Prospettive assistenziali, n. 145, gennaio-marzo 2004

 

 

IL DIRITTO ALLA FAMIGLIA DEI BAMBINI PICCOLISSIMI

Gabriella Cappellaro *

 

 

1. Spesso mi è accaduto di rispondere alle richieste di genitori eticamente impegnati che chiedevano un intervento sulla crescita della vita morale del bambino e su come loro potessero aiutarli in questo percorso. In tali casi è importante questo concetto: quando nasce, il bambino non è né buono né cattivo, non gli si possono attaccare queste marche che vengono caso mai dedotte dalla vita di relazione successivamente intrecciata, e tuttavia il bambino è qualcosa di molto prezioso, è un “bene”, e questa convinzione potrà davvero essere la linea-guida per far crescere il bambino “buono” piuttosto che “cattivo”.

Considerare il bambino un “bene” nello scenario familiare, significa considerarlo un patrimonio del matrimonio (pater munus = dono del padre e mater munus = dono della madre), dono reciproco del padre e della madre: sta a loro far fruttare questo bene, immettendolo in una rete di relazioni appaganti e positive. Ciò consentirà al bambino di sentirsi al sicuro, di essere “buono” perché non avrà bisogno di protestare per essere ascoltato o doversi difendere da circostanze angosciose con quei comportamenti che troppo spesso gli adulti chiamano cattiverie e capricci, mentre in realtà sono la reazione del bambino ad un contesto di allevamento inadeguato.

Il concetto di bambino come “bene” da far fruttare attraverso la proposta di vitalità del padre che si innesta sull’offerta di legame della madre, si presta peraltro a molti equivoci e strumentalizzazioni culturali. È un bene in sé? È un bene per qualcuno? È un bene di qualcuno?

Benché tutti ci affrettiamo sicuramente a rispondere che il bambino è un bene per se stesso, nella prassi la questione non risulta poi così scontata.

La convinzione che il bambino è un bene in sé deve essere qualificata e argomentata, per non cadere in due pericolose posizioni estreme:

- che il bambino sia un bene senza vincoli e  possa sopportare  l’assenza di legame;

- che il bambino sia un bene con vincoli pre-determinati dal legame delle origini.

Pensiamo ai bambini che vengono sistemati alla nascita nel cosiddetto “spazio neutro” che li renderà disperati nella loro richiesta di affetto, o a quelli che vengono collocati in istituto dopo l’allontanamento, in attesa che i genitori si sistemino, attesa che magari dura anni e si riempie di illusioni e di idealizzazioni patologiche, perché sia fatto salvo il diritto del genitore sul bambino.

Nel primo caso il pregiudizio che il bambino possa vivere o addirittura iniziare a vivere senza un legame affettivo importante è del tutto senza fondamento. Il bambino stringe comunque legami. Si tratterà di legami inconsapevoli, frammentati, spesso contorti e detorti, carichi di sensi di colpa, talvolta percorsi da aspetti di perversione e di sadicizzazione da parte degli adulti, perché costruiti con persone che nei confronti del bambino non possono avere che un coinvolgimento affettivo momentaneo, senza storia, basato sull’identità di ruolo o, nei casi peggiori, sulla gestione del potere.

Mutuando un’immagine dal mondo della natura, e paragonando il legame alle radici che fanno vivere la pianta, potremmo affermare che in una famiglia serena il legame fa crescere una quercia dalle solide e profonde radici, in uno spazio neutro può solo crescere qualcosa di paragonabile al muschio prodotto da un’enorme quantità di effimere radichette.

Nel secondo caso ci si nutre del pre-giudizio che il legame del sangue sia il solo consentito e così potente da rendere inutili, o quasi, i tentativi di offrire al bambino un’opportunità diversa da quella del suo contesto familiare patologico, e si arriva, per averne la prova, a costringere il bambino in contesti talmente sterilizzati affettivamente o così poco consapevoli e attrezzati al compito riparativo, da indurre il bambino a patologiche e fuorvianti idealizzazioni dei suoi legami delle origini, che vengono poi presentate come resistenze alla costruzione di nuovi legami.

2. Il permanere di questa cultura pregiudizialmente mistificante, da una parte sulla capacità del bambino di sopravvivere senza danni ad un vuoto di legami significativi o attaccato a legami patologici per la carenza di correttivi dotati di senso, e dall’altra sul diritto reclamato dall’adulto circa la proprietà sul bambino anche contro gli interessi del bambino stesso, ci spinge ad alcune considerazioni:

A) l’esperienza della relazione adulto/bambino è fondamentale alla crescita. La relazionalità è lo specifico di ogni persona. Il bambino è fin dalla nascita socialmente competente, attrezzato per la relazione (dà subito delle risposte alle cure che la figura materna gli presta), bisognoso di relazione (reclama la presenza della figura materna, ne patisce l’assenza e la carenza) e dunque portatore del diritto alla relazione (ha diritto alla presenza della figura materna);

B) è relazione primariamente e irrevocabilmente “a due”, nel senso che nessuno dei due interlocutori, il bambino e l’adulto, può essere uno qualunque, perché è indispensabile un coinvolgimento emotivo reciproco tale che ciascuno dei due è necessario all’altro;

C) è relazione da situarsi in un  contesto dotato di spessore relazionale (il triangolo primario), perché solo lì può trovare soddisfazione il bisogno di crescita del bambino, e deve trattarsi quindi di un luogo specifico e speciale, dotato di una capacità di scambio comunicativo di qualità, convenientemente attrezzato dal punto di vista psicologico;

D) è relazione che diviene occasione necessaria dell’adultità, e ci vogliono quindi degli adulti i cui bisogni affettivi siano arrivati a maturità.

Per questi motivi si può davvero affermare che queste condizioni possono essere soddisfatte in un solo luogo, la famiglia, perché è l’unico luogo dove può trovarsi quella circolarità di affetti maturi e gratuiti che consentono a una coppia di essere dei buoni genitori, disponibili alla relazione speciale “a tre” con il bambino.

3. Nel bambino il bisogno e la capacità di relazione si modulano attraverso due fondamentali movimenti emotivi: attaccamento e separazione per l’individuazione.

Per quanto riguarda l’attaccamento, deve trattarsi di un buon attaccamento, in grado di produrre sicurezza, fiducia negli altri, senso positivo della vita, con un adulto capace di funzione materna o paterna.

Per quanto riguarda la separazione, deve trattarsi di separazione nell’attaccamento, per la crescita, cioè di quella spinta all’intraprendenza individuale che ogni buona figura materna o paterna sa fornire al proprio bambino nei passaggi maturativi per portarlo a sempre maggiori livelli di autonomia, a quell’individuazione che produce senso del Sé, della propria identità.

E ci sono attaccamenti patologici che vanno corretti perché la base offerta al bambino non è per niente una base sicura, ma è malata e motivo di sentimenti negativi per il bambino.

E ci sono separazioni traumatiche, che non producono senso del Sé, anzi ne bloccano la costruzione, e che si verificano quando un genitore rifiuta il proprio figlio o quando un bambino deve essere allontanato da genitori maltrattanti. Che fare allora quando la separazione, riconosciuta come traumatica, è però necessaria? È indispensabile avviare quanto prima misure sostitutive.

Già molti anni fa, più di cinquanta, una neuropsichiatra francese, N. Quémada, formulava considerazioni tuttora attualissime considerando la madre (la  figura materna) e il bambino come parti vitali di un’organizzazione speciale, in cui ciascuno dei due forma e perfeziona l’altro. La madre costruisce lammaternamento perché il bambino possa sentirsi amato, il bambino a sua volta stimola la madre a sentirsi tale, diventa autore del processo di maternizzazione  nella madre.

Analogamente accade con il padre: appaternamento  e  paternizzazione costruiscono organizzazioni a due che sono il fondamento del senso di appartenenza e dell’identità (1).

È cioè l’investimento affettivo e la sua circolarità nello scambio reciproco che qualificano la funzione genitoriale: senza il contatto costante con un figlio che ne attivi le capacità, neppure la procreatrice e il procreatore possono dirsi madre e padre.

Ma se il bambino, fin dalla nascita, si trova in situazione di non-ammaternamento, si stabilisce per lui una condizione di vita, anche se le cure materiali gli fossero assicurate, carica di conseguenze per lo sviluppo della sua personalità fino all’instaurarsi di turbe psicotiche e vere e proprie psicosi, che possono risultare poi solo parzialmente risolvibili, sempre comunque attraverso l’inserimento in una famiglia accuratamente scelta e lunghi interventi di psicoterapia.

Altrettanto grave può risultare per un bambino l’esperienza di de-ammaternamento, quando é allontanto dalla madre e ”la carenza di cure materne segue allo choc della separazione”. La regressione e le turbe che ne conseguono dipenderanno dalla proposta di legame che un altro adulto potrà fare al bambino.

Il non-ammaternamento del neonato istituzionalizzato alla nascita e impedito di coltivare la sua competenza al legame risulta perciò della stessa gravità del de-ammaternamento del bambino cui viene imposta una separazione senza sostitu­zione.

Il concetto di ammaternamento verrà, in anni successivi, affrontato negli studi sull’attaccamento condotti da chi è ormai unanimemente considerato uno dei maggiori studiosi dello sviluppo infantile: J. Bowlby. Questo famoso pediatra e psicoanalista ha rilevato che il bambino privato di cure materne manifesta uno sviluppo ritardato fisicamente, intellettualmente e socialmente, fino ad instaurare veri e propri disordini fisici e
mentali.

L’attaccamento è una condizione per cui un individuo é legato emotivamente ad un’altra persona percepita come più grande, forte, saggia, nei confronti della quale si attivano: la richiesta di vicinanza, il fenomeno della “base sicura” (la situazione di sicurezza fornita dalla figura di attaccamento viene ricercata dal bambino nei momenti di pericolo, malattia, stanchezza, dopo una separazione),  la protesta per la separazione.                                                                                       

Fondamentale è l’attaccamento nei primi mesi di vita, quando il neonato impara a distinguere una figura particolare, la madre, e sviluppa un forte e riconoscibile desiderio di starle vicino. 

Il comportamento di attaccamento è specifico e durevole: è diretto verso uno o pochi  individui solitamente in un definito ordine di preferenza e persiste per gran parte del ciclo della vita. I primi attaccamenti non sono abbandonati facilmente anche se possono attenuarsi (adolescenza), diventare complementari ad altri attaccamenti ed essere talvolta sostituiti.

Per riflettere sulla relazione e sull’attaccamento che ne è il prerequisito, pensiamo a quanto  accade tra una madre e il suo bambino neonato: vivono, nei primi tempi, in una specie di cerchio magico, quello che uno studioso di bambini, Daniel Stern, chiama “costellazione materna”, contesto particolarissimo dentro il quale ogni madre si situa con il suo bambino in quello scambio continuo che diventa il prototipo della relazionalità successiva.

Il rapporto madre/bambino, assolutamente essenziale per la crescita del bambino, è il risultato di una serie di esperienze, ognuna delle quali deve contenere tre elementi: sensorio (il bambino percepisce), motorio (il bambino agisce), affettivo (il bambino si sente oggetto di un interesse speciale da parte della madre). Solo a queste condizioni le singole esperienze saranno internalizzate dal bambino e diventeranno parte della sua mente, facendogli sperimentare il senso di un Sé emergente fin dalla nascita.

4. In questi anni le ricerche sull’attaccamento hanno conseguito nuovi traguardi, i concetti di attaccamento e di base sicura hanno ormai oltrepassato il dato biologico e si aprono a più allargate considerazioni: la famiglia come unità emozionale (comprendente cioè entrambi i genitori, i fratelli e le sorelle, i nonni e tutti gli altri congiunti che hanno rapporti significativi con il bambino), soprattutto la coppia dei genitori nella proposta di attaccamento, la possibilità di integrazione delle figure di attaccamento, al fine di modificare la rischiosità di attaccamenti primari ansiosi, evitanti, disorganizzati.

Gli studi evidenziano inoltre continuità tra il modello di attaccamento del bambino piccolo e quello di cui la madre ha a suo tempo goduto e ha fatto suo nell’arco della sua esistenza.

Certo, correggere le distorsioni di un attaccamento mal posto è un percorso lungo, complesso e non facile, ma questa non è una ragione sufficiente perché non lo si debba fare, perché è vero che l’attaccamento insicuro, ambivalente o, peggio, disorganizzato si radica nei primi anni di vita, ma é anche vero che il bambino dispone anche di altre risorse di vita emotiva, affettiva e intellettiva che possono aiutarlo a metabolizzare, superare le sofferenze passate e stabilire attaccamenti più rispondenti ad una serena maturità. Si aprono inoltre con la psicologia clinica, con la psicoanalisi, con la neurobiologia, frontiere che non possiamo ignorare perché mettono in luce aspetti fondanti la capacità relazionale del bambino.

a) La psicologia clinica dell’età evolutiva ha ormai superato l’unità di misura duale sul piano delle osservazioni. A partire dal costrutto dell’attaccamento di Bowlby, straordinariamente innovativo, e peraltro diadico, così come gli studi della Ainsworth e della Main, i recenti studi puntano all’esplorazione del senso interno della relazionalità del bambino, mettendo in evidenza come già a tre mesi il bambino che ha goduto fin dalla nascita di cure familiari, è protagonista, con la coppia dei genitori, di un triangolo primario che diventa poi il prototipo dello spessore delle relazioni successive. Nello scenario normale di crescita di un neonato, che può contare su due genitori accudenti, si assiste ad uno straordinario gioco di squadra, in cui i tre partner lavorano insieme per raggiungere la soddisfazione.

Fino a poco tempo fa, si stabiliva la tappa dei nove mesi come quella in cui il bambino manifesta importanti interazioni triadiche. E questo perché a nove mesi il bambino ha raggiunto una nuova competenza: condivisione degli affetti (il bambino guarda la madre e sorride per renderla partecipe del piacere che prova maneggiando un giocattolo), riferimento sociale (di fronte ad un giocattolo strano, il bambino perplesso guarda la madre per avere indicazioni), e segnali affettivi (il bambino in difficoltà nel gioco guarda la madre piangendo per ricevere aiuto).

Ma studi recenti, la preziosa ricerca della dr.ssa Fivaz, ci portano a retrodatare ulteriormente le capacità interazionali del bambino (con quattro tipi di alleanze familiari: cooperative, in tensione, collusive, disturbate). Si evidenzia una competenza triadica precoce se i genitori rispondono appropriatamente e si creano degli “stati di espansione della consapevolezza” a tre per tutte le parti coinvolte.

b) Nella psicologia dell’età evolutiva  si aprono prospettive diverse. Infatti, mentre per il passato lo sviluppo sociale era considerato funzione delle competenze individuali portando così a considerare il bambino come individuo e lasciando sullo sfondo il contesto sociale di allevamento (vedi contesto istituto o contesto famiglia), la maggior parte delle teorie attuali sullo sviluppo del bambino tiene conto soprattutto della genesi sociale e interattiva dei processi psichici nella convinzione che le interazioni del bambino debbano essere attività coordinate in un insieme unitario e significativo. Non si può separare l’interazione dal contesto.

c) Un ulteriore contributo ci viene offerto dal fatto che psicologia e psicoanalisi vanno oggi scoprendo proprio attorno al bambino nuove linee di intesa, di come la capacità del bambino di mentalizzare, di vedere se stessi e gli altri in termini di stati mentali (sentimenti, convinzioni, intenzioni e desideri)  sia in stretto rapporto con l’attaccamento sperimentato; di come la violenza sia la risposta estrema di un sistema di attaccamento disorganizzato e sia un comportamento fondamentalmente correlato ad una scarsa capacità di mentalizzazione.

La sensibilità materna è fattore chiave nel determinare la qualità dello sviluppo psichico, perché la madre aiuta il bambino a metabolizzare le esperienze, lo stimola a scoprire il suo sé attraverso il rispecchiamento, gli offre quell’accudimento coerente che costruisce la fiducia di base.

a) La neurobiologia apre scenari che non possiamo ignorare, come quelli descritti da A. Damasio. Le emozioni sono fondamentali regolatori della vita: gioia, tristezza, paura, sorpresa, disgusto, ecc., sono risposte adattative dell’individuo all’ambiente, sono processi determinati biologicamente, ma allo stesso tempo influenzano la modalità di funzionamento di numerosi circuiti cerebrali che diventeranno sentimenti. La coscienza è la capacità di sapere di avere dei sentimenti. Al livello più semplice la coscienza ci fa riconoscere la spinta a vivere e a prendersi cura di se stessi, al livello più complesso ed elaborato, aiuta a sviluppare un interesse per altri sé.

Il primo nucleo di coscienza, la coscienza nucleare, corrisponde ad un primo senso del Sé. Ma se quel Sé viene collegato ad un passato e ad un futuro, arricchito via via dalla memoria autobiografica, ecco che la coscienza si fa estesa, ecco che il Sé si fa robusto, diventa autobio­grafico.

5. Il bisogno del bambino, tanto più se neonato o piccolissimo, è quello, fin dal primo giorno di vita e poi sempre successivamente, di essere accolto in uno spazio affettivo profondo, dove il suo apparato radicale, la competenza relazionale possa germinare e produrre attaccamenti a due (la madre e il padre) come base del rapporto triadico (madre, padre, bambino)  anche se poi sarà necessario un trapianto. Inoltre, bisogna essere consapevoli che il trapianto sottintende un’operazione qualificata, di grande cura per le caratteristiche individuali trapiantate, dei precursori di funzioni sociali importanti, delle caratteristiche del contesto nuovo in cui verrà a trovarsi il bambino e di quanto si porta dietro. Solo così il mondo interno del bambino continuerà a crescere.

Quale attaccamento è possibile per un bambino istituzionalizzato? Quale proposta di attaccamento gli viene fornita? Non certo quella di base sicura. Quale attaccamento viene testimoniato e consegnato alla famiglia che poi il bambino troverà, da quanti, operatori sensibili e preparati, ma a tempo parcellare e frammentato nell’arco di una stessa giornata, si occupano di un bambino neonato o piccolissimo in istituto?

Sappiamo che troppo spesso il passaggio è vuoto di testimonianze.

Eppure sappiamo che il passaggio del testimone è fondamentale per dare un senso al Sé autobiografico che il bambino si costruisce attraverso competenze sociali presenti fin dalla nascita. Non possiamo illuderci che un bambino non si inserisca comunque in un sistema di attaccamento, sia pure in forma continuamente negata da una frammentazione di figure che addensano confusione e disperazione nella sua mente, consentendogli al massimo di sopravvivere.

E non possiamo ignorare le osservazioni  di Felicity de Zulueta di come l’emozione della paura fondi fin da subito la ricerca  di un bambino per una figura di attaccamento e contenimento e di come, se l’esperienza di contenimento, che si iscrive poi nella memoria biologica del bambino, non é sufficiente, quest’attesa si possa trasformare in dolore e violenza.

Per un bambino che nasce senza genitori biologici accoglienti, per un bambino piccolissimo che sta crescendo in famiglie inadeguate e deve essere allontanato, si apre un periodo di attesa, che sarebbe preferibile chiamare di transizione, di passaggio, di una fase quindi della sua vita dove vanno garantite non solamente l’assistenza materiale, ma anche e soprattutto la cura affettiva. È l’investimento affettivo che offre al bambino uno spazio psicologico per costruire una mappa significativa degli avvenimenti della sua vita, con una precisa sola linea guida «io sono sempre stato importante per qualcuno».

Sappiamo che la cura della transizione è uno degli aspetti più importanti e complessi del ciclo vitale della famiglia, quello in cui la famiglia deve mettere in campo il meglio delle sue risorse per passare da un ciclo all’altro (la nascita di un figlio, il raggiungimento dell’età scolare, lo svincolo dei figli, ecc.).

Cerchiamo di riflettere allora di quanta risorsa-famiglia può aver bisogno un bambino che nasce senza una famiglia legale o che, piccolissimo, viene allontanato come misura protettiva, dalla sua famiglia legale. Se resta il suo diritto alla famiglia, resta anche intatta la sua richiesta psicologica di “essere con” in uno spazio-famiglia.

La cura della transizione, quando negata o misconosciuta o addirittura detorta, come frequentemente accade, contribuisce ad alimentare il pregiudizio dell’inutilità o perfino della rischiosità dell’inserimento familiare e a privilegiare l’istituzionalizzazione, luogo della cura tecnica ma non certo della cura della transizione.

Il bisogno di famiglia di un bambino, diritto sancito dalla legge ma scarsamente realizzato, per uscire dalla negatività dei pregiudizi di cui abbiamo parlato, va dunque considerato e sviscerato nella sua positività: il bisogno è un potenziale di crescita inarrestabile, il bambino è individuo sociale dotato fin dalla nascita di una competenza sociale incredibile, la famiglia è uno spazio psicologico triangolare inimitabile.

È così che la famiglia, con la forza della sua complessità, consapevole che la cura tecnica delle competenze individuali di un bambino è al servizio della cura della transizione, diventa l’unico reale riferimento possibile, l’unico positivo contesto di accudimento per un bambino, qualsiasi sia la sua posizione di nascita e qualsiasi siano le sue vicende di crescita.

 

 

* Psicoterapeuta, esponente dell’Associazione “Bambino chiama aiuto” di Vicenza.

(1) Cfr. il volume di N. Quémada, Cure materne e adozione, Utet Libreria, Torino, pag. 93, euro 10,00. Il libro può essere richiesto versando euro 10,00 sul c.c.p. n. 25454109 intestato ad Associazione Promozione Sociale, Via Artisti 36, 10124 Torino.

 

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