Prospettive assistenziali, n. 141, gennaio-marzo 2003

 

 

Notizie

 

 

VALIDE CONSIDERAZIONI SULL’INVECCHIAMENTO

 

Nella relazione tenuta al convegno “Costruiamo il futuro: una assicurazione sociale di cura per le persone non autosufficienti”, tenutosi a Milano il 3 maggio 2002, il geriatra Giambattista Guerrini ha avanzato alcune considerazioni della massima importanza sull’invecchiamento, che dovrebbero essere considerate la base imprescindibile per una corretta impostazione degli interventi da predisporre nei riguardi degli anziani cronici non autosufficienti.

In primo luogo ha rilevato che «è un dato ormai acquisito che l’invecchiamento della popolazione – fenomeno particolarmente significativo nel nostro Paese – si è accompagnato ad una sorta di spostamento in avanti della soglia stessa dell’età anziana. La vecchiaia biologica non coincide più con la vecchiaia sociale».

Pertanto «ogni discorso sulla vecchiaia e soprattutto sulla malattia e la dipendenza come condizioni che alla vecchiaia sono associate, in termini di aumentato rischio, non può più fare riferimento ai 65 anni, ma almeno ai 75 anni (e solo a questa fascia di età mi riferirò nel mio intervento). E solo al di sopra di questa età infatti che aumenta la “fragilità” delle condizioni di salute e diventa significativo il rischio di perdere la propria autonomia, come conferma anche una recente ricerca condotta dall’Irer sulla popolazione anziana della Lombardia» (1).

Dunque «le previsioni terroristiche di una demografia catastrofica possono ridimensionarsi: se come area della vecchiaia “a rischio” di dipendenza consideriamo gli ultimi 10 anni di vita della persona (come già nel 1985 suggeriva il Professor Antonini, accogliendo una riflessione del professor Blangiardo) il numero di “vecchi” non ha subìto negli ultimi decenni aumenti significativi».

Ne consegue che «la transizione demografica che stiamo vivendo e che prevedibilmente abbiamo di fronte ci autorizza ad ipotizzare una sostanziale stabilità del numero di soggetti anziani ad elevato rischio di dipendenza».

Dopo aver affermato la necessità di consistenti investimenti sulla prevenzione delle patologie cronico-degenerative, il Guerrini ha precisato che «la difesa e la promozione dell’autosufficienza devono diventare un obiettivo - se vogliamo, un parametro di riferimento - di tutto il complesso delle politiche sociali (la politica economica, quella abitativa, la cultura, la partecipazione, ecc.), dell’informazione e dell’istruzione, delle politiche urbanistiche (una città a misura di anziano, una città “dai ritmi rallentati”), della tecnologia e della ricerca, e così via».

Per il conseguimento degli obiettivi di cui sopra, il Guerrini ritiene che occorra ripensare «l’attuale modello di sanità, che appare del tutto inadeguato – tutto centrato com’è sull’intensività e sullo scambio di prestazioni – a rispondere alla patologia cronica, che richiede piuttosto un approccio estensivo e la costruzione di un progetto di cura condiviso da più soggetti con l’interessato ed i suoi familiari sviluppando alcune linee di fondo: approccio multidimensionale, continuità dell’intervento, integrazione socio-sanitaria, diversificazione, flessibilità e raccordo “in rete” dei servizi, sostegno alle reti informali».

 

 

IMPORTANTI PRECISAZIONI SULLA SPESA SANITARIA

 

«L’abitudine di gridare “al lupo, al lupo!”. Questo il diffuso atteggiamento di chi analizza il livello e la dinamica della spesa sanitaria pubblica in Italia. In realtà i dati indicano che non esiste alcun intrinseco fattore di allarme.

«È innanzitutto importante tenere presente che non esiste alcun parametro di riferimento rispetto al quale esprimere un giudizio assoluto. Il giudizio non può che essere formulato attraverso un confronto nel tempo e nello spazio.

«Cominciamo dai confronti internazionali. Se consideriamo i paesi con un livello di sviluppo simile al nostro, i dati dell’Oecd indicano che la quota di risorse destinata in Italia alla sanità pubblica è inferiore a quella della maggior parte dei paesi sviluppati (http://www.oecd.org/xls/ M00031000/M00031385.xls). Il rapporto spesa pubblica/Pil, pari a 5,9% nel 2000, è inferiore a quello della Germania (8%), della Francia (7,2%), della Danimarca (6,8%), della Norvegia (6,7%), della Svezia (6,6%), del Canada (6,5%), del Belgio (6,2%), della Svizzera (6%), del Giappone (5,9%).

«Si noti che gli Usa destinano alla sanità pubblica il 5,8% del Pil, una quota piuttosto rilevante se si tiene conto che i programmi pubblici hanno funzioni residuali, ovvero proteggono solo i poveri e gli anziani.

«Passiamo alla dinamica della spesa. Ancora una volta ci vengono in soccorso i dati Oecd i quali indicano che l’Italia è in controtendenza rispetto agli anni Novanta. A fronte infatti di aumenti quasi generalizzati (che in alcuni casi superano nel decennio il punto di Pil, si vedano Germania, Portogallo, Giappone, Usa e Svizzera) il nostro paese registra un drastico contenimento delle risorse destinate alla sanità pubblica, solo in parte mitigato dal recupero degli ultimi anni Novanta: si passa dal 6,4% del Pil nel 1990 al 5,9% nel 2000.

«Anche le proiezioni di medio e lungo periodo della Ragioneria Generale dello Stato (riprese nel Dpef 2003-2006 - pag. 55 - quale supporto tecnico alle ipotesi di intervento, http://www.dt.tesoro.it/Aree-Docum/Analisi-Pr/Documenti-/Documento-/Dpef-2003-2006.pdf) non sono allarmanti: fra 50 anni la quota di risorse assorbita dal Servizio sanitario nazionale sarà pari a 7,2 punti del Pil, un valore inferiore a quello attuale della Germania e pari a quello attuale della Francia!

«Quali allora le ragioni del diffuso allarme per la spesa sanitaria?

«Le ragioni sono in gran parte esterne al sistema sanitario e sono riconducibili, da un lato, allo stato della finanza pubblica (che impone un faticoso percorso di risanamento) e, dall’altro, alla maggiore difficoltà, tecnica e politica, degli altri settori di spesa a spostare il finanziamento dal pubblico al privato.

«Il grido di allarme sulla spesa sanitaria risponde quindi a esigenze per lo più estranee alle dinamiche della sanità, funzionali più a favorire un progressivo ridimensionamento dell’intervento pubblico nel settore sanitario che a contenerne i costi e a migliorarne l’efficacia».

(da Nerina Dirindin - www.lavoce.info)

 

 

RESPONSABILITÀ DEL GINECOLOGO PER L’OMESSO ACCERTAMENTO DELLE MALFORMAZIONI DEL FETO

 

Con la sentenza n. 6735 del 10 maggio 2002, la III Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione ha individuato la responsabilità di un ginecologo per il non corretto accertamento delle condizioni del feto e per la mancata formulazione di una diagnosi precisa.

Il procedimento ha avuto luogo a seguito della nascita di A., colpito dalla sindrome di Apert, caratterizzata da un gravissimo handicap permanente.

La presenza delle menomazioni doveva essere rilevata dal ginecologo, al quale la madre di A. si era rivolta per il controllo della gravidanza e del regolare sviluppo. Una tempestiva diagnosi prenatale avrebbe consentito alla donna di interrompere la gravidanza anche oltre il novantesimo giorno.

Non essendo stata fornita la dovuta informazione alla signora circa le gravi malformazioni del suo nato, alla donna è stato impedito di compiere la scelta dell’interruzione della gravidanza.

Dato che la responsabilità del ginecologo è di natura contrattuale, ne deriva - secondo la Corte di Cassazione - che il medico è tenuto al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali (stabiliti dalla Corte d’appello in 700 milioni di lire) subiti non solo dalla madre, ma anche dal padre.

La Corte Suprema di Cassazione ha confermato la validità delle affermazioni della sentenza di secondo grado in cui viene rilevato che «la nascita di un figlio, che ella saprà invalido al 100% per il resto della vita, continuamente bisognoso di cure per la sua stessa sopravvivenza, com’è descritta dai medici la sindrome da cui è affetto, è sicuramente un fatto tale da generare nella madre qualcosa di più della sofferenza e ribellione di cui parla il Tribunale, ma certamente un trauma psichico di notevole gravità. La legge stessa (art. 6 della n. 194/1978) prevede che “rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro” possono gravemente influire sulla salute psichica della donna e, nella specie, tali anomalie o malformazioni esistono e sono purtroppo estremamente rilevanti, mentre non manca il riscontro del danno per la salute psichica della madre, che ancora a distanza di sette anni dalla nascita del figlio gravemente menomato è stata riconosciuta affetta da sintomatologia depressiva profonda oltre ad altri disturbi di ordine psichico. Ben poteva, quindi, la M. ottenere il consenso medico all’interruzione della gravidanza se fosse stata correttamente informata dal professionista sulle malformazioni del figlio».

 

 

EUTANASIA PER LA MADRE DELL’EX PRIMO MINISTRO FRANCESE JOSPIN

 

Mirelle Jospin-Dandieu, madre dell’ex primo ministro Lionel Jospin, si è spenta il 6 dicembre 2002 per eutanasia.

A darne l’annuncio è un necrologio comparso su “Le Figaro” che non lascia dubbi.

Attivista dell’Associazione per il diritto a morire nella dignità, ha deciso serenamente di abbandonare la vita all’età di 92 anni.

Cordoglio è stato espresso dal presidente Jacques Chirac.

Il decesso è avvenuto nel suo domicilio di La Celle-Saint-Cloud, a ovest di Parigi.

 

 

UN ALTRO ACCORDO DEL CSA SULLA PIENA COMPETENZA DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE PER LA CURA DEGLI ANZIANI CRONICI NON AUTOSUFFICIENTI

 

Dopo gli accordi stabiliti dal Csa con l’Asl 4 di Torino, i Presidi sanitari Fatebenefratelli e San Camillo, nonché con la Casa di cura privata Villa Grazia (cfr. Prospettive assistenziali, n. 133, 137 e 140), una analoga intesa è intervenuta con l’Asl 3 di Torino come risulta dalla “Informativa sul trasferimento di anziani non autosufficienti in strutture riabilitative e di lungodegenza post-acuzie” che riportiamo integralmente.

«Com’è universalmente noto, la permanenza a casa loro o presso familiari di anziani cronici non autosufficienti e di malati di Alzheimer è estremamente positiva - non solo e principalmente - per quanto riguarda le condizioni psicologiche ma anche - quasi sempre - in merito al recupero della voglia di vivere e dello stato di salute.

«Nel caso in cui non siano realizzabili le cure domiciliari, l’Asl 3 provvederà ad attivare le procedure per il trasferimento del paziente in una delle strutture accreditate con il Servizio sanitario regionale per la funzione di riabilitazione oppure lungodegenza post-acuzie.

«Il trasferimento sarà preventivamente concordato con il paziente o con un congiunto dello stesso ed avrà luogo a cura e spese dell’Asl 3, previa comunicazione da effettuarsi almeno 24 ore prima, salvo motivi d’urgenza determinati dalla necessità di occupare il posto letto disponibile.

«Come previsto dalle vigenti disposizioni regionali, i presidi accreditati per la funzione di riabilitazione e lungodegenza post-acuzie forniscono ai pazienti tutte le necessarie prestazioni mediche, infermieristiche, riabilitative, assistenziali ed alberghiere.

«Sono, invece, a carico del paziente ricoverato le spese riguardanti la degenza in camere dotate di un elevato confort alberghiero, le bevande ed il vitto extra-pasti, le spese di utilizzo di telefono, radio e TV, nonché di tutto ciò che non abbia attinenza diretta con le prestazioni a carico del Servizio sanitario regionale.

«Qualora, al termine della degenza presso la casa di cura accreditata, non fosse realizzabile il ritorno del paziente al domicilio proprio o dei propri congiunti, l’Asl 3, se territorialmente competente in ragione della residenza del paziente, provvederà a garantire nell’ambito delle sue competenze la prosecuzione delle cure, prendendo contatto con l’interessato o, se questi non è in grado di programmare il proprio futuro, con un suo congiunto.

«Eventuali chiarimenti o reclami devono essere indirizzati all’Asl di residenza del paziente».

 

 

IL RICOVERO IN ISTITUTO NON CONSENTE AI MINORI DI DIVENTARE AUTONOMI

 

Ancora una conferma delle conseguenze negative del ricovero in istituto di fanciulli.

Sul n. 21, novembre 2002 di “Il Colibrì”, rivista trimestrale dell’omonima associazione, Padre Renato Chiera, dopo aver creato in Brasile la “Casa do menor”, vorrebbe anche, a causa delle sue non buone condizioni di salute, garantire il futuro dell’istituzione.

Al riguardo precisa che «il grande problema e la grande preoccupazione che abbiamo nella “Casa do menor” è il dopo “Casa do menor”. Questo deve essere il centro ed il fulcro dei nostri sforzi in questo momento. Mi spiego… la “Casa do menor” con i suoi oltre 120 collaboratori impiegati ha imparato in questi 15 anni di assistenza a togliere tanti ragazzi dalla strada, ha restituito loro la dignità di figli di Dio e di cittadini, ha dato loro valori, scuola, un mestiere, ha ricevuto riconoscimenti da più parti; ma quando questi adolescenti raggiungono i 18 anni e devono uscire dalla “Casa do menor”, inserirsi nel mondo del lavoro, costruirsi una casetta o affittare un piccolo spazio per vivere e guadagnarsi il necessario per costruire una famiglia, non ce la fanno. Non hanno l’appoggio di una famiglia alle spalle, non trovano lavoro, non sanno dove abitare, non guadagnano il necessario per vivere, si scoraggiano e non hanno nessuna prospettiva di futuro e alcune volte hanno già dei figli. Solo il narcotraffico, la strada e la microcriminalità si presentano come soluzione e molti corrono il rischio di ritornare ad un passato da cui erano faticosamente usciti».

Conclude Padre Renato: «È duro per me, per noi che li abbiamo aiutati a risorgere, incontrarli dopo alcuni mesi in carcere e sapere che sono ritornati nel narcotraffico o peggio, che sono stati uccisi con i circa 50 mila giovani assassinati ogni anno in Brasile».

Anche in questo caso viene confermata la validità di ciò che gli esperti sostengono da mezzo secolo: l’istituto fa male allo sviluppo armonico del fanciullo. Per  minori in difficoltà occorre, pensando al loro futuro e tenendo conto delle singole situazioni, aiutare il o i genitori, provvedere all’affidamento familiare a scopo educativo o all’adozione.

Solamente nei casi in cui non siano attuabili gli interventi sopra indicati, è necessario costituire comunità alloggio di 8-10 posti non accorpate fra di loro.

Un’esperienza in merito è perseguita da anni dalla Comunità presieduta da Don Oreste Benzi di Rimini, come abbiamo segnalato nell’articolo “L’intervento in Zambia della Comunità Papa Giovanni XXIII a sostegno dei minori senza famiglia”, Prospettive assistenziali, n. 125, 1999.

 

 

 

(1)     Irer, Anziani: stato di salute e reti sociali. Un’indagine diretta sulla popolazione della Lombardia, Guerrini e Associati, Milano, 2000.

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it