Prospettive assistenziali, n. 148, ottobre - dicembre 2004

 

I COSTI DELLA VECCHIAIA

LUIGI MARIA PERNIGOTTI (*)

 

 

 

È opinione corrente che la parte predominante della spesa della sanità sia dedicata all’assistenza delle persone anziane e che i costi della sanità aumentano in proporzione all’invecchiamento della popolazione. Ne consegue che nell’immaginario collettivo, il vecchio e la sua vecchiaia hanno la colpa di essere una parte in causa nella congiuntura economica del mondo contemporaneo, in particolare nei paesi occidentali, ove l’invecchiamento della popolazione raggiunge i valori più elevati. Se pur vero è che le spese per la sanità, negli stati industrializzati riguardano in modo predominante la cura di malati affetti da patologie croniche e per di più vecchi, la concezione che questo andamento sia colpa dell’invecchiamento delle persone e non di altre evidenze è discutibile ed è un pensiero, almeno in parte, costruito su di una lettura molto superficiale dei fatti del mondo economico, lontana da una attenta analisi del mondo reale. Sui costi della vecchiaia, l’unico dato accettabile come vero, in una visione impostata secondo il metodo scientifico, è che esiste una povertà di dati.

Si prenda ad esempio una malattia cronica e cara: la schizofrenia. È una malattia che colpisce circa l’1% della popolazione, esiste in forme ad esordio precoce sotto i 40 anni, ad esordio tardivo tra 40 e 60 anni ed in una forma ad esordio molto tardivo oltre i 60 anni. Circa un quarto delle persone che ne soffrono hanno una forma ad insorgenza tardiva. Non è una malattia letale. È quindi una malattia che interessa le persone nel corso di tutti i periodi della vita, compresa la vecchiaia, durante la quale se ne può essere ancora affetti, o, durante la quale, anche se più raramente, ancora se ne può essere colpiti. Sino al 2003 oltre il 90% dei lavori scientifici pubblicati sulla schizofrenia hanno largamente escluso le persone anziane con la malattia. Negli Stati Uniti i costi della schizofrenia salgono da circa 26.000 dollari all’anno, per i malati sino a 44 anni, a circa 44.000 dollari all’anno per i malati di oltre 75 anni. Ciò può facilmente far immaginare che una parte dei costi per la cura della malattia nei vecchi possa dipendere da scarse conoscenze dei suoi trattamenti o dei trattamenti migliori quando gli aspetti neurobiologici e comportamentali che la caratterizzano si embricano con i processi dell’invecchiamento. 

Perché prendere ad esempio la schizofrenia, una malattia apparentemente non geriatrica? Per due motivi: il primo per ricordare che l’interesse, scientifico ed assistenziale, alla demenza, che così tanto ha caratterizzato lo sviluppo della geriatria, fu portato all’attenzione del mondo scientifico moderno da Sir Martin Roth, che, 50 anni fa, in un lavoro pioneristico, da un lato riprendendo da Kraepelin il metodo di studiare i pazienti nel follow-up a lungo termine, dall’altro aprendo la via agli studi longitudinali, dimostrò, valutando la durata della permanenza dei pazienti negli ospedali,  i decorsi clinici differenti dei pazienti affetti da Alzheimer disease, di quelli con demenza arteriosclerotica con mania (disordine bipolare), con depressione  e parafrenia (schizofrenia ad esordio tardivo). Questo lavoro è stato la pietra miliare degli studi moderni sulla demenza degenerativa evidenziandola come entità primaria separata dai disturbi affettivi e dalla schizofrenia che possono essere presenti nel giovane come nel vecchio, aprendo così anche la via ai concetti di comorbilità. Nella comorbilità si indovinano le cause della vecchiaia più malata e più cara, ma non per via di una sommatoria dei costi di ciascuna delle cure di ogni singola malattia, ma per lo svilupparsi di insiemi di complicate e costose complessità diagnostiche, terapeutiche ed assistenziali che affliggono in modo individualmente segnato il vecchio malato.

Il secondo motivo è che i disturbi psichiatrici nel vecchio sono così tanti, dalla demenza, alla depressione, al delirium, così variabili per la patoplasticità caratteristica del senio, così frequenti, da differenziarsi con difficoltà dai segni della vecchiaia, quanto dimenticati. Due terzi delle persone anziane istituzionalizzate soffre di disordini mentali, un quarto di esse di depressione, due terzi ancora di esse di demenza. I costi dei malati affetti da schizofrenia, da demenza, da depressione sono risultati superiori a quelli determinati da tutte le altre malattie non mentali. Ciò è vero per le persone di tutte le età ma in modo più marcato per i malati delle classi di età più avanzata. A fronte di questa epidemia delle malattie mentali nella popolazione anziana la cura delle persone vecchie ricoverate negli istituti raramente ha un inquadramento della malattia specialistico con una differenziazione degli interventi per le turbe comportamentali che ne conseguono a seconda dei risultati dell’inquadramento. Ciò può comportare l’aggravamento del peso assistenziale, delle complicanze somatiche ed infine dei costi delle cure globali per questi vecchi, come conseguenza di una concezione comune anche nel nostro paese, detta ageism con termine anglosassone, che comporta il modo di considerare le malattie del vecchio come conseguenza della vecchiaia, inutili ad esser trattate, inopportune per una società in cui i vecchi non hanno spazio. 

La mancanza di dati è un male che affligge la visione scientifica della maggior parte delle malattie dei vecchi e che può comportare due aspetti contrapposti, ma di simile portata in relazione alle ricadute di far della vecchiaia una esistenza a caro prezzo. Da un lato l’assenza di studi sulle malattie del vecchio o nel vecchio può risultare nell’applicazione sulla persona anziana di protocolli terapeutici ed assistenziali di costo molto elevato, non dimostrati utili, quando, addirittura, non siano dannosi ed induttori di costi iatrogeni. Si faccia un pensiero alle linee guida sulla ospedalizzazione dei vecchi colpiti da polmonite. Esistono indicatori di gravità della polmonite e di rischio di morte ben conosciuti, tra i quali l’età del paziente. Non esistono peraltro studi di follow-up a lungo termine, che evidenzino dallo studio della sorte dei pazienti più gravi e sopravvissuti all’episodio i reali vantaggi ed i reali danni della cura condotta in ospedale piuttosto che a casa o nella residenza abituale. Vengono in mente, in una sorta di narrative-evidence-based medicine, numerosi casi di grandi vecchi che, superata l’acme dell’acuzie, nella cura in ospedale, sviluppano una sindrome ipocinetica od uno stato confusionale subacuto, e d’allora in poi si avviano ad una vecchiaia di costo esorbitante, per tentativi riabilitanti, per ricoveri residenziali definitivi, per la necessità di un supporto sociale. Costi non della vecchiaia ma di una sanità distorta, non impostata sulla base della migliore cura di quelli che sono i suoi principali clienti, che sono i vecchi. In questo senso, seppur in un altro campo, è stato recentemente acquisito un dato di evidence-based-medicine: è stato dimostrato come nelle persone di oltre 80 anni colpite da ictus cerebrale ischemico, la cura a casa rispetto a quella in ospedale risulti ugualmente efficace nei confronti di quella ospedaliera, al riguardo della sopravvivenza, con un corollario di riduzione della depressione post-ictale e di miglioramento della qualità della vita. Il dato ha la particolarità di essere stato osservato nel nostro contesto sociale, qui a Torino, stimolando a perseguire in questa città la domiciliarità nell’assistenza sanitaria agli anziani.

D’altra parte, i costi della vecchiaia possono essere esorbitanti a causa di cure negate. L’assenza di una mentalità che cerchi di distinguere la malattia dal fatale incedere di un invecchiamento è spesso motivo di un corso verso la perdita dell’autonomia del paziente, dell’evolversi di malattie evitabili o ancora guaribili, o compensabili, quando sottoposte ad un trattamento anche se si è vecchi o molto vecchi. Un esempio di questo problema può essere fatto al riguardo delle persone affette da traumi all’anca con frattura di femore. Il destino degli ammalati operati e guariti somaticamente, dopo intervento chirurgico, è spesso condizionato da una riluttanza, una resistenza, una difficoltà collaborativa nella riattivazione. Così l’intervento, uno dei i più costosi tra quelli ospedalieri, segna l’inizio di un corso che si risolve in una definitiva istituzionalizzazione del paziente, con costi annuali approssimativi di oltre 40.000 euro per anno di sopravvivenza. Questi percorsi sono spesso la conseguenza di una psicopatologia latente, che esplode di fronte al trauma delle ossa, e che spesso resta latente anche ai medici che dimettono il paziente dalla corsia ospedaliera. È ipotizzabile che un intervento geriatrico e psicogeriatrico accanto a quello del chirurgo possa modificare favorevolmente i percorsi e ridurre i costi conseguenti alla perdita di autonomia e alla istituzionalizzazione, successive all’impianto di chiodi o protesi che pur correggono appieno il danno del soma.

In termini più generali riferendosi alle analisi anagrafiche e demografiche è da considerare l’inesattezza di ascrivere ai vecchi la colpa della congiuntura economica, che peraltro rischia di allontanare proprio da loro stessi i benefici del patto sociale. La società accusa il peso dei vecchi, dalle pensioni, alla sanità, non per un incremento del costo che questi elementi comportano, ma per la colpa dei giovani che hanno rimpicciolito la loro presenza e la loro globale forza contributiva, insita nel patto sociale.

La discolpa del costar tanto, può giungere anche dall’analisi psico-sociologica, dalla quale emerge un risultato sintetizzabile nel morire stanco che caratterizza l’uomo di oggi differenziandolo da quello di ieri, che affrontava la morte sazio della vita. Ciò deriva dal fatto che la società ha etichettato l’anziano come soprannumerario, in omaggio ad un primato dell’efficientismo produttivo che premia il giovane e costringe il vecchio nelle retrovie, altrove. L’umanità è nata con il concetto del gruppo, l’espulsione dal gruppo equivale all’inesistenza, e così capita che il vecchio di oggi conduca una vita vissuta a sua insaputa, in una sorta di agonia psicologica. L’origine di tanta espansione della depressione dell’anziano, e dei suoi costi, può nascere nella psico-pato-metamorfosi che questa malattia ha subito passando da una essenza basata sui sensi di colpa ad una basata sulla incapacità funzionale, sulla inefficienza nella corsa produttiva in cui si è stati coinvolti. Da questa analisi emerge il cosiddetto pensiero debole che caratterizza, secondo alcuni, la società contemporanea, segnato dal crollo dei pilastri ideologici che sostenevano la vita di tutti, superando le barriere dei gruppi, dei gruppi generazionali, in particolare. Già molti anni fa si scriveva dell’eutanasia da abbandono che in una società siffatta segna la fine dei vecchi, ipocritamente mantenuti in vita senza essere degni di essere curati, ma solo custoditi, oltretutto a costi elevati.

In questo contesto la richiesta di risposte sulle quali far poggiare la coesione sociale potrebbe comportare lo sviluppo di un senso di pietas che riconosca quanto del costo della malattia vecchiaia, dipenda dalla concezione che da parte nostra si fa della stessa. Talora forse sarebbe necessario immettere idee nella vecchiaia per dare giustificazione al vivere da vecchi: ciò in fondo significa ribaltare il pensiero debole della nostra società in un pensiero forte. Questa può essere l’arma delle società tecnologicamente più avanzate, impreparate di fronte ad una lotta di generazioni, imprevista, mai sostenuta in precedenza, che ha sostituito quelle di classe che avevano a sostegno, appunto, idee forti, crollate, al loro termine.

In conclusione, quindi, solo rimettendo la forza delle idee nella società si potrà discutere dei costi reali delle cure alle persone anziane, del loro buon governo e, non come oggi, dei costi di un abbandono chiamato vecchiaia.

 

 

 

 

Bibliografia

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(*) Direttore del Dipartimento lunga assistenza e anziani dell’Asl 2, Torino.

 

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