, in modo che siano coinvolti in maniera adeguata tutti gli ospiti.

Oltre alle varie attività riabilitative e ricreative, progettate e condotte dagli operatori del servizio, gli educatori hanno introdotto alcuni percorsi con finalità terapeutiche, ricercando e strutturando la collaborazione di specialisti esterni quali psicologi e tecnici‑istruttori Iser.

In tali circostanze gli operatori hanno il ruolo di accompagnare il ragazzo, mentre l’attività viene svolta dagli specialisti: piscinoterapia, musicoterapia, arteterapia, ippoterapia, pet therapy.

La restituzione degli esiti delle attività laboratoriali programmate, dei protocolli di intervento per le abilità, delle attività con gli specialisti esterni, avviene attraverso la verifica delle schede osservative che, oltre alle indicazioni sugli indici di partecipazione, rilassamento, comportamenti problematici, dà spazio alla registrazione di altre informazioni quali il coinvolgimento, il miglioramento dei tono dell'umore, la maggiore tolleranza alla vita di gruppo, il miglioramento psico sensoriale che si protrae oltre la durata dell'attività stessa.

Da queste osservazioni, dopo un’attenta analisi dei bisogni, gli educatori hanno costruito un progetto educativo personalizzato per ogni ospite, in cui vengono indicati tutti gli elementi utili al raggiungimento degli obiettivi, che sono riconducibili a diverse aree di intervento: affettivo relazionale, autonomia, socializzante e risocializzante, motorio, cognitivo, abilità di base, disadattiva.

All’interno di tali aree di intervento sono individuati obiettivi educativi specifici in relazione alle possibilità psico-fisiche di ogni ragazzo.

L’obiettivo organizzativo teso al miglioramento continuo, con lo scopo di far agire in un unico contesto della salute diverse figure lavorative, ha realizzato una reale integrazione professionale ed ha prodotto un servizio in cui l’ospite può fruire delle cure nella sua totalità di essere umano e non per settori anatomici o di intervento.

I progetti sulle acquisizioni di autonomie hanno contribuito a favorire la creazione di un ambiente di tipo familiare in cui i ragazzi sono stimolati a partecipare attivamente alla vita della comunità, contribuendo attraverso lo svolgimento di piccole mansioni domestiche, secondo le proprie possibilità. Le risposte ottenute in alcuni casi hanno superato le aspettative, poiché oltre al raggiungimento degli obiettivi primari, alcuni ragazzi in possesso di sufficienti requisiti, hanno sviluppato il senso di responsabilità rispetto ai propri impegni quotidiani ed il rafforzamento dell’autostima.

Gli operatori considerano questi risultati non un punto di arrivo, ma lo stimolo per perseguire ulteriori progressi

 

Relazione di Rosa Talarico

premessa

Sono trascorsi ormai due anni dal mio ingresso nella Rsa Jonathan di corso Svizzera 164 e sicuramente la valutazione del lavoro svolto all’interno della struttura può essere positiva. Vorrei premettere, concedendomi il lusso di dare corso all’aspetto più profondo ed emotivo di questa esperienza, che l’integrazione di un operatore sanitario in un contesto così particolare è stata complessa, anche considerando, specificatamente, il ruolo infermieristico e le mie personali esperienze lavorative.

I tirocini effettuati durante il percorso formativo non prevedono l’acquisizione di strumenti di approfondimento in questo ambito. Questa carenza formativa ha avuto delle ripercussioni negative nel mio approccio a questo “problema”, perfino nella contestualizzazione del mio ruolo.

Ho dovuto compiere un grosso lavoro su di me, imparare ad analizzare le mie reazioni. La gestione di persone le cui forme di comunicazione con il mondo e con gli altri erano tutte nuove, completamente da decodificare, così come cambiavano le mie stesse percezioni nei loro confronti. Il ruolo di “chi è assistito” in questo caso è quasi del tutto passivo. La condizione di malattia non può essere percepita e quindi occorre accettarla non come un cambiamento di stato ma come l’unico stato possibile. Non si è mai stati diversi, non si potrà mai guarire. Non si può esprimere un disagio ulteriore, si può solo sperare che le persone a cui si è affidati capiscano e intervengano in modo appropriato. Questa consapevolezza ha richiesto una grande sofferenza, il sentimento prevalente è stato quello dell’impo­tenza.

In questo contesto il lavoro di équipe assume una rilevanza fondamentale. Per me non è stato possibile raggiungere alcuni obiettivi senza il continuo confronto con gli altri operatori il cui supporto è stato sempre incoraggiante. Riferirei il nostro ruolo all’immagine del ponte, il punto di raccordo e di unione tra esperienze, competenze, sensibilità diverse, dove il fattore di coesione è quello umano.

 

analisi del contesto

La prima tappa del mio lavoro è consistita nel capire attraverso alcuni parametri di analisi la realtà presso cui avrei dovuto operare e quindi:

– quali erano le esigenze degli ospiti, in relazione alle principali funzioni (alimentazione, riposo, eliminazione, movimentazione, assunzione delle terapie, ecc.);

– come venivano gestite le attività sanitarie dagli operatori dell’équipe (prescrizioni, assunzione delle terapie, medicazioni, ecc.);

– come venivano distribuite le varie attività nell’arco della giornata;

– quali erano le dinamiche del gruppo e i rapporti con i servizi esterni;

– con quali scadenze si tenevano gli incontri con i membri dell’équipe e con i gruppi parentali;

– quali elementi di innovazione sarebbe stato possibile introdurre in relazione alle caratteristiche del contesto, alle esigenze degli ospiti e degli operatori;

– come raggiungere l’obiettivo di una migliore armonizzazione fra le differenti competenze.

 

Lavorare in équipe

Come ho già accennato, in questo contesto è fondamentale adattare il lavoro di équipe, nel modo più pertinente possibile, alle esigenze delle persone che vengono ospitate, tenendo conto di alcuni criteri quali: i compiti dei vari operatori che intervengono nel processo di cura; la valorizzazione delle competenze differenziate (adest, educatori); le caratteristiche dei risultati prodotti; l’efficacia delle prestazioni.

Il modo più appropriato per rendere efficaci le comunicazioni tra i vari componenti dell’équipe è quello del confronto. La condivisione dei problemi e delle scelte è l’elemento fondante dell’attività all’interno della comunità che è possibile realizzare attraverso riunioni frequenti, colloqui individuali o tra le varie professionalità.

 

il rapporto con le famiglie

Questo aspetto del mio lavoro ha richiesto uno sforzo particolare. Le famiglie hanno la necessità di avere un grande supporto. Il mio ruolo di continua e puntuale informazione relativamente ai provvedimenti terapeutici e di cura ha la funzione di rassicurare il che riduce, anche se parzialmente, l’approccio tendenzialmente ansiogeno con lo stato di ricovero protetto. Riuscire a mantenere il giusto distacco senza svuotare di contenuti empatici la relazione, ha richiesto tempo e sostegno anche da parte di coloro che all’interno della comunità hanno acquisito una grande esperienza.

 

il rapporto con gli ospiti

Ho già accennato quanto l’approccio a queste persone, per chi come me non ha una preparazione specifica, sia doloroso. Avere una “cultura”, in questo senso  forse vuol dire semplicemente dimenticare di avere una cultura, lasciar parlare il corpo, le mani, gli occhi perché sono gli unici elementi che consentono di stabilire un contatto. I loro sguardi vanno capiti, una minima variazione può avere un significato fondamentale, esprimere un disagio, una qualche forma di sofferenza che non può in alcun modo essere espressa. Sentire gridare, piangere, e non avere un ruolo attivo può essere molto frustrante, ma lentamente quel linguaggio entra dentro in profondità e non solo lo si accetta ma si impara ad amarlo. Imparare ad accettare tutti gli aspetti dei nostri ragazzi anche quelli più umorali, è forse l’unico modo per farli sentire accettati, per includerli in un mondo che in condizioni normali li espelle dai propri circuiti, li ignora o ne ha vergogna. Qui loro sono privilegiati e tutto quello che viene fatto ha come fine il loro benessere e, magari, un po’ di felicità.

 

gestione delle informazioni

Non essendo il contesto idoneo per la creazione di una cartella infermieristica integrata, soprattutto per la difficoltà di gestione da parte del personale che non ha una qualifica sanitaria, ho preferito avvalermi della classica consegna scritta per il passaggio delle informazioni. L’esigenza di semplificare qualsiasi attività all’interno della comunità non è da trascurare, le attività sono molte e varie, i tempi devono necessariamente essere razionalizzati.

Il rapporto scritto consente: la trasmissione di alcune prescrizioni mediche che prevedono un monitoraggio (raccolta della diuresi, monitoraggio della pressione arteriosa, ecc.); l’annotazione di alcuni provvedimenti terapeutici da effettuare ad orari stabiliti; alcuni eventi salienti concernenti gli ospiti circa le loro funzioni fondamentali (evacuazioni, regolare o meno assunzione del cibo, ecc.); la segnalazione di eventi eccezionali (visite specialistiche ad orari insoliti, uscita dalla comunità per indagini diagnostiche, eventi traumatici).

L’ambito circoscritto della comunità agevola anche la trasmissione orale delle informazioni se queste hanno carattere più generico.

 

coadiuvare le attività della comunità

Dove si rende necessario è importante integrare le attività offrendo un supporto sanitario: questo elemento ha anche la fondamentale funzione di conoscenza reciproca, rinsalda e rafforza i rapporti interpersonali fra gli operatori. Lo scambio fra differenti professionalità è sempre una occasione di crescita.

 

la gestione dei rapporti con gli altri servizi

Questo aspetto del mio ruolo è stato facilitato essendo una dipendente dell’Asl da parecchi anni. Si tratta di fare da tramite con tutti quei servizi (sanitari) di cui la comunità può aver bisogno: tutte le diagnostiche (radiologia, ambulatori); i laboratori analisi (Amedeo di Savoia, Maria Vittoria, altri laboratori per esami particolari); il servizio di farmacia interna; i vari specialisti a cui far riferimento nei casi in cui il medico lo prescriva o se le condizioni della persona lo richiedono; la Direzione sanitaria del presidio; i servizi ausiliari, come il magazzino.

Nel caso di richieste specialistiche, una competenza tecnica può essere utile per dare al medico elementi di conoscenza del caso clinico. Mantenere buoni rapporti con il personale dei servizi agevola l’organizzazione nella sua globalità e consente di mantenere un buon equilibrio interno.

 

aspetti tecnici di pianificazione dell’assistenza infermieristica

Questo aspetto del lavoro all’interno della comunità è stato pianificato grazie alla collaborazione di tutti i membri dell’équipe. Gli ambiti specifici su cui è stato opportuno intervenire sono: preparazione delle terapie delle 24 ore; somministrazione e tenuta degli stupefacenti (carico e scarico); modalità di gestione delle terapie e supervisione; controllo e gestione dei farmaci (richieste, scadenze); intermediazione con il medico responsabile relativamente alla gestione sanitaria del paziente (prelievi ematici; diete speciali; modalità di preparazione ad indagini strumentali; modalità di registrazione e controllo di alcuni parametri; modalità di reazione ai farmaci; gestione delle emergenze).

La tipologia delle terapie somministrate rende indispensabile un monitoraggio delle funzioni intestinali in queste persone in cui anche la possibilità di muoversi è gravemente compromessa.

Per uniformare i comportamenti relativi ai processi assistenziali si è reso necessario stilare alcune linee guida. La codificazione di alcuni processi rende meno problematico l’approccio al problema ad esempio nell’assistenza all’ospite durante una crisi comiziale e le strategie da adottare con i disfagici. Spesso è utile anche per i parenti ricevere alcune indicazioni tecniche circa la gestione del familiare al domicilio. La mia esperienza quotidiana mi induce a rivedere continuamente il mio approccio ai problemi: tuttavia è indispensabile che le indicazioni per gli altri operatori siano di semplice attuazione.

 

conclusioni

In una struttura come questa l’aspetto creativo è molto importante. Personalmente posso affermare di aver potuto realizzare anche questo elemento della mia professionalità. Il principio su cui ho fondato ogni mia iniziativa è stato sempre quello di creare una situazione di armonia per tutti coloro che condividono questa preziosa esperienza umana. Credo che si possa fare ancora molto, compatibilmente con le risorse di cui disponiamo, ma considero estremamente gratificante l’attività che fin qui ho svolto.

 

 

 

 

(1) Il convegno è stato organizzato dalla Unità operativa autonoma di medicina fisica e riabilitazione dell’Asl 3, diretta dal prof. Maurizio Bellucci Sessa, Corso Svizzera, 164, 10149 Torino, tel. 011.439.3821 - 011.439.3808.

(2) Il Csa è un coordinamento di 22 associazioni che opera per la promozione dei diritti delle persone in difficoltà (minori con famiglie problematiche, persone handicappate con limitata o nulla autonomia, anziani cronici non autosufficienti). È nato nel 1970 e ha sede in via Artisti 36, 10124 Torino.

(3) La proposta del Csa era di soli due moduli per complessivi 16 utenti. Il fabbisogno era stato calcolato per l’intera Città di Torino in 15-20 soggetti.

(4) Tiziana Iacomussi, “Lo sviluppo del concetto di assistenza sanitaria in strutture residenziali per disabili gravissimi”, Atti del convegno “La gestione multidisciplinare e multiprofessionale della gravissima disabilità”, Torino, 2 e 3 ottobre 2003.

 

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