Prospettive assistenziali, n. 142, aprile-giugno 2003

 

 

Notiziario dell’Unione per la tutela degli insufficienti mentali

 

 

NO ALLE CONTRIBUZIONI A CARICO DEI PARENTI DI SOGGETTI CON HANDICAP GRAVE

 

Il 14 marzo 2003 è stato presentato alle associazioni che si occupano di servizi sociali e assistenza il bilancio previsionale del Comune di Torino per l’anno in corso, riguardante l’Asses­sorato ai servizi sociali. L’Assessore ha promesso che per quest’anno gli investimenti non diminuiranno, ma ha anche  adombrato, fra l’altro, la possibilità di chiedere ai parenti degli handicappati intellettivi gravi una qualche forma di compartecipazione, non meglio specificata nel modo, ai costi dei centri diurni e delle comunità alloggio. Il presidente dell’Utim in tale occasione è intervenuto su quest’ultimo argomento con le parole di seguito riportate.

 

Conosco una famiglia con un bambino che frequenta una scuola materna a cui è richiesta, secondo il reddito, una retta per la mensa. La retta non copre assolutamente il costo del servizio, ma il Comune si guarda bene dal chiedere la differenza ai nonni, anche se ciò sarebbe possibile secondo l’art. 148 del codice civile (1).

Conosco una famiglia composta da due pensionati che ogni anno si recano in soggiorni estivi organizzati dal Comune. Il costo del soggiorno non viene interamente coperto dal contributo richiesto ai due pensionati, ma nessuno si è mai sognato di chiedere ai figli benestanti la differenza tra quello che costa il soggiorno e quello che possono pagare loro.

Conosco due coniugi pensionati ad uno dei quali la pensione è integrata al minimo (avrebbe diritto per i contributi versati a circa 100 euro ma viene integrata fino a 402,00 euro con un aumento quindi di 302,00 euro al mese). I due possiedono un alloggio in comunione dei beni. I figli non sono ricchi ma hanno un reddito, diciamo così, superiore alla media. Ebbene nessuno si scandalizza se lo Stato integra di 302 euro al mese la pensione al coniuge che avrebbe diritto ai soli 100 euro maturati. Né allo Stato interessa sapere se i figli potrebbero o no contribuire al sostegno della loro madre. Integra e basta.

Conosco anche una famiglia che ha un figlio handicappato intellettivo grave. A seguito di quella nascita la moglie, che era quella con un reddito minore, ma non solo per quel motivo,  ha lasciato il lavoro. Per curarlo hanno investito tutto su lui, rinunciando a parecchi di quei beni che molti di noi ritengono necessari. In seguito, forse anche grazie all’inserimento del figlio handicappato in un centro diurno, la madre ha ricominciato a lavorare e da allora entrano in casa un po’ più di soldi. Pensate che talvolta si possono permettere una uscita al ristorante, al cinema, ma più spesso di comprare per il loro figlio un paio di scarpe in più di quelle che passa la Asl, un vestito un po’ più bello perché anche a questi figli piace, se possono, vestirsi bene e soprattutto piace ai loro genitori vederli in ordine; qualche volta, molto di rado, vanno persino in vacanza in qualche albergo senza barriere architettoniche (che sono pochi e cari, a partire da tre stelle in su). A queste famiglie è stato sempre espresso, da leggi e da amministratori, comprensione e sostegno.

Pensate che la legge 328/2000 con l’art. 25 ribadisce, forse temendo che non fosse già abbastanza chiaro per certi amministratori, che per l’accesso ai servizi si deve fare riferimento al decreto legislativo 109/1998 come modificato dal decreto legislativo 130/2000 che prevede che per la frequenza del centro diurno oggi, se c’è ancora chi se ne prende cura, e delle comunità alloggio domani, l’unico reddito di cui bisogna tenere conto è quello del richiedente.

Ora l’Assessore ci dice che a questi parenti bisogna chiedere una compartecipazione per mantenere il livello di prestazioni che la città fornisce. Sono senz’altro d’accordo nel mantenere anzi migliorare la quantità e la qualità che la città fornisce, ma ritengo illegittimo e moralmente sbagliato chiedere ai parenti che si facciano carico di un peso economico aggiuntivo a quello che già sostengono, senza parlare di tutto il resto.

Consiglio, quindi, agli amministratori di iniziare ad eliminare sprechi e costi eccessivi di cui sempre più spesso si ha notizia dai giornali, di concentrare le spese su ciò che si ritiene indispensabile prima di spendere in orpelli e gioielli. Ritengo che la domanda da porci è se vogliamo o no riconoscere a questi cittadini il diritto di vivere dignitosamente. Ad esempio, perché non aumentare l’aliquota Ici per recuperare risorse necessarie a garantire servizi essenziali alla sopravvivenza per questi cittadini?

Noi dell’Utim non possiamo far altro che opporci decisamente a una ipotesi illegittima e persecutoria di compartecipazione da parte dei parenti.

 

 

(1) Il primo comma dell’articolo 148 del codice civile stabilisce quanto segue: «I coniugi devono adempiere l’obbligazione prevista nell’articolo precedente (obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole, n.d.r.) in proporzione alle rispettive sostanze e secondo le loro capacità di lavoro professionale o casalingo. Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti legittimi o naturali, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli».

 

 

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