Prospettive assistenziali, n. 146, aprile-giugno 2004

 

 

IN MEMORIA DEI NOSTRI MAESTRI NORBERTO BOBBIO E ALESSANDRO GALANTE GARRONE

 

Nei mesi scorsi sono decedute due insigni personalità alle quali dobbiamo molto per i loro validi insegnamenti e il prezioso aiuto accordatoci.

Ricordiamo Alessandro galante Garrone, insigne giurista e noto storico, in primo luogo per i puntuali suoi articoli pubblicati su La Stampa.

In particolare citiamo l’articolo “Bambini soli. L’adozione, un istituto da riformare” (1° aprile 1964) in cui precisa che «oggi le indagini biologiche e sociologiche hanno luminosamente dimostrato che non è tanto il sangue, l’ereditarietà che conta nel predeterminare e atteggiare la condotta e il carattere stesso del fanciullo e poi dell’uomo, quanto l’ambiente in cui esso vive; l’educazione e l’esempio che riceve, l’affetto e le cure di chi lo alleva». Dunque «si è capito che l’adozione va fatta, prima di tutto, nell’interesse dell’adottando, per dargli una famiglia».

Ciò premesso propone che «una saggia e meditata riforma dell’adozione» tenga soprattutto conto di due problemi. «Il primo è quello della necessità di un rigoroso controllo dell’affidamento. Si sa che erano persino sorte delle imprese volgarmente speculative per affidare, specialmente a stranieri, i figli di povera gente già carica di figliolanza. All’infuori di questi casi estremi, si pone l’esigenza di accertare che il bimbo sia affidato a un nucleo familiare ben saldo, moralmente sano, e che abbia di mira, prima di tutto l’interesse dell’adottando. Questo vaglio rigoroso non può essere lasciato in balìa di enti o persone private. il meglio sarebbe valersi in ogni caso di un magistrato ad hoc, coadiuvato da assistenti sociali. L’altro punto, non meno essenziale, è quello di porre la famiglia adottiva al riparo dai tardivi riconoscimenti, dalle pretese, a volte perfino dai ricatti dei genitori. Se si vuole davvero che l’adozione assolva la sua altissima funzione sociale, e che gli adottanti non siano assillati da un angoscioso senso di precarietà, e che gli adottati non siano esposti a crisi sconvolgenti, bisogna avere il coraggio di affrontare il problema alla radice. sia il giudice ad accertare, dopo un congruo periodo, lo “stato di abbandono” o lo “stato di adottabilità”, come si vorrà chiamarlo. Intervenuta questa dichiarazione, non sia più consentito a nessuno di far valere il fatto puramente fisico della generazione».

In un altro articolo (La Stampa del 21 agosto 1966), Galante Garrone affronta nuovamente la questione dell’infanzia senza famiglia e dell’adozione, ricordando che «un tempo, l’adozione era un mezzo per assicurarsi la discendenza, per trasmettere un nome o un patrimonio, magari solo per ridurre il peso delle imposte di successione».

Dopo aver sostenuto la necessità di una profonda riforma del settore, precisa che attualmente «l’adozione è sentita e voluta soprattutto nell’interesse – materiale e morale – dell’adottato, come il rimedio migliore che si offra al male, così diffuso, dell’infanzia abbandonata: gli illegittimi, riconosciuti o no, ma anche i figli legittimi, di cui il genitore, o i genitori, non vogliono o non possono o non sanno prendersi cura. Da questo capovolgimento deriva la necessità di nuove leggi (…). Oggi la scienza ci dimostra la necessità, per il bambino abbandonato, di qualcuno che assolva, fin dai primi mesi di vita – il terzo o il quarto mese – la funzione della madre (e non è affatto detto che questa debba essere la genitrice), di una persona attraverso cui l’infante stabilisca i primi contatti col mondo. I brefotrofi (per quanto bene allestiti e ce n’è di ottimi) non possono adempiere questa insostituibile funzione. Le statistiche dimostrano gli effetti disastrosi della mancanza di questa specie di vitamine morali che solo un ambiente familiare può dare. Di qui la necessità che l’inserimento nella famiglia adottiva avvenga al più presto, con tutte le garanzie, sull’infante e sugli adottanti, che solo medici, psicologi, assistenti sociali, e un controllo del magistrato possono ab initio fornire». Per quanto riguarda i criteri fondamentali della riforma dell’adozione si esprime come segue: «I limiti di età per gli adottandi (nel 1966 l’età minima degli adottandi era di 50 anni, riducibili a 40 anni in presenza di una certificazione medica attestante una definitiva condizione di sterilità, n.d.r.) devono essere sensibilmente abbassati, in modo che essi siano, di fronte al bambino, come dei veri genitori, non dei nonni. Siano consentite più adozioni in tempi successivi, a seconda delle materiali possibilità economiche ed educative della famiglia. E anche chi abbia già uno o più figli propri deve poter adottare. E soprattutto, a partire da un certo momento (che potrebbe coincidere con la dichiarazione di adottabilità, da emanarsi dopo gli opportuni, rigorosi accertamenti, e in ogni caso dopo non molti mesi di vita del fanciullo abbandonato), sia definitivamente rescisso ogni legame con il genitore, o i genitori, che hanno procreato ma poi abbandonato a sé l’infante».

Nell’articolo “La vera madre. Adozione e voce del sangue” (La Stampa del 26 febbraio 1967) commentando una trasmissione televisiva in cui la questione dei diritti della madre adottiva e della procreatrice era stata trattata in modo da suscitare simpatie per quest’ultima a tutto discapito della prima, Galante Garrone scrive che «il problema va esaminato, non dico freddamente, ma secondo ragione, senza lasciarsi trascinare dai sentimenti o, peggio, dai sentimentalismi (…). Il problema esige che ci si ponga dal punto di vista dell’interesse del minore (…). Oggi si comincia finalmente a riconoscere che il vero problema è di affrettare al massimo l’affidamento del minore (così da sostituire, fin dai primi mesi di vita, all’impersonale brefotrofio la “figura materna”, di allargare le possibilità di adozione, e, specialmente di rescindere ad un certo momento, e in modo definitivo, il legame con il genitore o i genitori naturali. Solo a un osservatore superficiale, o schiavo di pregiudizi arretrati, quest’ultima soluzione può sembrare dura e inumana (…). Chi, dopo un certo lasso di tempo ragionevolmente ampio, ha dimostrato di non volere o sapere o potere adempiere i doveri più elementari di assistenza verso la propria creatura, non può non decadere da ogni ulteriore pretesa sulla medesima. I “diritti del sangue” vanno fatti valere subito, perché una realtà puramente biologica si trasformi in una realtà umana. Come si recide il cordone ombelicale per l’autonoma vita fisica del neonato, così va posta nel nulla – dopo un certo tempo, e le opportune garanzie – una consanguineità che si è risolta in un totale abbandono. E (per fare un’altra similitudine) come non può essere rivendicato il diritto di proprietà nei confronti di chi si sia legittimamente impossessato di una res derelicta, così, e a più forte ragione, si decade da ogni “diritto del sangue” quando questo è stato volontariamente ridotto al nulla. E diciamo a più forte ragione perché, lo ripetiamo, a una soluzione siffatta spinge non solo un riguardo alla posizione morale (pur già tanto meritevole di considerazione) degli adottanti o preadottanti, ma soprattutto l’interesse stesso del minore, che ha diritto a radicarsi stabilmente nella famiglia che lo ha accolto, e l’interesse stesso della società, che vuole risolto seriamente il grave problema dell’infanzia abbandonata».

Galante Garrone ricorda quindi che «la situazione legislativa oggi ancora vigente è deplorevole, e dà luogo, nella realtà di ogni giorno, a situazioni assurde. Ci limitiamo a ricordare un caso realmente accaduto negli ultimi mesi. Una ragazza sedicenne mette al mondo un figlio, avuto da una relazione con un quasi coetaneo. Sia lei che lui, e i loro genitori, si disinteressano del bimbo che, malato e gracile, viene affidato a una coppia che amorevolmente lo accoglie e lo alleva, nella speranza di adottarlo non appena sarà possibile. Quando il bambino ha quasi tre anni, la madre naturale, spinta dai suoi familiari, chiede al Tribunale per i minorenni di riottenerlo; e non per verace affetto materno, non perché sappia cosa farsene, ma solo perché, nel proposito dei suoi genitori, il bambino può indurre il giovane a sposare la ragazza. Si vorrebbe così strappare il bambino alla famiglia in cui è ormai perfettamente inserito, solo per favorire un matrimonio di assai dubbia serietà, in base ad un malinteso senso dell’onore. Ci se ne fa un strumento di pressione, un’arma, senza alcun riguardo per il suo avvenire. Il Tribunale intuisce la situazione; comprende che la madre naturale non dà nessuna garanzia di curare il bambino e, saggiamente, mantiene l’affidamento già disposto; ma, di fronte alle leggi ancora vigenti, non se la sente di escludere del tutto la genitrice, e l’autorizza a visitare il bambino due volte alla settimana, “al fine di consentire che si stabiliscano tra madre e figlio quei rapporti affettivi rimasti finora inespressi”. Si crea, così, una situazione estremamente imbarazzante, e addirittura angosciosa: un figlio sballottato tra due madri, con quanto beneficio morale per loro e per lui immagini il lettore». Al riguardo l’Autore pone questo interrogativo: «anche in questo caso, dobbiamo chiederci: ma chi è, in definitiva, la vera madre?» e rileva che «è questo il punto che la nuova legge deve risolvere con assoluta chiarezza». A questo proposito precisa: «il progetto Dal Canton (si tratta della proposta di legge presentata dall’On. Dal Canton diretta a modificare radicalmente l’istituto giuridico dell’adozione, n.d.r.) l’aveva risolto bene; ma da ultimo è stato introdotto di soppiatto un emendamento infelicissimo tra le norme transitorie, per il quale si reintroduce, come condizione dell’adozione, il consenso dei genitori d’origine». Molto amaro il commento di Galante Garrone: «ancora una volta accade che, attraverso il gioco degli emendamenti poco meditati, leggi semplici, sagge, ben congegnate e formulate si guastano cammin facendo, col rischio di trasformarsi in pasticci inestricabili o in pietosi compromessi». Anche grazie a questo intervento, l’emendamento era stato respinto.

Un altro importante articolo di Galante Garrone, che riportiamo integralmente, è pubblicato su La Stampa del 21 aprile 1991 con il titolo “Giusto rigore. Rischiamo di incoraggiare i più turpi commerci”, in cui, in relazione all’esposto presentato da Giorgio Pallavicini, Presidente dell’Anfaa, Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie, sull’arrivo di una neonata in casa della regista Lina Wertmüller e del marito Enrico Job e all’articolo in cui Furio Colombo attaccava duramente l’Anfaa, definendola “un corpo di polizia” (1). Scrive Galante Garrone quanto segue: «Sento il dovere di scendere in campo per difendere chi in questi giorni è stato ingiustamente accusato di avere strappato, e di proporsi ancora di strappare, con “poliziesco” rigore, dei bambini innocenti alla tenerezza e alla felicità di coppie adottive, soltanto per un formalistico ossequio a leggi disumane. Un’accusa, lo riconosco, fatta in perfetta buona fede e per un generoso impulso di cuore, ma con imperfetta conoscenza del diritto e soprattutto della realtà di fatto. Mi riferisco, come i lettori avranno capito, al caso della “figlia” di Lina Wertmüller e all’esposto dell’Anfaa (Associa­zione nazionale famiglie adottive e affidatarie).  Furio Colombo, con la sua rara conoscenza dei grandi problemi morali e sociali di tante parti del mondo di oggi, ha richiamato (su La Stampa di martedì 16 aprile) il tragico, attuale problema dei bambini curdi, albanesi, romeni, in confronto al quale dovrebbe apparire ben meschina la “reazione” dell’Anfaa alla “scena d’amore” per la figlia di Job e Lina Wertmüller: una reazione provocata dalla malsana “curiosità di andare a vedere che cosa c’è sotto questa felicità”. Ora, non c’è dubbio che quel dramma dei fanciulli nei Paesi d’Oriente è di una immensità che sgomenta. Su questo, io dico di più: è strano che nessuno dica o ricordi che, per una recente Convenzione internazionale a protezione dell’infanzia, la Turchia, e anche l’Italia come ogni altro Paese europeo, sono sollecitati ad arginare con ogni mezzo lo strazio di quei bimbi infelici che oggi muoiono a migliaia. Ma proprio questo argomento dovrebbe aiutarci a scorgere il punto focale dal quale si deve partire per impostare in modo retto il problema dell’adozione e dell’affidamento dei minori. E il punto è prima di tutto e sopra tutto l’interesse morale e materiale delle creature da prendere in adozione o in affidamento. Il desiderio, l’aspirazione, la felicità della coppia dei coniugi, vengono in secondo piano e non possono assurgere, di per se soli, a decisivo criterio di scelta. Il diritto dei minori, di tutti i minori, anche dei più reietti, infelici, handicappati, non può essere subordinato alla generosa ma pur sempre egoistica volontà degli adulti. Lo Stato, la legge debbono darsene carico. Anche i casi di serena Cruz, o di Lina Wertmüller, non possono sfuggire a questo supremo principio. Forse, in altri tempi e in altri Paesi è prevalso o prevale il criterio opposto, di considerare i bimbi adottati come gli strumenti della felicità di coppie senza figli, o con pochi figli. Questo equivarrebbe a ridurli a “oggetti” di sentimenti o interessi altrui: mentre per tutti i cittadini, e quindi anche per lo Stato, essi debbono essere considerati soggetti di diritti, del diritto a una vita felice, dignitosa, protetta.

«La disinteressata attività dell’Anfaa, come di varie altre degnissime iniziative sociali del genere, non può essere qualificata come un “rigido tipo di intervento da tempi del Muro” (cioè, si intende dire, del muro di Berlino, simbolo di violenta sopraffazione). La vera realtà è quella che emerge dalla nobilissima lettera della attuale famiglia adottiva di serena Cruz, apparsa su La Stampa del 17 aprile: un raro, commovente esempio di civiltà. A chi pensa che l’Anfaa dovrebbe avere “una voce più umana”, si può replicare che non può essere qualificato come “durezza” il rispetto della legge vigente, pur con le sue emendabili imperfezioni o difficoltà di applicazione. (Si consideri, inoltre, che questa apparente severità è dettata dalla necessità di evitare brutte sorprese nel futuro più o meno lontano degli adottati medesimi). Il guaio è che anche qui, come in altri campi, va sempre più diffondendosi la sprezzante inosservanza della legge. Si preferiscono le “scorciatoie”, tanto deplorate dall’indimenticabile nostro Jemolo: quasi che il rispetto della legge fosse una fissazione di incalliti legulei. Ma stiamo attenti! Su questa scivolosa strada si può facilmente giungere (e lo si è visto) ai falsi più spudorati, a miserabili finzioni o, peggio ancora, a loschi commerci, come quello, recentissimo, di chi assoldava una coppia prolifica per “smerciare” i neonati ai primi venuti. è questo che si vuole?».

Di Alessandro Galante Garrone ricordiamo, altresì, la prefazione ricca di umanità del libro di Giulia Basano, Storia di Nicola - Le conquiste di un bambino handicappato grave nel racconto della madre adottiva, Rosenberg & Sellier, Torino, 1987 (2) di cui riportiamo le seguenti considerazioni: «La conclusione più consolante che si può trarre da questo libro e che travalica il caso personale di Nicola, è che non ci sono situazioni disperate, difficili, precarie, sempre esposte alla minaccia di angosciose riapparizioni del male, certamente sì; ma non tali da doversi definitivamente arrendere. Qualcosa si può e, dunque, si deve sempre fare. (...) Anche la strenua dedizione di sé alla salvezza, al riscatto di una sola creatura umana, nella consapevolezza di tutti i problemi sociali che vi si connettono, e nella volontà di portare il proprio contributo, anche minimo, alla loro risoluzione, può essere un modo di concorrere alla realizzazione di quegli ideali di libertà e di giustizia che, in forme diverse, sono apparsi nella storia dell’uomo».

 

Norberto Bobbio, filosofo, professore emerito dell’Università di Torino, senatore a vita, candidato alla Presidenza della Repubblica nel 1992 è stato un intellettuale che ha dedicato la sua opera soprattutto alla pace ed ai diritti.

Nella relazione tenuta al convegno di studio “Anziani cronici non autosufficienti: nuovi orientamenti culturali e operativi”, svoltosi a Milano il 20-21 maggio 1988 (3), Bobbio ha affermato che «accanto ai molti aspetti negativi della nostra epoca (tra i quali la degradazione dell’ambiente e l’aumento della potenza delle armi, che hanno in comune la minaccia, prima d’ora inconcepibile e inimmaginabile, della fine dell’umanità), uno degli aspetti positivi tanto da poter essere interpretato come avrebbe detto Kant in una storia profetica, come un segno del progresso morale dell’umanità, c’è il crescente riconoscimento dell’importanza dei diritti dell’uomo come fondamento di una convivenza fra tutti gli uomini più libera, più giusta, più pacifica”, aggiungendo che “rispetto alla storia passata dei diritti dell’uomo ci sono state in questi ultimi cinquanta anni due grandi novità: l’universalizzazione e la moltiplicazione. universalizzazione significa che il riconoscimento dei diritti dell’uomo è uscito dall’ambito dei singoli Stati nazionali e si è esteso a tutto il mondo. Moltiplicazione significa che il numero di questi diritti da riconoscere universalmente è enormemente aumentato. Si è incominciato secoli fa dalle libertà personali. Poi si è passato alle cosiddette libertà negative: la libertà religiosa, la libertà di opinione, di stampa, di riunione, di associazione, ecc. Poi ai diritti politici, e finalmente alle cosiddette libertà sociali. La moltiplicazione è avvenuta principalmente nell’ambito dei diritti sociali. Mentre, in generale, un diritto di libertà, di quelle libertà che si chiamano libertà negative, vale indiscriminatamente per tutti gli uomini in quanto tali, una maggiore differenziazione è necessaria per quel che riguarda i diritti sociali».

Infatti, prosegue Bobbio «rispetto ai diritti sociali non esiste l’uomo generico: esistono situazioni diverse da uomo a uomo, secondo il sesso. l’età e le condizioni fisiche, che richiedono protezioni diverse e differenziate. Si dice ormai abitualmente che, accanto alle uguaglianze, bisogna tener conto delle differenze. Rispetto alle libertà negative gli uomini sono tutti uguali; ma rispetto alle condizioni che richiedono una protezione attiva da parte dello Stato che è caratteristica dei cosiddetti diritti sociali, sono molto differenti: le donne sono differenti dagli uomini, i bambini dagli adulti, gli adulti dai vecchi, i sani dai malati, i malati di mente da coloro che hanno malattie fisiche, i malati occasionali da coloro che sono menomati in modo permanente come gli handicappati, i ciechi, i sordomuti, ecc. Di qui il succedersi sempre più rapido delle carte dei diritti in questi ultimi 40 anni: un evento che ha trasformato profondamente il quadro generale in cui all’inizio si inscrivevano i diritti dell’uomo in astratto e del cittadino in astratto. Oggi c’è ancora l’uomo astratto e il cittadino astratto solo per quel che riguarda, ripeto, i diritti di libertà. Per quel che riguarda i diritti sociali, ci sono uomini concreti, ciascuno con i propri bisogni, con le proprie necessità e quindi con le proprie esigenze che si trasformano prima in pretese sociali, pretese che poi, a loro volta si trasformano in veri e propri diritti. Per fare qualche esempio, nel 1952 è stata approvata la Convenzione sui diritti politici delle donne, nel 1959 la Dichiarazione dei diritti dei fanciulli (preceduta da una Dichiarazione già nel 1925); nel 1971 la Dichiarazione dei diritti del minorato mentale; nel 1975 la Dichiarazione dei diritti delle persone handicappate. Ripeto: questo è veramente il fenomeno nuovo rispetto al problema dei diritti dell’uomo su cui mi sono soffermato molto spesso, problema che è veramente centrale nella storia del nostro secolo e più ancora lo sarà nel secolo futuro, se prima non salteremo tutti in aria».

Nella stessa relazione, dopo aver ricordato che «per quel che riguarda la vecchiaia il punto di partenza è l’Assemblea mondiale svoltasi a Vienna dal 26 luglio al 6 agosto 1982» ed aver citato le raccomandazioni più importanti del piano di azione per gli anziani approvato con una risoluzione della Assemblea generale delle Nazioni Unite del 3 dicembre 1982, il prof. Bobbio ha richiamato l’attenzione sulla parte del documento varato dal Parlamento europeo il 14 maggio 1986 in cui «ritiene auspicabile che all’anziano sia consentito di rimanere quanto più possibile nel suo ambiente; ritiene che i familiari che si assumono la cura di un anziano, debbano poter contare su un congedo straordinario e su una indennità finanziaria».

Al riguardo, Bobbio precisa che occorre pensare «alle persone che devono lavorare fuori casa e dovrebbero nello stesso tempo essere continuamente in casa per aiutare l’anziano non autosufficiente»; e che è, altresì, necessaria «una politica degli alloggi che consenta a un numero sempre più alto di anziani di essere assistiti a casa propria da gruppi di assistenza comunitari, familiari, volontari o statutari». Pertanto – conclude l’Autore – vi è l’esigenza di riconoscere che «al diritto degli anziani corrisponde il diritto delle famiglie di essere sorrette quando si trovano nella necessità di avere degli anziani da aiutare in casa».

Inoltre, di Norberto Bobbio riportiamo integralmente la prefazione che aveva scritto per il libro Vecchi da morire (4): «Nella nostra società, che si autodefinisce società del benessere, e corre spensieratamente verso l’aumento di consumi sempre più costosi ed inutili, ecco un libro destinato a illuminarci sulla situazione drammatica degli anziani malati cronici e non autosufficienti, mal tollerati o addirittura respinti negli ospedali, e rispettivamente dei loro familiari costretti a sostenere le spese del ricovero a pagamento o a prestare con gravissimi disagi personali le cure in casa ogni ora del giorno. Un libro da leggere attentamente, da meditare e da diffondere. Dalla lettura del quale si esce alla fine turbati e mortificati, perché ci fa conoscere un universo di miseria e di sofferenza che ci è vicino, vicinissimo, forse alla porta delle nostre case, e di cui dobbiamo dire che sappiamo ben poco. E invece dobbiamo sapere, perché solo conoscendo come stanno le cose, ciascuno di noi può dare il proprio contributo, grande o piccolo, a cambiarle.

«Scritto con passione e con rigore, ispirato a un profondo e non ostentato senso di giustizia, di pietà e di solidarietà umana, il libro è anzitutto uno specchio fedele di un mondo ignorato, dimenticato, e forse rimosso, che permette al lettore di farsi un’idea dal vivo della gravità e intollerabilità delle condizioni in cui versano molti vecchi poveri e malati e le loro famiglie: gli autori hanno raccolto una serie di colloqui con le vittime dirette e indirette della mancata e ingiustificata ospedalizzazione, che è di per se stessa più eloquente di ogni richiamo alle questioni di principio. In secondo luogo, è una denuncia condotta con un’argomentazione serrata, e corredata da una ampia documentazione, del mancato rispetto da parte degli ospedali, se pur con motivazioni fondate sullo stato di necessità, delle leggi vigenti che vengono riportate testualmente e debitamente commentate. Gli autori non ignorano le obiezioni anche serie che vengono abitualmente sollevate contro la richiesta del ricovero in ospedale e il rinvio agli istituti di assistenza, ma vi rispondono con argomenti irresistibili, ricavati da un’esperienza di anni vissuta con spirito di sacrificio al di dentro di questa realtà di abbandono e di morte. Si legga il capitolo in cui vengono esposte queste obiezioni e si risponde ad esse con semplicità, chiarezza e con quella forza di convinzione che viene dalla coscienza di essere al servizio di una buona causa. Il libro infine contiene una serie d’indicazioni e di consigli agli interessati sul modo per far valere i propri diritti, e proposte alternative da cui possono trarre vantaggio tutti coloro che si rendono conto che un paese civile non può sopportare una situazione di palese ingiustizia qual è quella descritta in queste pagine, e nello stesso tempo si considerano essi stessi impotenti di fronte alla malizia degli uomini e alla insufficienza e inefficienza delle istituzioni. Occupa un posto centrale nel libro la parte dedicata all’ospedalizzazione a domicilio, dove si fa giustizia sommaria del pregiudizio circa il disinteresse dei familiari e si osserva giustamente che è molto più facile criticare il comportamento delle famiglie che si trovano in uno stato di indigenza che non promuovere un’inversione di rotta nell’azione degli enti pubblici. Il reale tema del libro è il rispetto del diritto alla vita. Questo rispetto è il fondamento di ogni convivenza civile. Il diritto alla vita è il primo diritto di ogni uomo ed è il presupposto naturale di tutti gli altri diritti. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo enuncia questo principio: ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza. Il diritto alla vita precede gli altri due. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo distacca il diritto alla vita da tutti gli altri e ne fa l’oggetto di un articolo a se stante mostrandone così l’assoluta preminenza.

«Il diritto alla vita è il presupposto di tutti gli altri, ma nello stesso tempo non potrebbe essere garantito senza che gli altri principali diritti della persona siano essi stessi riconosciuti. I diritti dell’uomo formano un sistema coerente e indissolubile. Nella persona dell’anziano questo nesso è ancora più evidente. Il rispetto del diritto alla vita dell’anziano sarebbe una vana parola, anzi un inganno, se non fosse garantito il diritto alla libertà, inteso come il diritto a non subire vio­lenza né fisica né morale; se non fosse assicurato il diritto all’eguale trattamento, il che significa non essere sottoposti a discriminazioni in caso di cure necessarie; se non fosse fatto valere verso di lui e con maggior forza il diritto alla salute, che è del resto sancito dalla nostra Costituzione.

«Infine, il riconoscimento del diritto di ogni uomo alla vita non può prescindere dal diritto al rispetto della dignità della persona. Ciò che contraddistingue le costituzioni contemporanee da quelle ottocentesche è il riconoscimento dei diritti sociali: un riconoscimento che si fonda sulla convinzione che il compito di una società civile è quello di garantire una esistenza non soltanto libera e sicura ma anche dignitosa. Molte delle storie di vita raccontate nell’ultima parte del volume mostrano quanto poco questo sacrosanto diritto al riconoscimento della propria dignità sia di fatto riconosciuto proprio nei riguardi degli anziani, abbandonati a se stessi, mal curati, sopportati come un inutile peso, come una iattura, di cui si auspica rapida fine. La tutela dei diritti dell’uomo si muove oggi in sede internazionale nella direzione di una sempre maggiore specificazione di questi diritti in modo da renderli più certi e più efficaci. Ci si è convinti che non basta più parlare dell’uomo in generale ma occorre ben distinguere l’esigenza dell’uomo da quelle della donna; non basta più parlare dell’individuo in astratto, ma bisogna distinguere l’individuo fisicamente e intellettualmente normale dall’handicappato e dal malato di mente, perché ognuno ha proprie esigenze che debbono essere soddisfatte e possono tanto più essere soddisfatte quanto più si mettono in evidenza le differenze delle possibilità e dei bisogni; non basta più parlare in generale della vita dell’uomo, ma occorre distinguere le varie fasi della vita umana, perché ogni fase ha le sue caratteristiche, e richiede diversi gradi di protezione; da anni è stata proclamata dall’organizzazione delle Nazioni Unite la Dichiarazione dei diritti del bambino. Non diversa legittimità ha oggi una dichiarazione dei diritti dell’anziano.

«A questa profonda esigenza del nostro tempo s’ispira l’opera coraggiosa e disinteressata del “Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti” da cui è nato il libro. Chi scrive queste righe è un anziano, un tempo si sarebbe detto senza eufemismi, un vecchio; un vecchio che ha però la fortuna di non conoscere né l’indigenza né la malattia cronica né la solitudine. Ma non ignora la fragilità della propria condizione, ed è in grado di capire, meglio di un giovane, la disperazione di chi è insieme vecchio e povero, vecchio e malato, la desolazione della solitudine. Possa questo libro richiamare l’attenzione tanto degli uomini politici quanto dei privati cittadini su uno dei gravi problemi di un tempo come il nostro, in cui la vita dell’uomo è stata prolungata in una misura che la generazione precedente non aveva potuto neppure immaginare, affinché il beneficio di un avita più lunga non venga pagato al prezzo di una esistenza grama, stentata, penosa a se stessi e agli altri».

Ricordiamo, infine, che il Csa e le 23 organizzazioni aderenti hanno sempre agito in base alla scelta di Norberto Bobbio: «Continuo a preferire la severa giustizia alla generosa solidarietà».

 

 

 

 

(1) Cfr. “Gli insulti di Furio Colombo all’Anfaa”, Prospettive assistenziali, n. 94, 1991.

(2) La seconda edizione ampliata è stata edita da Rosenberg & Sellier con il titolo Nicola: un’adozione coraggiosa. Un bambino handicappato grave conquista una vita adulta autonoma. In merito al volume di Giulia Basano, Norberto Bobbio ha dichiarato: «Il libro è bellissimo e non può essere letto senza ammirazione e commozione. Dimostra che il problema degli handicappati, come tanti altri problemi che ci assillano, trascende la sfera dei rapporti economici e non può essere risolto se non trascendendola».

(3) Il convegno era stato organizzato da Prospettive assistenziali con la collaborazione delle Fondazioni Costantini e Zancan, l’Istituto per gli Studi sui servizi sociali e il Movi. Gli atti sono stati pubblicati nel volume Eutanasia da abbandono edito da Rosenberg & Sellier.

(4) Cfr. F. Santanera e M. G. Breda, Vecchi da morire – Libro bianco sui diritti violati degli anziani malati cronici: manuale per pazienti e familiari, Rosenberg & Sellier, Torino, 1987.

 

www.fondazionepromozionesociale.it