Prospettive assistenziali, n. 144, ottobre-dicembre 2003

 

 

Interrogativi

 

 

PERCHÉ LA REGIONE LOMBARDIA HA REINTRODOTTO L’ODIOSA DISCRIMINAZIONE FRA NATI NEL E FUORI DAL MATRIMONIO?

 

Nel maggio 2003, l’Assessorato ai servizi sociali della Provincia di Brescia ha edito una pubblicazione dal titolo “Maternità difficile: l’intervento dell’Amministrazione provinciale di Brescia negli anni 1974/1993 relativo all’assistenza alla maternità e infanzia”.

nel primo capitolo, l’Autrice, Cleopatra D’Ambrosio, riporta, fra l’altro, le principali norme di legge in base alle quali erano state attribuite alla Provincia le competenze sia in materia di sostegno alle maternità problematiche sul piano sociale, sia di assistenza ai fanciulli esposti o figli di ignoti o nati fuori dal matrimonio.

Al riguardo, perché l’Autrice non segnala l’esecrabile discriminazione messa in atto dal Governo fascista nei confronti dei minori nati fuori dal matrimonio?

Perché non ha ricordato che, mentre le disposizioni allora vigenti attribuivano giustamente tutte le competenze assistenziali ai Comuni (si veda al riguardo il regio decreto 6535 del 1889), la legge 2900 del 1923 aveva attribuito alle Province le funzioni relative ai minori nati fuori dal matrimonio, ai figli di ignoti ed ai fanciulli esposti?

Per quale motivo non ha rilevato che, a seguito del provvedimento di cui sopra, mentre i minori nati nel matrimonio potevano essere collocati in istituto solamente se non c’era la disponibilità di famiglie o di persone affidatarie, per i nati fuori dal matrimonio si doveva procedere in modo diametralmente opposto, poiché essi dovevano essere prioritariamente assistiti mediante il ricovero?

La questione della discriminazione fra i fanciulli nati nel e fuori dal matrimonio è, purtroppo, ancora attualissima.

Infatti, le Province continuano ad avere le competenze loro attribuite dal Governo fascista e, come sanno i lettori di Prospettive assistenziali, a nulla sono valse le richieste da noi avanzate all’allora Ministro Livia Turco e ai Parlamentari di tutti i partiti affinché l’odiosa discriminazione venisse abolita con la legge di riforma dell’assistenza, la n. 328/2000.

A questo proposito, ricordiamo, ancora una volta, che ai sensi del 5° comma dell’articolo 8 della legge suddetta, le Regioni possono confermare alle Province le loro attuali competenze assistenziali (comprendenti non solo i minori nati fuori dal matrimonio, ma anche le gestanti e madri nubili, vedove o coniugate con gravi problematiche sociali, nonché i ciechi ed i sordi poveri rieducabili) o trasferirle ai Comuni (com’è auspicabile) oppure ad altri enti (ad esempio i Consorzi fra Comune e Provincia).

Per quanto riguarda la Regione Lombardia, ricordiamo che con la propria legge del 5 gennaio 2000 n. 1 aveva eliminato ogni discriminazione fra nati nel o fuori dal matrimonio, assegnando tutte le competenze ai Comuni.

Equiparare un bambino nato fuori dal matrimonio ad un fanciullo “legittimo”, era evidentemente una scelta che ha scandalizzato i benpensanti. Di conseguenza, la Regione Lombardia con la legge 27 marzo 2000 n. 18 ha ricreato la suddetta distinzione, affidando nuovamente alle Province le funzioni assistenziali relative ai nati fuori dal matrimonio.

È vero che, in base alla suddetta legge, gli operatori delle Province della Lombardia, prima di fornire l’assistenza richiesta, devono verificare se il loro ente è competente e, quindi, sono costretti ad accertare se il minore è nato fuori del matrimonio?

Ritornando alla pubblicazione, circa la valutazione delle attività svolte dal 1974 al 1993 dalla Provincia di Brescia nei riguardi delle gestanti e madri, nonché dei loro nati, l’Autrice afferma che i servizi sociali «tendevano ad effettuare interventi che oggi noi chiameremmo “tampone”, non essendo inseriti in ipotesi progettuali che considerino la donna e l’accudimento del bambino nel suo insieme».

Cleopatra D’Ambrosio osserva, inoltre, che, rispetto al periodo suddetto, non sono cambiati «il giudizio morale, gli stereotipi, gli atteggiamenti di pregiudizio verso la madre sola e l’accanimento a far riconoscere alla madre il figlio».

Ma com’è possibile che, ancora oggi gli operatori socio-sanitari esercitino pressioni sulle partorienti che non sono in grado o non vogliono provvedere ai loro nati, perché li riconoscano, nonostante che le esperienze abbiano dimostrato che una delle peggiori situazioni per i bambini è quella di essere legati giuridicamente a persone (non solo donne, ma anche uomini) che non li vogliono accettare come figli?

Un’ultima domanda. Perché l’Autrice utilizza ancora il termine “illegittimi” per indicare i soggetti nati al di fuori del matrimonio?

 

 

LA PROPRIETÀ DI BENI CONTA NULLA?

 

La Federazione Pensionati Cisl in data 19 settembre 2003 ha indirizzato una lettera aperta ai Parlamentari in cui, fra l’altro, segnala che ci sono “10.852.844 posizioni pensionistiche al di sotto dei 586 euro mensili (di cui, più di 7 milioni con assegni inferiori ai 400 euro al mese).

Mentre concordiamo sulla necessità di aumentare il livello minimo delle pensioni, in modo che i titolari abbiano il necessario economico per vivere, chiediamo alla Federazione Pensionati Cisl ed agli altri Sindacati se non ritengano che per l’integrazione al minimo delle pensioni (la cui connotazione è sicuramente assistenziale) non sia giunto - finalmente - il momento di tener conto anche dei beni immobili (alloggi, terreni, negozi, ecc.) e mobili (azioni, obbligazioni, ecc.) posseduti.

Se è giusto garantire quanto è necessario per vivere a coloro che non posseggono redditi sufficienti, non è iniquo utilizzare il denaro pubblico per sostenere coloro che non ne hanno assolutamente bisogno?

Sono disponibili i Sindacati a bloccare le richieste dei pensionati che posseggono proprietà, anche allo scopo di poter utilizzare le maggiori somme disponibili per aiutare coloro che sono in reali difficoltà economiche?

 

 

PER QUALI MOTIVI SI IGNORANO GLI OBBLIGHI DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE NEI RIGUARDI DEGLI ANZIANI CRONICI NON AUTOSUFFICIENTI E DEI MALATI DI ALZHEIMER?

 

1. Nella presentazione di due ricerche realizzate dal Censis in collaborazione con “Salute - la Repubblica”, Giuseppe Roma (Cfr. Censis, Note e commenti, n. 3, marzo 2003) sostiene che, nei riguardi degli anziani colpiti da eventi negativi per la loro salute, «l’aiuto viene sempre e esclusivamente dai familiari, soprattutto dai figli, in parte dal coniuge e da altri parenti. È un intervento dovuto da un punto di vista affettivo e anche di riconoscenza, per il ruolo che i genitori e la famiglia ricoprono nella vita di ciascun individuo. Fondamentale il ruolo ormai assunto dalle cosiddette “badanti” la cui presenza nelle case di ben il 10,2% degli anziani costituisce una forza risolutiva per limitare l’impegno dei familiari nell’assistenza quotidiana, spostandola sul piano delle relazioni affettive».

Precisa, inoltre, quanto segue: «per chi non può permettersi l’onere di un aiuto personale, non sembrano ricoprire un ruolo significativo i servizi pubblici. Solo il 2,7% degli ultrasessantacinquenni dichiarano di ricevere supporto in caso di malattia o gravi impedimenti, da infermieri delle strutture pubbliche o da assistenti domiciliari».

Com’è ormai arcinoto anche ai non esperti, la causa essenziale delle difficoltà - spesso insormontabili - degli anziani malati inguaribili (e dei loro congiunti) risiede nella mancata attuazione del loro diritto alle cure sanitarie.

Perché Giuseppe Roma non lo dice? È così difficile informare i cittadini circa i loro diritti? Non è questo il compito primario dei centri di ricerca?

2. Analoghe considerazioni vanno fatte in merito all’articolo “Volontariato e malattia di Alzheimer” (5 maggio 2003) ed al numero speciale (1-15 agosto 2003) di Prospettive sociali e sanitarie, interamente dedicato alla “Relazione con il malato di Alzheimer”, in quanto in nessuna delle 9 relazioni pubblicate vengono rilevate le preoccupanti violazioni delle leggi vigenti che, senza alcun dubbio, obbligano il Servizio sanitario nazionale ad intervenire, nei riguardi dei malati di Alzheimer e dei soggetti colpiti da altre forme di demenza senile, non solo nella fase diagnostica, ma anche durante il periodo, generalmente lungo, di trattamento.

Da notare che nel numero speciale in oggetto di Prospettive sociali e sanitarie, sono stati riportati «alcuni materiali nati durante l’esperienza formativa con un gruppo di operatori».

ovviamente, non ricevendo le necessarie informazioni, i parenti dei malati di Alzheimer assumono a loro carico oneri anche economici che spettano al Servizio sanitario nazionale.

Tutti sono d’accordo nel riconoscere la priorità delle cure sanitarie domiciliari. A nostro avviso, esse devono essere fornite anche ai soggetti colpiti da malattie invalidanti e da non autosufficienza. Riteniamo, tuttavia, che la loro prosecuzione debba essere fatta in modo corretto, segnalando, quindi, ai congiunti non solo i vantaggi della permanenza dei pazienti a casa loro, ma anche i compiti assegnati dalle vigenti disposizioni di legge al Servizio sanitari nazionale.

3. Anche la Presidente nazionale dell’Aima, Associazione italiana malattia di Alzheimer, nell’articolo “Etica, politica e diritto alla cura: la malattia di Alzheimer”, pubblicato su 24 Ore Sanità, 14-20 ottobre 2003, non reclama l’attuazione delle leggi vigenti, rivendicazione ottenibile con il semplice invio di due lettere raccomandate A/R (cfr. il sito www.fondazionepromozionesociale.it), ma giustifica la gravissima violazione delle leggi vigenti, sostenendo che «se oggi il Servizio sanitario nazionale non è in grado di occuparsi dei malati di Alzheimer, come farà domani quando i malati saranno raddoppiati». Una assoluzione fortemente autolesivista impartita da Patrizia Spadin, Presidente nazionale dell’Aima, al Ministro della sanità, alle Regioni, nonché alle Aziende sanitarie locali e ospedaliere!

4. Deludenti sono le informazioni fornite dall’Associazione Alzheimer Italia. Infatti, nel sito alzheimer.it non c’è alcun cenno al diritto delle persone colpite da demenza senile di essere curate dal Servizio sanitario nazionale sia a domicilio che presso strutture residenziali (ospedali, case di cura private convenzionate, Rsa, ecc.). Inoltre, nel suddetto sito non esiste alcun riferimento alle vigenti norme di legge che vietano agli enti pubblici di richiedere contributi economici ai parenti degli ultrasessantacinquenni non autosufficienti, nonché ai congiunti non conviventi degli assistiti di qualsiasi età.

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it