Prospettive assistenziali, n. 143, luglio-settembre 2003

 

 

contratti vessatori: una ordinanza del tribunale di torino molto negativa

 

Anche alla luce di eventuali altre iniziative nei confronti di Ipab, istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, abbiamo chiesto all’avvocato Michele Fardin di Genova di esaminare l’ordinanza emessa dal giudice Giacomo Oberto del Tribunale di Torino in data 28 febbraio 2001 e di seguito pubblichiamo il commento che gentilmente ci ha inviato.

Il provvedimento, anch’esso riprodotto integralmente più avanti, era stato assunto a seguito della contestazione del regolamento dell’Ipab “Opera Pia Convalescenziario alla Crocetta”, avanzata dal Presidente della sede regionale piemontese della Federconsumatori.

Infatti, era stata ritenuta vessatoria, ai sensi dell’articolo 3 della legge 281/1998 “Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti”, la dichiarazione che doveva essere sottoscritta dai familiari degli anziani cronici non autosufficienti per poter ottenere il loro ricovero nei reparti dell’Ipab torinese, in cui veniva imposto di:

a) versare la parte della retta non coperta dal ricoverato con i propri redditi;

b) provvedere al pagamento della retta giornaliera alle condizioni stabilite unilateralmente dall’ente;

c) assumersi l’obbligo del trasferimento del loro congiunto qualora la decisione fosse, anche in questo caso, decisa unilateralmente dall’Ipab.

Fra i comportamenti lesivi degli interessi degli utenti, veniva altresì contestato l’aumento della retta alberghiera da 60 mila lire a 75.000 attuato nel 1998 con un incremento di ben il 25%.

A sostegno della propria tesi, la Federconsu­matori ricordava le norme del decreto legislativo 130/2000, in base alle quali le prestazioni sociali fornite a soggetti ultrasessantacinquenni non autosufficienti devono tenere in considerazione esclusivamente la loro situazione economica e personale.

Da parte nostra, ricordiamo che, nonostante il carattere esclusivamente negativo della sentenza, il Csa, Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base, ha ottenuto dal Comune di Torino (1) e da molti altri enti locali del Piemonte e di altre regioni, l’approvazione di delibere conformi alla vigente normativa che non consente agli enti pubblici di pretendere contributi economici dai parenti non conviventi di assistiti maggiorenni e, per quanto riguarda i soggetti con handicap in situazione di gravità e gli ultrasessantacinquenni non autosufficienti, nemmeno dai congiunti conviventi.

 

Commento di Michele Fardin

Con ricorso in via cautelare ex art. 1469 sexies c.c., depositato in data 2 febbraio 2001, la Federconsumatori adiva il Tribunale torinese al fine di ottenere l’inibitoria nell’utilizzazione, da parte dell’Ipab Opera Pia  Convalescenti alla Crocetta, nella modulistica da questa utilizzata per la conclusione dei contratti con gli utenti del servizio, della facoltà di applicare le clausole contenenti le seguenti condizioni: «In caso di aumento della retta, il sottoscritto assume altresì l’impegno, permanendo l’ospitalità del/la Sig……, Cod. Fisc……, presso l’Opera pia di provvedere al pagamento della retta nella maggiore somma stabilita. Il sottoscritto assume infine l’obbligo di trasferimento del/la Sig… qualora codesta amministrazione ritenesse di non poterlo/a più ospitare … omissis…».

Il vizio lamentato dall’Associazione dei consumatori ricorrente si incentra sulla possibilità, per l’Ipab convenuta, di modificare unilateralmente l’importo della retta sulla scorta della riferita previsione pattizia, imponendo aumenti cui il contraente è tenuto a sottostare, senza che gli stessi siano dettagliatamente giustificati  e oggetto di specifica trattativa tra le parti.

Il Tribunale di Torino dichiara inammissibile il ricorso (2), ritenuta inapplicabile alle Ipab, la normativa di cui all’art. 1469-bis c.c. e ss. in tema clausole vessatorie, stante l’impossibilità di riconoscere alla stessa la qualità di “professionista”, e condanna la ricorrente Federconsumatori alla rifusione delle spese di lite nei riguardi della parte resistente, liquidate in complessive lire 12.000.000.

Le conclusioni cui perviene la pronuncia in esame non paiono allo scrivente condivisibili, sia con riguardo alle motivazioni logico-giuridiche poste a suo fondamento, sia in riferimento alla disciplina legislativa riguardante le Ipab, come positivamente disegnata dal legislatore con l’art. 10 della legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi  e servizi sociali), e, da ultimo, con il decreto legislativo 4 maggio 2001, n. 207 (Riordino del sistema delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, a norma dell’art. 10 della legge 328/2000).

Per quel che concerne il primo profilo di valutazione, l’ordinanza in commento si fonda su una rigida interpretazione dell’art. 1469 bis del codice civile, a mente del quale «nel contratto concluso tra il consumatore e il professionista, che ha per oggetto la cessione di beni o la prestazione di servizi, si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto… omissis…».

Il comma II della citata norma fornisce la definizione di consumatore e di professionista: «In relazione al contratto di cui al primo comma, il consumatore è la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta. Il professionista è la persona fisica o giuridica, pubblica o privata, che, nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale, utilizza il contratto di cui al primo comma».

Il Tribunale torinese rinviene l’impossibilità di riconoscere nella Ipab resistente la qualità di professionista, con un laconico richiamo agli artt. 2229 ss. c.c. sulle professioni intellettuali, attesa anche l’assenza, nel profilo costituivo della stessa, dello scopo di lucro, individuato quale indice rivelatore, nel contraente “professionista”, del requisito riferito all’“imprenditore” (art. 2082 c.c.), necessario alla applicabilità delle norme sulle clausole vessatorie, poste a tutela del consumatore.

Occorre a questo punto porre in rilievo la portata delle definizioni di “consumatore” e di “professionista”, concentrando l’attenzione sugli elementi oggettivi della fattispecie qualificatoria: sia il consumatore sia il professionista vengono infatti selezionati per un particolare rapporto tra il contratto sottoposto a sindacato e l’attività nel quale esso si colloca.

L’elemento imprescindibile per accedere alla tutela di cui agli artt. 1469 bis e ss. c.c. si  ravvisa quindi nello squilibrio tra le parti del rapporto contrattuale, ove una è contraente abituale in quel settore, l’altra occasionale.

Il tratto caratterizzante della normativa sulle clausole vessatorie è quello della tutela del contraente c.d. “debole”, ritenuto dal legislatore l’aspetto primario e prevalente, rispetto altre diversità strutturali, che diversificano le condizioni generali dei moduli e dei formulari.

Come chiaramente espresso dalla giurisprudenza di merito (Tribunale di Palermo, ordinanza 15 settembre 2000, in Resp. Civile e Prev., 2001, 1036), «Appare evidente che il legislatore ha voluto includere nella nozione di professionista non solo chi svolge un’attività imprenditoriale al fine di produrre reddito, ma anche il soggetto – pubblico o privato – che esercita attività di prestazione di servizi e cessione di beni, avvalendosi di una struttura stabile e duratura. Il termine professionista deve pertanto intendersi in contrapposizione al concetto di “occasionalità”, a chi cioè esercita l’attività di prestazione di servizi e cessione dei beni senza un apparato organizzativo durevole. La disciplina dovrà essere sottoposta ad una interpretazione estensiva, potendo clausole vessatorie essere predisposte anche da un soggetto giuridico che eserciti la propria attività senza fini di lucro» (G. Romagnoli, Clausole vessatorie e contratti di impresa, 1997, Padova).

Lo scopo di lucro, secondo la tesi qui riferita, è dunque circostanza che nulla immuta in ordine alla natura del soggetto. Lo status della parte contrattuale è destinato a rimanere refrattario non solo, come espressamente previsto dalla normativa, alla natura pubblica o privata del contraente, ma anche allo scopo commerciale, finanziario, liberale cui l’ente impronta la propria attività (in questo senso Lorenzo Bertino, “Ente pubblico non economico e la qualifica di professionista ai sensi dell’art. 1469 bis c.c.”, in Resp. Civile e Prev., 2001, 1041 e ss.).   

In sostanza, il richiamo contenuto nell’Ordinanza del Tribunale di Torino in ordine all’impossibilità di riconoscere nella Ipab resistente la qualità di soggetto che eserciti professionalmente un’attività economica (cioè avente scopo di lucro) organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, in riferimento al dettato degli articoli 2082 e 2229 e ss. c.c., non sembra essere il presupposto logico-giuridico (o quantomeno, l’unico aspetto di valutazione) atto a giustificare le prese conclusioni.

Proprio con riferimento all’attività professionale e imprenditoriale, giova sottolineare come l’attività imprenditoriale deve essere organizzata e condotta con metodo economico ed esercitata in via abituale e non occasionale, laddove l’esercizio di una professione intellettuale è professionalmente esercitato in modo duraturo e sistematico, anche se non necessariamente continuativo.

Tale rilievo permette di enucleare l’elemento imprescindibile della professionalità. Richiesta dal dato normativo, nella abitualità dell’accesso ad una determinata attività; lo svolgimento abituale della stessa permette infatti al professionista così come all’imprenditore l’apprendimento di cognizioni di cui il contraente occasionale è privo.

Gli stessi pertanto si qualificano quali “contraenti forti”, laddove il consumatore, proprio in ragione della richiamata “occasionalità”, assume la veste di contraente debole.

In questa ottica risulta quindi ininfluente, nella configurazione giuridica del professionista, che questi svolga la propria attività con fine lucrativo o con metodo economico; lo scopo di lucro non costituisce elemento essenziale per configurare l’attività di impresa (così Lorenzo Bertino, cit., p. 1045).

Attenta dottrina rileva poi come il concetto di lucro, che non può mancare nella nozione di imprenditore, deve però essere considerato in senso oggettivo e non soggettivo e, per questa ragione, possono essere inquadrate nella categoria prevista dall’art. 2082 c.c. anche le imprese aventi uno scopo mutualistico e le imprese pubbliche.

È imprenditoriale infatti quella attività economica, organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, che sia di per sé idonea a rimborsare i fattori della produzione impiegati mediante il corrispettivo di ciò che si produce o si scambia, anche se chi lo esercita persegua uno scopo ideale o altruistico, rimanendo al di fuori dell’ambito così enucleato solamente quella attività svolta da chi eroga gratuitamente beni o servizi (in questo senso si veda, in motivazione, Cassazione, 14/06/1994 n. 5766, in Giustizia civile, 1995, I, 187).

Alla luce di quanto sin qui esposto, pare potersi dare risposta affermativa alla vexata questio relativa alla possibilità di ricondurre nella figura del professionista ex art. 1469 bis, comma II, c.c., un ente pubblico che conclude contratti con i consumatori nell’esercizio di un servizio pubblico senza il perseguimento di un obiettivo lucrativo, e ciò con precipuo riferimento alla ratio della richiamata normativa, volta alla tutela del consumatore quale contraente debole.

Nel caso di specie, oggetto della pronuncia del Tribunale di Torino, le clausole contenute nel contratto utilizzato dalla Ipab debbono rientrare nella tutela apprestata dagli artt. 1469 bis e 1469 ter c.c., laddove il significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto si individua nella sperequazione delle posizioni giuridiche che si determina a carico del consumatore privo di potere contrattuale, a fronte della posizione “forte” del professionista, cui è consentito modificare unilateralmente le condizioni del contratto medesimo.

Chi fruisce del servizio  di assistenza e ricovero di una persona anziana o comunque non autosufficiente, versa oggettivamente in una situazione di necessità cui non può certo essere contrapposta la facoltà unilaterale, da parte dell’ente erogatore del servizio, di aumentare la retta mensile di ricovero, senza giustificazione alcuna dei maggiori oneri richiesti al contraente, cui viene incondizionatamente richiesto di adempiere (contraente che, nel caso di specie, non è direttamente il ricoverato.

Si veda sul punto: “Ancora sul pagamento delle rette di ricovero a carico dei parenti. Errare humanum est, perseverare diabolicum” di Massimo Dogliotti, in questa rivista, n. 138, 2002, p. 11.

La ratio della normativa, volta alla tutela del contraente debole, deve trovare applicazione anche nei contratti stipulati dalle Ipab, atteso che, come sopra ampiamente evidenziato, l’assenza di lucro e la qualifica di ente pubblico non sono ex se elementi tali dal sottrarre le stesse dall’applicazione della normativa sulla vessatorietà delle clausole contrattuali.

Tali clausole pertanto, al fine della loro valida inserzione nel complesso delle norme contrattuali, dovranno essere oggetto di specifica approvazione scritta e riferibili ad una trattativa individuale come richiesto dal combinato disposto degli artt. 1341, 1342 e 1469 ter del codice civile.

In difetto, le stesse non potranno che considerarsi vessatorie e, conseguentemente, andranno ritenute inefficaci, secondo il disposto dell’art. 1469 quiquiens c.c.

Le conclusioni di cui sopra trovano un loro riscontro normativo anche nella stessa disciplina legislativa che norma le Ipab.

Con la legge 8 novembre 2000 n. 328, all’art. 10, il legislatore ha dettato i principi e i criteri ispiratori della riforma delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, all’interno del nuovo welfare, ponendo particolare accento:

a) sull’inserimento delle Ipab che operano in campo socio-assistenziale nella programmazione regionale del sistema integrato dei servizi sociali di cui all’art. 22 della legge;

b) sulla trasformazione della forma giuridica delle Ipab, al fine di garantire l’obiettivo di una efficace ed efficiente gestione, assicurando autonomia statutaria, contabile, gestionale e tecnica, compatibile con il mantenimento della personalità giuridica pubblica, adottando forme gestionali di carattere privatistico in ordine al personale e alla contrattualistica;

c) nel prevedere la possibilità della trasformazione delle Ipab in associazioni o fondazioni di diritto privato.

Il decreto legislativo 4 maggio 2001 n. 207, attuativo del citato articolo 10 della legge 328/2000, riconduce le nuove Ipab a due diverse tipologie: quelle che mantengono la personalità giuridica di diritto pubblico, denominate aziende pubbliche di servizi alla persona e quelle che abdicano definitivamente a tale tipo di personalità giuridica, accedendo quindi alla depubblicizzazione (associazioni o fondazioni di diritto privato).

Il legislatore delegato ha così indicato, per le Ipab che manterranno la personalità giuridica di diritto pubblico, il modello aziendale, onde meglio rispondere a  quel diritto all’assistenza, inteso come diritto del cittadino a fruire dell’erogazione di servizi sociali di qualità, cui deve tendere il nuovo welfare.

In particolare, l’art. 6 del decreto legislativo 207/2001, prevede come «nell’ambito della sua autonomia, l’azienda pubblica di sevizi alla persona può porre in essere tutti gli atti ed i negozi, anche di diritto privato, funzionali al perseguimento dei propri scopi istituzionali e all’assolvimento degli impegni assunti in sede di programmazione regionale».

La Regione Piemonte, nella bozza di legge regionale per la disciplina del nuovo assetto delle Ipab definisce all’art. 6 l’autonomia dell’azienda pubblica di servizi alla persona nei seguenti termini: «L’azienda non ha fini di lucro, ha personalità giuridica di diritto pubblico, autonomia statutaria, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica, ed opera con criteri imprenditoriali… omissis… Nell’ambito della propria autonomia, l’azienda può porre in essere tutti gli atti e i negozi, anche di diritto privato, funzionali al perseguimento dei propri scopi istituzionali… omissis…».

Anche la normazione regionale, nel solco di quella tracciata dal legislatore delegato, si indirizza nel riconoscere alle Ipab trasformate in azienda pubblica di servizi alla persona quelle caratteristiche operative di carattere imprenditoriale, considerate maggiormente rispondenti ad una corretta e puntuale allocazione dei servizi cui la stessa è preposta. A tale intendimento certo non può sacrificarsi la tutela del soggetto fruitore dell’erogazione dei servizi socio-assistenziali, anche nella sua qualificazione di contraente “debole”, come sopra evidenziato.

Alla luce di quanto esposto, merita particolare critica la quantificazione della condanna alle spese di giudizio (12.000.000 delle “vecchie” lire, pari a euro 6.197,48) che, nella  sua eccessiva consistenza, parametrata alle disposizioni del codice di procedura civile in merito alla soccombenza, pare quasi voler sanzionare una sorta di “temerarietà” dell’instaurato giudizio ad opera dell’associazione di consumatori ricorrente, con un effetto di “scoraggiamento” verso ulteriori tentativi di adire in via cautelare l’Autorità giudiziaria.

La condanna alle spese come liquidata dal giudice torinese non sembra tenere nella dovuta considerazione la natura stessa del ricorrente, quale ente esponenziale espressione di interessi collettivi, che si fa portatore di una istanza di tutela e di coerente applicazione della normativa sostanziale a difesa del consumatore, chiedendo una puntuale applicazione della stessa.

Inoltre, come già evidenziato nelle pagine di questa rivista (“I livelli essenziali di assistenza: riduzione della spesa sanitaria e nuova emarginazione” di Mauro Perino, n. 137, 2002, p. 4 e ss.) l’azione in sede giudiziaria fornisce concreta attuazione a quella esigenza, espressa dall’art. 1, comma VI, della legge 328/2000, di «omissis… partecipazione attiva per il raggiungimento dei fini istituzionali di cui al comma 1» della legge ove si legge, testualmente: «La Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza… omissis…».

Alla luce della qui prospettata panoramica, sia legislativa, sia giurisprudenziale, sia dottrinaria, sembra, invero, che l’applicazione estensiva della legislazione sulle clausole vessatorie, risponda proprio a tale esigenza di tutela e di non discriminazione. Tanto più, che i riferimenti giurisprudenziali posti dal Tribunale di Torino a fondamento del provvedimento qui analizzato, collocabili in un contesto storico e sociale riferibile a  decenni or sono, non paiono più sostenibili, anche in ragione delle numerose evoluzioni normative frattanto intervenute.

Anche se la posizione emergente dalla commentata ordinanza, pur nell’assorbenza delle considerazioni che precedono, dovesse trovare ulteriori conferme, un diverso approccio avverso l’illegittimità della clausola contrattuale de qua può rinvenirsi nell’analisi dei principi generali in tema di determinazione dell’oggetto del contratto, ex art. 1346 del codice civile, prescindendo, quindi, dalla qualificazione soggettiva,  di professionista e di consumatore, individuata quale presupposto per l’applicazione della disciplina sulle clausole vessatorie.

Infatti, è principio pacifico in giurisprudenza quello secondo il quale la determinazione o rideterminazione, nella vigenza del rapporto, dell’oggetto del contratto, rimessa alla libera scelta di uno solo dei contraenti, ed imposta alla controparte, rende nullo il contratto stesso; in tale ipotesi di determinazione unilaterale dell’oggetto contrattuale si pone infatti l’esigenza di tutelare la parte esposta all’arbitrio del soggetto determinante (Cendon, Commentario al codice civile, Utet, 1999-2001, sub art. 1346 c.c.).

Le cause di nullità che investono solo singole clausole del contratto, comportano la loro nullità, ma la stessa non si comunica all’intero corpus contrattuale, se risulta che le dette clausole non erano essenziali, tali per cui le parti non avrebbero concluso il contratto senza di esse (art. 1419, comma I, c.c.).

Nel caso di specie, la clausola viziata investe il solo profilo della rideterminazione della prestazione di un contraente, per cui la sua nullità con riverbera sull’intero contratto, che potrà conservare la sua efficacia obbligatoria tra le parti. La clausola espunta dall’accordo dovrà essere sostituita con una regolamentazione che  tenga conto di una corretta determinazione delle prestazioni di ciascuna parte nel corso dello svolgersi del rapporto medesimo.

Tali principi ed argomentazioni sono stati recepiti dalla giurisprudenza sia di legittimità sia di merito, laddove trovano chiara attestazione in due recenti pronunce della Corte di Cassazione. In tema di contratto d’agenzia, i Supremi Giudici hanno sanzionato con la nullità per indeterminatezza dell’oggetto la clausola di un contratto d’agenzia (Cassazione Sezione Lavoro, 8/11/1997, n. 11003) che prevedeva la possibilità, per il preponente, di modificare unilateralmente, con il solo onere del preavviso, le tariffe provvisionali, «omissis… dovendo escludersi che la determinazione di un elemento essenziale del contratto (quale la controprestazione dell’attività dell’agente, costituita dalle provvigioni) sia rimessa al mero arbitrio del preponente… omissis…».

Ancora più incisivamente la Suprema Corte si è espressa stabilendo come: «In tema di concessione di immobile del demanio, la previsione contrattuale che autorizzi la modificabilità unilaterale del corrispettivo non soddisfa il requisito della determinabilità dell’oggetto del contratto ex art. 1346 e 1418 c.c. e ciò stante la mancanza di indicazione di alcun criterio od elemento atto a stabilire il metodo di liquidazione definitiva del canone» (Cassazione Sezione I, 12/04/2002, n. 5281).

La controprestazione del contraente non è quindi suscettibile né di determinazione né di modificazione unilaterale, rimesse al mero arbitrio dell’altra parte, pena lo squilibrio del sinallagma contrattuale, sanzionato con la nullità della clausola che lo contempla.

La ratio espressa dalla giurisprudenza di legittimità nell’interpretazione del requisito della determinazione dell’oggetto del contratto, così come correttamente sopra individuata, ben può richiamarsi nel caso di specie.

Nel rapporto contrattuale intercorrente tra la prestazione resa dall’Ipab (ricovero e assistenza del soggetto degente) e la controprestazione cui si obbliga il contraente privato (pagamento della retta), quest’ultima viene unilateralmente determinata dal soggetto (Ipab) predisponente il contratto, che può maggiorare la somma inizialmente pattuita per l’erogazione del servizio.

Anche per questa via ritengo pertanto che si possa concretamente censurare una regolamentazione contrattuale come quella invalsa nella modulistica utilizzata dall’Ipab convenuta nel giudizio conclusosi con la commentata ordinanza.

 

 

(1) Il Comune di Torino ha esonerato i parenti degli anziani non autosufficienti dal versamento di contributi economici, Prospettive assistenziali, n. 133, 2001. Anche il Comune di Milano ha assunto analoga iniziativa, Ibidem, n. 139, 2002.

(2) Il testo integrale dell’ordinanza del giudice Giacomo Oberto del Tribunale di Torino votata il 1° marzo 2001, è il seguente:

«Letto il ricorso depositato il 2 febbraio 2001 dalla Federconsumatori, in persona del suo Presidente, assegnato al Magistrato designato il 5 febbraio 2001;

- Visti gli allegati documenti;

- Visto il proprio provvedimento emesso in data 7 febbraio 2001;

- Letta la memoria difensiva della Ipab Opera Pia Convalescenti alla Crocetta, depositata il 26 febbraio 2001 e visti gli allegati documenti;

- Uditi i legali delle parti all’udienza del 28 febbraio 2001;

- Visti gli artt. 669-ter, 669-sexies, 669-septies c.p.c., 1469-sexies c.c.;

- Rilevato che, con il ricorso in esame, la Federconsumatori ha chiesto inibirsi alla parte resistente, nell’utilizzazione della modulistica in atti, la facoltà di applicare le clausole contenenti le seguenti condizioni: “In caso di aumento della retta, il sottoscritto assume, altresì l’impegno permanendo l’ospitalità del/la Sig…, Cod.  Fisc…, presso l’Opera Pia di provvedere al pagamento della retta nella maggiore somma stabilita. Il sottoscritto assume, infine, l’obbligo del trasferimento del/la Sig…, qualora codesta Amministrazione ritenesse di non poterlo/a più ospitare. Il trasferimento dovrà avvenire entro giorni trenta dalla comunicazione dell’Opera Pia”, inserite nel modulo predisposto dalla parte resistente fatto sottoscrivere ai terzi all’atto del ricovero, per effetto del richiesto accertamento del carattere – secondo parte ricorrente – vessatorio, con pubblicazione del provvedimento a spese della resistente sui quotidiani a maggiore diffusione locale;

- Rilevato che, ex art. 1469-bis, primo comma, c.c. possono ritenersi vessatorie solo quelle clausole che siano state inserite “nel contratto concluso tra il consumatore e il professionista”;

- Rilevato che, ex art. 1469-bis cpv. c.c. “Il professionista è la persona fisica o giuridica, pubblica o privata, che, nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale, utilizza il contratto di cui al primo comma”; 

- Ritenuto che, avuto riguardo alla natura della parte resistente, Istituzione pubblica di assistenza e beneficenza (secondo quanto ammesso dalla stessa parte ricorrente) senza scopo di lucro, appaia impossibile – sulla base delle risultanze probatorie versate in atti – riconoscere alla parte resistente la qualità di soggetto che eserciti professionalmente un’attività economica (cioè avente scopo di lucro) organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi (cfr. art. 2082 c.c.);

- Ritenuta altresì l’impossibilità – sempre sulla base delle risultanze probatorie versate in atti – di riconoscere nella Ipab resistente la qualità di professionista (cfr. artt. 2229 ss. c.c.);

- Rilevato che, secondo la giurisprudenza di merito, la legittimazione passiva di un ente pubblico in relazione alla domanda cautelare ex art. 1469-sexies c.c. viene riconosciuta solo allorquando si ritenga provato che il medesimo svolge attività avente scopo di lucro (cfr. Trib. Roma, 31 luglio 1997, in Vita not., 1997, p. 1345; Trib. Roma, 20 agosto 1997, in Vita notar., 1997, p. 1345, Trib. Roma, 22 agosto 1997, in Nuova giur. Civ. comm., 1999, I, p. 247, in relazione all’ipotesi di attività di organizzazione di concorsi pronostici);

- Rilevato, d’altro canto, che le conclusioni di cui sopra sembrano ricevere conforto dalla giurisprudenza di legittimità, che nega – di regola – alle Ipab la natura di comprenditore, facendo ricadere la competenza in ordine alle relative controversie di lavoro sotto la competenza del giudice amministrativo (in epoca, ovviamente, anteriore alla recente attribuzione delle controversie del pubblico impiego al Giudice Ordinario): cfr. Cass., Sez. Un., 6 aprile 1962, n. 728 (“un ente pubblico può qualificarsi economico solo se esso, agendo nel campo economico, esplichi, come imprenditore, un’attività che non solo si trovi o possa trovarsi in concorrenza con l’analoga attività di altri imprenditori, ma che soprattutto rappresenti, non un mezzo necessario per la diretta realizzazione di un fine pubblico, sebbene un semplice mezzo per conseguire dei lucri partecipando alla vita degli affari. Tali condizioni non si rinvengono negli enti comunali di assistenza istituiti in ogni comune con legge n. 847 del 1937, in sostituzione delle congregazioni di carità, e la cui attività risulta esclusivamente diretta, non già al conseguimento di lucri, ma all’adempimento del compito di assistenza e beneficenza, che è loro attribuito e che costituisce uno dei più importanti fini sociali dello Stato. Ne consegue che le controversie relative al rapporto d’impiego di un dipendente dei predetti enti rientra nella competenza del giudice amministrativo”),  Cass., Sez. Un., 12 giugno 1979, n. 3300 (“La casa albergo per persone anziane di Albino, la quale, derivando dalla pia casa di ricovero di Albino, configura un istituto decentrato del locale ente comunale di assistenza, ha natura di ente pubblico non economico, in quanto, con organizzazione non imprenditoriale e senza fini di lucro, svolge attività di interesse generale nel campo dell’assistenza e beneficenza. Pertanto le prestazioni lavorative subordinate, effettuate in favore di detta casa con retribuzione predeterminata e continuità, ancorché a tempo determinato, nonché in forza di atto di nomina ed in correlazione con gli indicati scopi sociali della datrice di lavoro, integrano un rapporto di pubblico impiego, con la conseguenza che le controversie ad esso inerenti sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”);

- Ritenuto pertanto, preliminarmente, il difetto di legittimazione passiva in capo alla Ipab Opera Pia Convalescenti alla Crocetta;

- Ritenuta, conseguentemente, l’inammissibilità del ricorso cautelare;

Dichiara inammissibile il ricorso;

Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite nei riguardi della parte resistente; spese che liquida in complessive Lire 12.000.000».

 

 

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