Prospettive assistenziali, n. 140, ottobre-dicembre 2002

 

 

Notizie

 

Aumentato in misura notevole

il finanziamento del servizio

sanitario inglese

 

Il Governo inglese ha deciso di aumentare le tasse per incrementare di 40 miliardi di sterline (60 miliardi di euro) il finanziamento del National Health Service nei prossimi cinque anni, in modo da portare la spesa sanitaria dal 7,7% attuale al 9,4% del Pil nel 2008.

(da Organizzazione sanitaria, n. 3/4, 2001)

 

 

I PARENTI DEI MALATI DI ALZHEIMER

SI SENTONO ABBANDONATI

DAL SERVIZIO SANITARIO

 

Sull’inserto “Salute e benessere” de La Stampa del 12 ottobre 2002 viene riportato quanto segue: «Chi si occupa del malato di Alzheimer si sente solo. È questo il risultato di una recente indagine che ha coinvolto più di 700 caregivers (“chi si prende cura”) di soggetti con Alzheimer in cinque Paesi: Francia, Italia, Spagna, Australia e Regno Unito. Lo studio, realizzato con il contributo di Pfizer, si è posto l’obiettivo di certificare il livello di soddisfazione rispetto a diagnosi e trattamento, ma soprattutto l’impatto che la malattia ha su chi si occupa di un malato di Alzheimer. La metà degli intervistati ha dichiarato di prendersi cura del proprio assistito 7 giorni su 7. Il 74% in Italia ha dichiarato di dover accudire il proprio parente a casa, senza assistenza esterna, contrariamente a quanto succede in altri Paesi dove il 34% usufruisce di un aiuto esterno e il 20% dei centri di cura dove il paziente può essere parzialmente assistito. Gli italiani (53%) lamentano una carenza di supporto da parte del Servizio sanitario nazionale, dimostrandosi i meno soddisfatti in Europa. Le difficoltà delle famiglie con un malato di Alzheimer risultano nelle dichiarazione di tutti gli intervistati. Tre su quattro pensano che prendersi cura di un malato di Alzheimer impedisca di condurre una propria vita e più della metà (58%) soffre di depressione. La maggioranza, il 77%, ha definito la cura di un malato di Alzheimer stancante, il 67% l’ha definito impegnativo e il 51% frustrante. L’indagine ha messo in evidenza lo stato di abbandono delle famiglie colpite dalla malattia. I sistemi sanitari nazionali sono incuranti delle difficoltà e chi deve occuparsi di un malato lo deve fare a proprie spese con risultati estremamente negativi dal punto di vista della qualità della vita».

 

 

GRAVI PERICOLI DEL FEDERALISMO

IN MATERIA SANITARIA

 

Sull’inserto  Salute  de La Repubblica del 4 lu­glio 2002, Guglielmo Pepe lancia un motivato allarme osservando che «il Federalismo, invece di garantire un’assistenza uniforme e solidale, sta mettendo le basi per dividere l’Italia in tanti piccoli staterelli (considerati feudi da qualche rampante “governatore”). Vediamo il Servizio sanitario nazionale ridotto a 21 sottosistemi, uno diverso dall’altro, che mettono in forte dubbio il rispetto dell’articolo 32 della Costituzione (il diritto alla salute per tutti), l’eguaglianza fra i cittadini, la garanzia di avere una sanità efficiente e funzionale a prescindere dal luogo di residenza.

«Prima della riforma istituzionale i rischi che un abitante dell’Emilia avesse a disposizione cure e strutture di migliore qualità rispetto a quelle di un siciliano erano evidenti. Ma strada facendo le differenze possono diventare incolmabili. Anche perché nelle regioni dove si è amministrato (e si amministra) male, arrivano i ticket, i tagli dei servizi e delle prestazioni, la riduzione dei farmaci gratuiti…».

Secondo l’Autore fra le cause c’è «sicuramente l’assenza di una “barra” che centralmente governi il cambiamento, evitando i pericoli della frantumazione. In sostanza la rinuncia del Ministero a governare la salute pubblica, se da una parte scarica onori e oneri sulle Regioni, dall’altra accentua le preesistenti iniquità di fondo».

 

 

DOCUMENTO SUL VOLONTARIATO DELLA

CONFERENZA EPISCOPALE LOMBARDA

 

Nel marzo 2002 la Conferenza episcopale lombarda ha discusso e approvato un documento sul volontariato in cui, fra l’altro, viene affermato quanto segue:  «La capacità del volontariato di osservare i bisogni, di ascoltare la domanda, di essere presente capillarmente sul territorio e nelle comunità locali, di costruire e innescare relazioni interpersonali, di portare all’evidenza bisogni  e risposte concrete, di sostenere i diritti, d’interloquire con i soggetti sociali e le istituzioni, rende evidente come il volontariato possa aumentare la coesione sociale, contribuire alla costruzione di uno “spontaneo patto sociale” locale, creare le precondizioni per la costruzione di un discorso “politico” che parta da un universo di valori condivisi e non solo dell’esplosione degli interessi individuali, di gruppo, di categoria.

«Il volontariato è uno dei soggetti del welfare, accanto al terzo settore, che ha proprie specificità e differenze rispetto agli altri attori presenti nel sociale (cooperative sociali, associazioni di promozione sociale, fondazioni, enti morali, enti religiosi/ecclesiali). Nel rapporto con il terzo settore il volontariato deve salvaguardare e valorizzare il proprio apporto d’originalità, che offre al mondo dei servizi sociali strumenti per un’evoluzione e una forza d’innovazione  e creatività fondamentali. In questo senso si può affermare che se il terzo settore perdesse il volontariato o lo diluisse in una concezione riduzionistica, perderebbe l’anima stessa che lo aiuta a essere segno di cambiamento e di ricchezza valoriale.

«Nel rapporto con le istituzioni, il volontariato deve  poter svolgere adeguatamente e propulsivamente il ruolo di collaboratore nella lettura dei bisogni, nell’individuazione  delle priorità, nella programmazione delle politiche di cittadinanza, nelle progettazione dei servizi, nella verifica della qualità e del raggiungimento degli obiettivi, denunciando anche carenze e sprechi. Questo compito di sussidiarietà orizzontale realmente partecipativa ha bisogno, oltre a leggi che lo riconoscano, anche di percorsi di consapevolizzazione, di formazione e d’accompagnamento che aiutino il volontariato stesso a esserne attore significativo».

 

 

PROFESSIONISTA CONDANNATO PER

AVER VIOLATO LE NORME SULLE BARRIERE

ARCHITETTONICHE

 

Con la sentenza 32773 del 3 settembre 2001, la Corte Suprema di Cassazione ha respinto il ricorso presentato da G.P.R., condannato dal Tribunale di Verbania il 25 febbraio 2000 alla pena di 20 milioni di lire e alla sospensione per la durata di tre mesi dall’albo degli architetti ed al risarcimento dei danni morali a favore delle costituite parti civili.

L’arch. G.P.R. era stato ritenuto colpevole del reato di cui all’articolo 24 della legge 5 febbraio 1992 n. 104 (1) perché, come era stato accertato a Verbania in data 28 febbraio 1999, quale direttore dei lavori finalizzati alla realizzazione di due sale cinematografiche non osservava le disposizioni dirette all’eliminazione delle barriere architettoniche omettendo in particolare la realizzazione di un ascensore per il raggiungimento della sala cinematografica posta al primo piano.

 

 

Gli aiuti non bastano

ai popoli senza speranza

 

Riportiamo la prima parte dell’articolo di Aung San Sou Kyi, Premio Nobel per la pace, pubblicato su La Repubblica del 24 luglio 2002:

«Il rispetto della dignità umana richiede un impegno che porti alla creazione di condizioni in cui gli individui possano sviluppare un senso di autostima e sicurezza. La vera dignità è accompagnata dalla certezza della propria capacità di risposta alla sfida intrinseca all’esistenza umana. Tale certezza difficilmente potrà essere garantita alle persone costrette a vivere sotto la minaccia della violenza e dell’ingiustizia, sotto un cattivo governo e all’insegna di instabilità o povertà e malattia. L’eli­minazione di queste minacce deve essere lo scopo di coloro che riconoscono la santità della dignità umana e di coloro che mirano a promuovere lo sviluppo umano. Lo sviluppo inteso come crescita, progresso e realizzazione del potenziale dipende dalle risorse disponibili e non vi è risorsa più potente di quella delle persone con pieni poteri conferiti dalla fiducia nel proprio valore come esseri umani».

 

 

LA POVERTÀ  NON È NÉ DI DESTRA

NÉ DI SINISTRA

 

Con questo titolo il quotidiano Avvenire del 18 luglio 2002 ha pubblicato un interessante articolo di Giovanni Sarpellon, sociologo, già presidente della Commissione nazionale sulla povertà.

L’Autore, dopo aver rilevato che «da poco più di vent’anni anche in Italia viene misurata la diffusione della povertà fra le famiglie», contesta che «anno dopo anno le statistiche danno, grosso modo, gli stessi risultati» nonostante che «in vent’anni il benessere è continuamente aumentato nel nostro paese».

Premesso che attualmente «i poveri non sono più i mendicanti, i disgraziati, i menomati descritti nei romanzi dell’Ottocento»; si tratta invece di «7.828.000 persone che vivono in mezzo a noi, come noi, nella casa accanto. Sono quelli che, nella corsa verso il benessere, sono rimasti indietro».

Il professor Sarpellon ci invita tutti a riflettere e ad agire. Occorre partire dalla considerazione che «la drammaticità della povertà sta proprio nella sua normalità». Di conseguenza «questa constatazione dovrebbe far paura alla classe media che, se avesse coscienza del rischio al quale è esposta, non si acconteterebbe di soccorrere in qualche modo i poveri (aumentando, per esempio, le pensioni minime), ma si preoccuperebbe invece di affrontare le cause della povertà».

L’Autore è molto pessimista che ciò si possa realizzare in quanto sarebbe «la ricchezza di alcuni che crea la povertà di altri».

Noi siamo più ottimisti, ritenendo, sulla base delle nostre esperienze, che le azioni di promozione dei diritti delle persone più deboli abbiano conseguito risultati positivi consentendo a migliaia di persone di superare le loro difficoltà e la loro condizione di povertà.

Tuttavia, è evidente l’esigenza di un consistente sviluppo, il più unitario possibile, delle iniziative rivolte alla tutela dei diritti della fascia più bisognosa della popolazione.

 

(1) Il 7° comma dell’art. 24 della legge 104/1992 è così redatto: «Tutte le opere realizzate negli edifici pubblici e privati aperti al pubblico in difformità dalle disposizioni vigenti in materia di accessibilità e di eliminazione delle barriere architettoniche, nelle quali le difformità siano tali da rendere impossibile l’utilizzazione dell’opera da parte delle persone handicappate, sono dichiarate inabitabili e inagibili. Il progettista, il direttore dei lavori, il responsabile tecnico degli accertamenti per l’agiblità o l’abitabilità ed il collaudatore, ciascuno per la propria competenza, sono direttamente responsabili. Essi sono puniti con l’ammenda da lire 10 milioni a lire 50 milioni e con la sospensione dai rispettivi albi professionali per un periodo compreso da uno a sei mesi».