Prospettive assistenziali, n. 144, ottobre-dicembre 2003

 

ALCUNE RIFLESSIONI SUL VOLONTARIATO DEI DIRITTI

Francesco Santanera

 

 

 

Ad un amico che mi ha scritto: «Io che sono mille volte più moderato di te, prendo botte fortissime e incazzature terribili (anche se poi gli altri sono convinti di riceverne). Tu mi dici come continui a resistere?», ho risposto come segue.

Dici di essere mille volte più moderato di me. Ma io non credo di essere mai stato eccessivo. Semplicemente, i diritti ci sono e sono esigibili o non ci sono. Non sono possibili mediazioni sui diritti. Mi riferisco ai diritti fondamentali, indispensabili affinché i singoli individui ed i nuclei familiari possano condurre una vita accettabile, compatibile cioè con le loro condizioni personali e con le risorse sociali disponibili.

Orbene, credo di non sbagliarmi dicendo che le organizzazioni, con cui ho lavorato, non hanno mai inoltrato richieste inconciliabili con i principi di cui sopra. vedi: aiuti psico-sociali ai nuclei in difficoltà, adozione dei minori privi di sostegno familiare, affidamenti a scopo educativo, inserimenti prescolastici e scolastici dei soggetti con handicap, corsi prelavorativi per insufficienti mentali lievi e medi, cure sanitarie per gli anziani malati cronici non autosufficienti, ecc.

Posso aggiungere che quasi sempre le richieste avanzate erano assolutamente ovvie: diritto dei bambini a crescere in una famiglia (a seconda delle situazioni, in quella di origine o presso una famiglia adottiva o affidataria); diritto all’istruzione di base di tutti i fanciulli, compresi i soggetti con handicap; diritto alla formazione professionale delle persone inseribili nel lavoro, inclusi i soggetti con handicap intellettivo; diritto di tutti i malati alle cure medico-infermieristiche, compresi quelli colpiti da patologie invalidanti e da non autosufficienza, ecc.

Da notare che le iniziative di sostegno ai nuclei familiari di origine, l’adozione e l’affido, sono state una importante azione di prevenzione del disagio (il ricovero in istituto danneggia sempre – più o meno gravemente – la personalità dei fanciulli) e nello stesso tempo hanno consentito allo Stato di risparmiare milioni e milioni di euro (i minori istituzionalizzati erano oltre 300 mila nel 1960, ora - in parte anche per il calo delle nascite - sono circa 20 mila).

Continuo a resistere (da 41 anni lavoro a tempo pieno come volontario non pagato) perché credo fortemente che ogni persona valga uno (sempre e solo uno) per quanto riguarda i diritti fondamentali (sanità, casa, istruzione, trasporti, ecc.). Ritengo, inoltre, che detti diritti debbano essere riconosciuti in modo concreto sia agli altri che a me stesso (e non solo predicati, come fanno moltissimi). In sintesi, credo che ognuno di noi dovrebbe operare contemporaneamente per il rispetto delle esigenze altrui e di quelle proprie, sia presenti che future (noi tutti possiamo diventare totalmente incapaci e dipendenti dagli altri in tutto e per tutto).

Resisto anche perché sono convinto di dover sempre operare come volontario in condizioni di assoluta inferiorità nei confronti di coloro che detengono il potere, che negano le esigenze (e quindi i diritti) dei soggetti deboli.

Sono anche persuaso che non vi sono altre strade per la conquista dei diritti dei più deboli: non ho mai conosciuto una sola persona che, salvo brevi periodi di tempo seguiti da allontanamento o da dimissioni, abbia potuto realizzare quanto sopra come sindaco o assessore. Con questo, non voglio dire che tutti i sindaci, gli assessori e le altre autorità siano contrari al riconoscimento dei diritti fondamentali anche nei riguardi di coloro che sono incapaci di autodifendersi. Tuttavia, è evidente che l’obiettivo prioritario dei politici è quello di essere scelti, nominati e rieletti. In ogni caso essi devono rispondere ai gruppi di cittadini che li hanno votati. Purtroppo, nessuna maggioranza politica ha approvato, di propria iniziativa, a livello parlamentare, regionale o locale leggi o delibere rivolte all’effettivo riconoscimento di diritti esigibili alle persone incapaci di autodifendersi. Quando qualcosa è stato ottenuto, ciò è avvenuto sempre e solo a seguito di richieste delle forze sociali di base.

L’assenza di diritti nella legge 328/2000 sull’assistenza è la conferma di quanto sopra, anche se continuano ad esserci esperti che cercano di  far credere che nelle disposizioni della legge suddetta ci siano diritti, mentre c’era e c’è soltanto il vuoto giuridico.

Dunque, non mi sono fatto illusioni né circa la benevolenza dei più forti, né in merito alle loro asserite difficoltà derivanti dalla mancanza di informazioni adeguate. Non ho mai creduto e non credo alla dichiarata ma non comprovata impossibilità di reperire le necessarie risorse economiche. Da secoli viene detto che i soldi per i più deboli non ci sono: poi, quando le pressioni dal basso sono consistenti, saltano fuori.

Quando sento ripetere da tutti gli assessori e dai funzionari, nonché spesso anche dagli operatori, le suddette “giustificazioni” del loro disinteresse, non mi arrabbio quasi mai (mai se rifletto) in quanto trovo puntuale conferma della mia condizione di assoluta inferiorità rispetto alle istituzioni.

La scelta degli amministratori (e dei gruppi di potere che li sostengono) è sempre quella di mangiare tutta la torta lasciando solo le briciole ai più deboli, briciole che aumentano o calano in relazione alle spinte esercitate a favore di questi ultimi.

Finora non ho mai pensato di smettere, anche perché continuo a ritenere di assoluta importanza che ai più deboli vengano riconosciuti i diritti fondamentali (sanità, casa, istruzione, ecc.) che godono i più forti.

Invece, sono continuamente indignato (e mi arrabbio moltissimo, in certi casi anche più volte al giorno) a causa delle decisioni delle autorità quando, quasi mai in buona fede, provocano condizioni negative (a volte anche nefaste) per i più deboli, senza che le autorità stesse ed i gruppi di potere che le sostengono ne traggano alcun vantaggio sul piano economico e sociale. Mi riferisco, ad esempio, al mancato riconoscimento da parte della legge 328/2000 delle esigenze e quindi dei diritti dei bambini trovati nei cassonetti di essere immediatamente assistiti, per cui attualmente, con una certa frequenza, restano in ospedale per giorni e, a volte, anche per mesi. In questo caso, non contano né la sofferenza dei neonati, né le maggiori spese sostenute dal settore pubblico: interessa ai più forti l’inesistenza di diritti esigibili soprattutto per evitare precedenti “pericolosi”. Nella legge 328/2000 questo diritto non è riconosciuto a nessuna persona, nemmeno a quelle che, se non vengono assistite, muoiono. È anche il caso dei soggetti con handicap, orfani, privi di autonomia e dei mezzi necessari per vivere.

Per fare un altro esempio, la mia indignazione riguarda, altresì, la pensione da fame versata dallo Stato alle persone adulte con gravi handicap, nei cui confronti le apposite commissioni sanitarie delle Asl hanno accertato la totale e definitiva incapacità di svolgere qualsiasi attività lavorativa proficua.

Pur essendo la pensione l’unica risorsa economica dei suddetti soggetti, l’importo mensile è vergognosamente ridotto: infatti è attualmente di euro 223,90.

Inoltre, mi arrabbio perché a coloro che, come precisa la legge 18/1980 «non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, abbisognano di un’assistenza continua», viene concessa l’indennità mensile di accompagnamento di appena euro 431,19, che non copre neanche lo stipendio per una settimana ed i relativi contributi previdenziali della persona che deve accudirli, trattandosi di soggetti non autosufficienti, spesso anche per quanto concerne il vestirsi, il mangiare e le altre funzioni fondamentali.

La mia indignazione è anche dovuta al fatto che i numerosi esperti dell’assistenza mai, dico mai, si ricordano non solo di denunciare, ma neanche di segnalare questa situazione indegna di una società civile.

Ci sono i soldi per le olimpiadi, per finanziare le società di calcio e per le innumerevoli altre attività certamente non indispensabili per vivere. Invece, per questi nostri cittadini (magari invitati al pranzo di Natale dalle istituzioni pubbliche o dalle organizzazioni che praticano il volontariato consolatorio) c’è solamente una elemosina, nemmeno sufficiente per la sopravvivenza fisica.

Ricordo anche la sempre più massiccia evasione fiscale e la sottrazione, voluta con la legge 328/2000 di riforma dell’assistenza e dei servizi sociali, dall’esclusiva destinazione ai poveri dei patrimoni delle Ipab (Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza), il cui valore complessivo è stato calcolato in 110-140 mila miliardi delle ex lire, nonché i relativi redditi.

Da notare che il denaro c’è, e in quantità elevatissima, per assistere i benestanti. Ad esempio, lo Stato spende ben 22 miliardi di euro all’anno per integrare le pensioni minime. Orbene, accanto a erogazioni del tutto condivisibili a favore di coloro che dispongono solamente di questo reddito da lavoro per vivere, vi sono quelle versate a persone che posseggono beni (alloggi, terreni, ecc.) anche di entità molto consistente.

Inoltre, ricordo che nella pubblicazione “Analisi e riflessioni sui processi di disagio, povertà ed esclusione sociale presenti a Modena”, edita dal sopra menzionato Comune, viene segnalato che la grave carenza di appartamenti dell’edilizia economica era soprattutto dovuta alla «permanenza di famiglie con redditi superiori del doppio a quello di accesso» negli alloggi popolari.

Da notare che questi “abusivi autorizzati” avevano nel 1998 introiti annui il cui importo variava da 75 a 105 milioni di ex lire. Al riguardo, ritengo che questa assurda assistenza ai benestanti non riguardi solo Modena, ma sia purtroppo presente in numerose città italiane.

Continuo, inoltre, ad essere profondamente deluso per le resistenze assurde che si incontrano da parte di coloro – ad esempio i sindacati dei pensionati – che, rifiutando di riconoscere le esigenze sanitarie degli anziani malati cronici non autosufficienti, mettono in atto interventi diretti non solo a danneggiare gli altri, ma loro stessi ed i loro congiunti.

Se è difficile avere a che fare con persone insensibili alle esigenze dei più deboli, ma dotate di capacità di discernimento, è estremamente più faticoso avere rapporti con coloro che lavorano contro gli altri e contro loro stessi.

Purtroppo, ci sono moltissimi volontari e altri soggetti impegnati nel sociale che sono così abituati a leccare i piedi dei sindaci, degli assessori e delle altre autorità che non sanno nemmeno più a chi fanno i servi. Insistono fino a quando non hanno più la voglia di continuare a genuflettersi inutilmente. A questo punto, dopo aver trattato come imbecilli coloro che operano per i diritti dei più deboli, spariscono dalla circolazione sostenendo di aver abbandonato il campo perché non c’era niente da fare. Prima maestri di tutto e di tutti, poi codardi in fuga.

Inoltre, mi arrabbio sovente a causa degli increduli. Non si riesce quasi mai a far loro capire che le leggi ci sono, ma bisogna che agiscano perché le istituzioni le attuino.

Sono talmente condizionati dalla cultura dominante (secondo cui non bisogna mai inimicarsi le autorità perché non si sa mai quali possano essere le ritorsioni) che continuano, ad esempio, a svenarsi versando per l’assistenza dei loro congiunti contributi economici non dovuti. Si agitano per il “Dopo di noi” quando i Comuni sono obbligati dagli articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931 (sono trascorsi più di 70 anni e non basta ancora!) ad assistere (purtroppo solo mediante ricovero presso comunità alloggio o istituti tradizionali) le persone incapaci di provvedere a loro stesse, ivi compresi - ovviamente - i soggetti con handicap con limitata o nulla autonomia.

Certamente, per continuare a praticare il volontariato dei diritti, occorre avere coscienza dei propri limiti e delle concrete possibilità di azione delle organizzazioni di appartenenza e degli altri gruppi coinvolti.

Un aiuto non indifferente a continuare mi viene dai risultati degli interventi fatti a difesa dei casi singoli come, ad esempio, l’opposizione alle dimissioni da ospedali e da case di cura di anziani e adulti malati cronici non autosufficienti nei casi in cui, come capita quasi sempre, non è assicurata la prosecuzione delle indispensabili cure sanitarie. Un’altra azione con esiti positivi riguarda il rispetto delle norme che non prevedono il versamento di contributi economici da parte dei congiunti dei soggetti con handicap grave e degli ultrasessantacinquenni non autosufficienti.

Il conseguimento di risultati positivi non solo ristabilisce un pezzo anche se piccolissimo di giustizia, ma conferma anche la validità delle richieste avanzate sul piano generale.

Le difficoltà che si riscontrano attualmente nella difesa delle esigenze e dei diritti delle persone e dei nuclei familiari deboli derivano in gran parte anche dal fatto che quasi tutte le organizzazioni di volontariato e dei centri di ricerca operano in base alla cultura della beneficenza e del buon cuore.

Come ho segnalato nel libro “Volontariato - Trent’anni di esperienze” che ho scritto con Anna Maria Gallo, molto sovente gli interventi del volontariato consolatorio (che non infrequentemente agisce anche come leccapiedi delle autorità) si oppongono di fatto al riconoscimento dei diritti.

Inoltre, il riferimento centrale della beneficenza è il benefattore e non la persona debole. Viene sempre messo in rilievo ciò che fanno  i filantropi e non si parla mai, se non in termini generici, dei bisogni vitali insoddisfatti, delle relative responsabilità delle autorità e della necessità di provvedimenti che sanciscano diritti esigibili.

Ad esempio, nessun benefattore e nessun gruppo di volontariato consolatorio ha mai segnalato all’opinione pubblica, tanto per fare un esempio, le violazioni delle leggi vigenti da parte del Servizio sanitario nazionale nei confronti degli anziani cronici non autosufficienti, dei malati di Alzheimer e dei soggetti colpiti da altre forme di demenza senile. In questo modo, si sono resi e si rendono complici, anche se non intenzionalmente, di coloro che violano i diritti per quanto concerne sia la negazione delle cure dovute dal Servizio sanitario nazionale sia in merito ai gravosi oneri anche economici sostenuti dalle famiglie che li accolgono a casa loro, volutamente non informate dei diritti riconosciuti dalla vigente normativa ai loro congiunti infermi.

A mio avviso, cambiamenti significativi si realizzeranno soltanto se una parte consistente del volontariato passerà dall’attività consolatoria alla difesa dei diritti.

Un altro elemento determinante potrebbe essere la presa di coscienza da parte di gruppi dei forti della necessità di predisporre validi servizi per i soggetti deboli, nella considerazione che potrebbero essi stessi averne bisogno.

È, però, alquanto improbabile in quanto, a mio avviso, è facile che i forti si orientino verso soluzioni che riguardano esclusivamente il loro gruppo, così come avvenne a Bologna qualche anno prima della scoperta dell’America, con la creazione della ancora presente Ipab dei Poveri vergognosi.

I nobili ed i mercanti, preso atto che alcuni di loro per malattia o per rovesci finanziari o per altri motivi non erano più in grado di provvedere a loro stessi ed ai loro congiunti, avevano costituito il suddetto organismo, al fine di poterne beneficiare in caso di necessità, anche perché - evidentemente - non volevano aver nulla a che fare con le strutture in cui erano ricoverati i miserabili di allora.

 

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