Prospettive assistenziali, n. 141, gennaio-marzo 2003

 

 

LE DRAMMATICHE VICENDE DI NONNA EMMA

giovanni grisotti

 

 

La mia mamma, Emma Omegna, del 1913, si accinge a varcare la soglia degli 87; così domenica 19 novembre 2000 si esce tutti assieme, la mia famiglia con la nonna, per andare a far visita a Tosca, una persona cara ed anziana anche lei che vive in campagna; la giornata scorre normale, si fa qualche battuta sull’età, la nonna dichiara di essere disponibile a presenziare ancora qualche meta familiare, ad esempio il termine degli studi dei nipoti, il loro matrimonio, e cosi via.

È proprio vero che il nostro attaccamento alle cose di questa terra è molto forte.

Al termine della giornata si fa ritorno a casa e ci si saluta, ben sapendo che il giorno successivo sarà comunque un giorno speciale, anche se festeggiato in anticipo, sarà il giorno del suo compleanno.

La mamma viveva da sola ed in piena autosufficienza, certo qualche acciacco dovuto all’età si manifestava, però nulla di preoccupante o particolarmente serio, la tempra forte di chi ha passato mille peripezie, le due guerre, la fame, gli stenti, le permetteva ancora di “dare una mano” alla mia famiglia in tante cose poi neanche tanto piccole.

Purtroppo nessuno immaginava che il 20 novembre 2000 inaspettatamente sarebbe successo l’irreparabile; l’abbiamo chiamata al telefono più volte nell’arco della giornata e non l’abbiamo mai trovata: questo non ci ha preoccupato più di tanto perché la mamma spesso usciva per fare spesa o semplicemente scendeva nel cortile della sua piccola casa per trafficare con i vasi o con il giardino o semplicemente per vedere a che punto di maturazione erano arrivati i cachi per poi decidere con me il giorno della raccolta.

Verso sera cominciando a preoccuparmi ho fatto una scappata a casa della mamma ed è allora che l’ho ritrovata incosciente, stesa a terra sul pavimento della sua cucina.

Fulminata da un ictus cerebri.

Fino ad allora era sempre stata la mia mamma anche se ogni giorno un po’ più vecchina di quello precedente, da quel momento in poi sarebbe diventata un’anziana non autosufficiente, con tutti i problemi che questo stato si porta dietro ed io purtroppo ancora non lo sapevo, ancora non conoscevo tutte le sfaccettature che questa condizione comporta. I primi soccorsi prestati dal 118 portano la mamma al Pronto soccorso dell’ospedale H. di Torino, dove appunto viene diagnosticato nel giro di qualche ora il probabile ictus cerebri e solo con il trascorrere delle ore successive si sarebbe potuto stabilire a quale livello, il danno prodotto dall’ictus, si sarebbe assestato.

La mamma rimane in osservazione al Dea - Dipartimento di emergenza e di accettazione, trascorrono le ore e verso la mezzanotte vengo invitato cortesemente a lasciare il Dea per tornare il mattino successivo, tanto non ci sono problemi, la mamma è monitorata e tranquilla, poi ci sono loro sempre lì a vigilare: posso stare tranquillo. Mi convinco e me ne vado a riposare qualche ora, purtroppo sono l’unico figlio vivente e dovrò occuparmi in prima istanza di tutte quelle che saranno le esigenze della mamma, è sacrosanto che sia così, quindi meglio dosare le risorse e cercare di conservarle per prossime necessità.

Al mattino successivo la prima sorpresinala mamma durante la notte è caduta dalla barella su cui era sistemata al Dea procurandosi la frattura del setto nasale ed una grossa ecchimosi al volto specialmente nell’area dell’arcata sopraccigliare sinistra.

Nessuno si era preoccupato di avvisarmi dell’accaduto e nessuno si preoccupava nemmeno più di tanto di quanto era successo, si trattava di una persona anziana e poi è proprio l’ictus che lascia così agitati…!!!

E dirlo la sera prima… anziché invitarmi ad andarmene, e sorvegliare meglio il degente… sapendo del rischio che si correva.

Preso dall’evoluzione delle situazioni e del tutto travolto da quello che era successo, non ho mai dato seguito a questo accaduto anche se sono stato più volte consigliato a farlo.

Il pomeriggio, del giorno 21 novembre, la mamma viene portata al reparto di neurologia del prof. B. distaccato all’ospedale Y., le condizioni sono stazionarie, il fastidio più grande è dovuto all’ecchimosi che la costringe a portare la sacca del ghiaccio legata con le garze, in uno stato di semi incoscienza.

Mi accorgo che al reparto dell’episodio della caduta al Dea non è stato trasmesso nulla; tutti sono convinti che si sia procurata il trauma facciale in seguito alla caduta dopo l’ictus; appena ne ho modo chiarisco l’equivoco spiegando le vere ragioni, tutti prendono atto e tutto finisce lì.

La mamma sembra recuperare in fretta, almeno così pare, in 2 o 3 giorni si riprende ed il primo danno evidente è lo stato di afasia totale che le impedisce di proferire parola ed una emiparesi che in ogni caso pare regredire velocemente.

Viene subito iniziata la terapia di rieducazione logopedica nel sottostante reparto di logopedia; la mamma ha modo di fare una prima seduta e forse una seconda, troppo poche per poter trarre delle conclusioni non affrettate.

Tutto si svolge così in fretta, così rapidamente, ci metto più tempo a scrivere queste righe di quanto non sia trascorso nella realtà.

Vengo informato circa la necessità di presentare le domande per tentare di trasferire la mamma in un centro di rieducazione esterno, attrezzato per dare tutto l’aiuto necessario per tentare di recuperare tutto il recuperabile. Io capisco, concordo, accetto e firmo per le richieste.

Tengo a precisare che in nessun modo in questa fase vengo informato dell’esistenza di un servizio di assistenti sociali presente nell’ospedale e quindi i miei rapporti per le informazioni necessarie sono tenuti solo ed esclusivamente con il primario dott. A.

Il primario mi informa, a seguito della mia richiesta di chiarimento sul funzionamento di queste unità esterne, che ne esistono molte che più o meno mettono a disposizione del paziente le stesse possibilità riabilitative, ad ogni buon conto come sempre esistono i centri migliori, i più attrezzati, quelli in cui la percentuale di successo è il 120% e quelli che invece non danno tutte queste garanzie, sfortunatamente i migliori richiedono il pagamento di un supplemento di retta che l’Asl non riesce ad accollarsi, è però evidente che nell’interesse dell’ammalato...

Così dichiaro di essere disponibile per qualsiasi soluzione che sia la più idonea per la mamma preferibilmente, per consentirmi di assisterla pur continuando ad essere presente al mio lavoro e con la mia famiglia, nelle vicinanze della mia abitazione.

Non riuscivo a credere nella botta di fortuna che mi era capitata… pensate che si era liberato un posto velocissimamente, era solo il 29 di novembre, in una struttura vicina alla mia abitazione, forse una delle migliori e più competenti per la logopedia a detta del primario; unico piccolo svantaggio visto che era una delle migliori era anche una di quelle che avrebbero richiesto il supplemento di retta, circa 60.000 lire al giorno.

Per la mamma questo ed altro; ma chi ci sta a pensare su neanche un attimo; mi attivo, prendo contatto con la casa di cura di X, predispongo tutto; richiedo tutte le informazioni per il trasferimento della mamma, per le modalità di pagamento, per la dotazione di indumenti personali da procurare alla mamma.

Dopo aver espletato le pratiche burocratiche con il medico di base che giustamente si rifiutava di firmare una richiesta di ricovero per un paziente che lui non aveva avuto modo di seguire in quanto ricoverato direttamente in ospedale, ottengo che la richiesta mi venga prodotta direttamente in reparto: non si potrebbe, ma per farmi una cortesia avevano trovato un escamotage alla burocrazia; che bravi, che gentilezza, che fortuna che ho avuto…

Così in men che non si dica mi ritrovo trafelato, con quattro borse per mano a scendere le scale del reparto per seguire l’ambulanza che traduceva la mamma alla casa di cura di X, con l’assegno dell’anticipo stretto tra i denti, perché l’ingresso era subordinato al versamento di un anticipo cauzionale e la dotazione fresca di acquisto di tute da ginnastica, scarpe e magliette per la mamma, là ci vogliono queste cose.

Però a dire il vero… io la mamma l’avevo sempre vista con le gonne, mai e poi mai avrebbe messo un paio di pantaloni, ma sì cosa importa, per il recupero imparerà anche a portare i calzoni.

E cosi il 30 di novembre la mamma è sistemata alla casa di cura di X, naturalmente dopo aver espletato tutte le pratiche burocratiche di ingresso ed aver firmato tonnellate di documenti per scarico di responsabilità e vessazioni varie.

La mamma viene sistemata al terzo piano in una cameretta doppia, abbastanza accogliente… speriamo che tutto funzioni!

A proposito, ricordate le indicazioni del primario di neurologia? Tutte “balle”. La casa di cura di X è a pagamento solo per chi intende pagare per la sistemazione in camera doppia, però ci sono tante camere a tre letti che non hanno supplemento per il degente. Naturalmente ora che la mamma è lì non è più possibile trasferirla nell’altra sistemazione a meno di farla dimettere, riportarla a casa e rifare le domande di ricovero, ben sapendo che i posti non a pagamento si liberano in tempi lunghi; tutto mi pare chiaro, no!!!

Nei primi due o tre giorni non viene effettuata nessuna attività di recupero, logopedia e palestra; devo dire in ogni caso che ero abbastanza sereno perché la mamma sembrava stare bene, continuava a non parlare, però riuscivo a farla camminare, accompagnandola, per tutto l’edificio della struttura; con l’aiuto degli ascensori ci spostavamo fino al piano terra per vedere che stava nevicando, in chiesa per ammirare il presepe, al bar per ricevere i conoscenti, nelle aree di intrattenimento per fare qualcosa di diverso che non stare su una sedia a rotelle sempre allo stesso piano, per dare una mano a questo ritorno alla normalità tanto agognato.

Purtroppo il tutto inizia a peggiorare proprio dopo l’inizio delle terapie, che la mamma rifiuta in modo perentorio; subentrano i primi problemi clinici, a volte febbre, cistiti a ripetizione, anche perché nessuno ha tempo per recuperare veramente qualcosa in un degente con le caratteristiche della mamma, che è li solo per far trascorrere i giorni e far maturare la retta…

Così nel vano tentativo di recuperare l’afasia viene senz’altro prodotta e consolidata l’incontinenza, che porta quindi a cateterismo e pannoloni. E le spese aumentano, i pannoloni vanno comperati.

Mi si dice che potrei trovare spesso la mamma assicurata alla sedia a rotelle con un legaccio fatto con una traversa, questo ha lo scopo di impedirle di ribaltarsi; sì… anche perché era successo spesso qualche giorno prima che la mamma si alzasse dalla sedia e, sorreggendosi ai mancorrenti dei corridoi, raggiungesse la sala infermieri o altre camere. Questo non si deve fare! Non si deve disturbare il personale. Bisogna essere il più deficienti possibile, oppure tanto autosufficienti da non aver bisogno del trattamento della casa di cura di X.

Bene, legandola questo non sarebbe successo mai più, potete starne certi.

Trascorro il giorno di Natale litigando con A., un forse medico marocchino, di turno in tutti i giorni festivi, per evidenti motivi legati alla sua religione, e che regolarmente dormiva o chissà cosa faceva nel suo stanzino.

Il giorno di Natale la mamma non stava bene ed A. si sforzava di convincermi che  la febbre alta fosse la prerogativa di una persona anziana nelle condizioni della mamma e che quindi non fosse degna di alcuna considerazione particolare. La mamma stava affrontando la terza cistite.

Il medico che l’assisteva normalmente era una brava persona, legato però ad una struttura e ad una burocrazia che lo rendevano immobile ad agire.

Spesso ho chiesto se non sussistevano gli estremi per riportare la mamma in ospedale vista la situazione di salute… non era possibile… non l’avrebbero accettata, è sempre stata la risposta.

Il tempo passa e la mamma non recupera un bel nulla, anzi… come dicevo regredisce, non cammina assolutamente più ed è completamente dipendente per tutte quelle che sono le esigenze di un essere umano.

In questo periodo mi sono prodotto al meglio per avviare le pratiche per l’Uvg (Unità valutativa geriatrica), le pratiche per la domanda di invalidità ed ho preso contatti con le assistenti sociali del quartiere anche in previsione di un eventuale ritorno a casa; queste attività sono state una nuova scoperta per me, quasi una caccia al tesoro… sì perché nessuno dice esattamente che cosa si deve o si può fare in casi come questo, sta a te scoprirlo poco alla volta, chiedendo, sentendo che cosa hanno fatto altri che hanno avuto problemi simili in passato, cercando consiglio o quasi raccomandazione a chissachì; questi aspetti burocratici della sanità sembrano volutamente celati per nascondere la loro meschinità.

In gennaio viene effettuata la visita Uvg, una cosa penosissima, in cui essenzialmente si vuole verificare se l’anziano sta mentendo, simulando oppure si tratta davvero di un problema geriatrico importante. Per intenderci del tipo “alzati e cammina… dai, su”… e la mamma intanto non capiva nemmeno che cosa le si stesse chiedendo, figuriamoci se riusciva ad alzarsi e tantomeno camminare, in modo particolare quando il medico preposto tentava di farla alzare dalla sedia a rotelle senza prima slegarla dai legacci che la costringevano, cercando così di realizzare un improbabile quanto impossibile sollevamento della mamma con la carrozzella legata alla schiena.

Poco prima della fine dell’anno vengo ufficialmente ed inaspettatamente informato che la mamma sarà dimessa allo scoccare esatto del 60° giorno di degenza, e a nulla servono le mie richieste, le mie pressioni, le mie insistenze… è burocrazia pura, business, gli accordi con l’Asl prevedono questo.

È in questo periodo che ho l’opportunità di conoscere l’unica persona che ha veramente aiutato me a prendere delle decisioni e per contro, la mamma a vivere i giorni che le restano in modo un po’ più umano.

Grazie appunto alle parole di un incaricato del Csa - Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti capisco molte cose e mi si delinea in modo molto chiaro il percorso che è previsto per un anziano in quelle condizioni; da un “lager” (così mi sono sentito di definire i posti come la casa di cura di X in una lettera che inviai a suo tempo al Csa ed assolutamente confermo questa definizione) all’altro per periodi di 60 giorni, naturalmente passando al termine di ogni periodo per il pronto soccorso aspettando che si liberi un letto da qualche parte, per poi rifare le domande per un altro “lager”, tutto questo con una persona anziana che ad ogni cambio di lager risulta sempre più debilitata, sempre meno motivata, sempre più abbandonata dalla società perché ormai solo più di peso.

Capisco che non avrei mai dovuto accettare le dimissioni della mamma dal reparto di neurologia ma avrei dovuto insistere perché ci si occupasse di lei nella struttura ospedaliera che è ben attrezzata per questo, sicuramente meglio attrezzata di una casa di cura esterna che ha il solo scopo di incamerare le diarie previste dagli accordi nazionali con le Asl; ormai è tardi ed indietro non posso ritornare, però posso tentare di limitare i danni. Decido quindi di non attendere che scada il periodo di degenza alla casa di cura di X, anche perché a nulla continua a servire alla mamma, se non a spillare 60.000 lire ogni giorno per il trattamento alberghiero mai richiesto da nessuno ma semmai imposto dal sistema di connessione tra Asl e strutture esterne.

Così il 20 di gennaio richiedo che la mamma venga dimessa anticipatamente ed immediatamente; a fatica la carico in auto e mi dirigo al Pronto soccorso dell’ospedale H., il presidio ospedaliero di sua pertinenza, dove richiedo il ricovero per assistenza, precisando la situazione, questa volta però non la lascerò sola la notte!

Il medico di servizio capisce subito di cosa si tratta ed in mia presenza fa una telefonata senza preoccuparsi più di tanto che io sia lì ad ascoltare: “...ciao C., senti, ho un problema, sì so che si tratta di una rogna… sì un assistenziale, vedi se riesci a far liberare un letto!”.

E così il giorno seguente la mamma viene portata all’ospedale K., reparto di medicina e di qui, dico tra me, uscirà solo quando si renderà disponibile una sistemazione definitiva, magari in una casa di riposo.

Ebbene sì, purtroppo avevo abbandonato ogni sogno che la mamma potesse recuperare, anche se parzialmente, il danno subito con l’ictus e con i successivi trattamenti riservati alla casa di cura di X, ormai si delineava un continuum senza più cambiamenti sostanziali, fatto di alti e bassi dei quali non era assolutamente il caso di farsi troppo influenzare, sostanzialmente un lentissimo declino… inesorabile ed inarrestabile.

Questa volta vengo messo immediatamente in contatto con le assistenti sociali dell’ospedale le quali si premurano di comunicarmi subito di dover produrre nuovamente le domande per un nuovo ricovero in struttura esterna, nonostante la mia dichiarata contrarietà per questo tipo di soluzione; in buona sostanza sostengo che accetterò nuove dimissioni solo se il periodo di degenza in una nuova struttura esterna sarà fissato fin da subito a ben oltre i sessanta giorni, altrimenti sarò irremovibile.

Qui inizia la vera tortura per me; infatti le pressioni perché la mamma venga dimessa e spostata in un altro istituto esterno sono veramente notevoli, si va dal puro tentativo di convincimento, alle vessazioni, agli intimorimenti e alle pur velate minacce.

Primario, direttore sanitario e assistenti sociali sono la mia controparte, io ho imparato che devo sempre mettere nero su bianco per tutto quello che succede e quando scrivo riservo sempre la copia per conoscenza al Csa che continua assiduamente ad assistermi in tutte le nuove necessità che si verificano continuamente.

Riesco ad impedire un primo tentativo di dimissioni verso una casa di cura che non avrebbe avuto assolutamente le caratteristiche necessarie per occuparsi di un caso come quello della mamma, nessuno si era preoccupato nel produrre le domande di accertarsi di questo in quanto il solo e vero motivo era di liberare il posto letto e far rientrare l’anziano nel maledetto giro casa di cura/rientro in ospedale.

La “via crucis” mi viene preparata proprio per il venerdì santo, non sto scherzando; mentre sono al lavoro vengo informato che la mamma sarà dimessa il giorno successivo per essere trasportata alla casa di cura D., mi pare fosse questo il nome, questa volta il trattamento sarà assolutamente tutto gratuito, niente diaria giornaliera per il trattamento alberghiero, ecc.

Innumerevoli e interminabili le telefonate all’assistente sociale, al primario, alla casa di cura stessa per arrivare a dire che io non potrò più seguire la mamma se viene portata così lontano, che in ogni caso il periodo di degenza non sarà più lungo dei soliti sessanta giorni e che comunque tutte le cose che ci saranno da pagare le scoprirò solo dopo che la mamma sarà stata trasferita.

Infatti tutte le mie richieste di chiarimenti presso la casa di cura vengono disattese dalla persona che mi risponde al telefono che in modo del tutto automatico tenta di rassicurarmi e di liquidarmi nel modo più veloce possibile dicendo che: “quando sarà qui da noi le faremo sapere tutto ciò che occorre, non si preoccupi”.

Io invece mi preoccupo, e molto anche, ed è così che rifiuto il trasferimento in primis comunicandolo direttamente alla casa di cura e successivamente mandando raccomandata al direttore sanitario e per conoscenza al Csa.

A seguito di questa vengo convocato direttamente dal direttore sanitario, richiedo in questa fase al Csa di poter essere accompagnato da un suo incaricato, ed ancora una volta le pressioni sono molto pesanti, viene addirittura fatto pesare sulla mia coscienza il fatto che rifiutando il trasferimento della mamma impedisco che altri malati ben più gravi possano accedere ad un posto letto e vengano lasciati a soffrire su di una barella al pronto soccorso, insomma tutti i problemi della malasanità sembrano essere causati dalla mamma che chiede solo di essere assistita e curata come un altro qualsiasi ammalato.

Approfitto dell’incontro per richiedere la documentazione scritta di tutto ciò che è successo dal giorno del ricovero, circa il trattamento riservatomi dal prof. B.. del reparto di neurologia, ed ancora oggi non sono in possesso di una documentazione esaustiva, anche perché ad un certo punto ho smesso di richiederla ulteriormente.

Io sostengo sempre che è mio preciso dovere di figlio difendere gli interessi della mamma che non è più in grado di decidere da sola per il suo bene.

Durante questo periodo all’ospedale Y. conosco un’altra persona che farà molto per la mamma, R., una ragazza rumena, che si occupa da anni in un modo meraviglioso di assistenza agli anziani e che ha per qualche tempo la sua anziana ricoverata nel letto accanto alla mamma, mi insegna tante cose per fare sì che la mamma possa vivere un po’ meglio e, quando la sua assistita purtroppo si spegne, mi aiuta ad assistere la mamma alle ore dei pasti o la notte quando se ne presenta la necessità o quando le mie esigenze di lavoro o di famiglia mi impediscono di essere presente.

Come dicevo prima era ormai mia precisa intenzione far dimettere la mamma solo a fronte di una sistemazione assolutamente definitiva, per questo avevo già effettuato le domande e la mamma era in lista di attesa in alcune case di riposo; i tempi però erano lunghi, in buona sostanza bisognava attendere il decesso di qualche ricoverata perché si liberasse il posto per la mamma…

Purtroppo non avevo mai assolutamente preso in considerazione che la casa di riposo poteva non essere l’unica sistemazione definitiva…

Infatti verso la metà del mese di settembre la mamma viene colta da un nuovo ictus, questa volta molto più devastante del precedente, e dopo una settimana di coma si spegne dopo essersi consumata come un mozzicone di candela, senza mai più riprendere conoscenza. Ecco come si è presentata la sistemazione definitiva.

Finalmente la sera del 23 di settembre 2001 il letto numero 20 era libero…

 

 

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