Prospettive assistenziali, n. 140, ottobre-dicembre 2002

 

 

il suicidio/testamento di Anthony

 

 

Presentazione

Il suicidio di Anthony interpella tutti noi. Ringraziamo i suoi genitori che hanno autorizzato “Prospettive assistenziali” a pubblicare la lettera scritta da Anthony prima di morire, ritenendo doveroso far conoscere il suo “testamento”. Abbiamo chiesto a Marisa Biancardi, psicologa e psicoterapeuta familiare e a Emilia De Rienzo, scrittrice e insegnante, un loro commento, che pubblichiamo.

Anthony è arrivato in Italia già grande, a otto anni. Non sappiamo molto della sua vita in India, su quanto lunga, dolorosa e sofferta sia stata la sua attesa prima di essere adottato da quella che è diventata la sua famiglia. Finalmente aveva un padre, una madre, una sorella che, a quanto lui stesso scrive, ha molto amato. Ma il loro affetto non gli è bastato a tenerlo in vita.

Sui 2.595 minori di cui la Commissione nazionale per le adozioni internazionali ha autorizzato l’ingresso nel periodo dal 16 novembre 2001 al 31 marzo 2002, 844 avevano fra i 5 e i 9 anni e ben 241 un’età superiore ai 10.

Sappiamo, anche sulla base delle esperienze dei genitori che hanno adottato bambini grandicelli, quanto sia necessario preparare e sostenere queste famiglie nel loro difficile compito educativo, anche a causa degli ostacoli e delle incomprensioni dell’ambiente che quotidianamente devono fronteggiare.

Fondamentale diventa il supporto dei servizi socio-sanitari, che, invece, spesso sono latitanti o inadeguati. Pochissime le esperienze di gruppi di sostegno rivolti a questi genitori: si ritiene, sbagliando, che l’intervento degli operatori debba concludersi con l’inserimento del bambino nella famiglia adottiva.

Oltre alle difficoltà d’inserimento nella comunità di appartenenza, essi devono fronteggiare spesso da soli, i problemi relativi all’integrazione scolastica, i cui programmi sono legati ancora al rapporto genitori-figli, fondato sul legame biologico-procreativo.

L’adozione internazionale - lo abbiamo scritto più volte - è nata in Italia con la legge n. 431/1967 come concreto riconoscimento dell’uguaglianza di tutti i bambini nel fondamentale diritto alla famiglia. È vero, la famiglia che adotta un bambino aiuta a superare il mito dell’indissolubilità del legame di sangue; adottando un bambino di etnia e nazionalità diversa dà inoltre una testimonianza di solidarietà senza confini.

Ma proprio per questo non può essere lasciata sola.

Parlamentari, Ministri e Amministratori di Regioni ed Enti locali, operatori e giudici minorili, se vogliono veramente onorare la memoria di Anthony, devono impegnarsi concretamente per il superamento delle barriere razziali con atti veri di solidarietà attiva.

 

 

LETTERA/TESTAMENTO DI ANTHONY (1)

(ore 01,15 del giovedì 23/03/2002)

Quest’idea mi è cominciata a vagare per la testa fin da quando avevo 8 anni. ma non ho mai avuto il coraggio di metterla in pratica, fino ad oggi.

Da quando sono venuto al mondo non ho mai passato un momento felice fino a che non sono entrato in famiglia V. Purtroppo questa felicità non è durata abbastanza, perché ogni volta che uscivo di casa la gente non faceva altro che insultarmi per il colore della mia pelle, per la mia altezza di 1 m. e 50 e per il mio  corpo così magro e senza un briciolo di muscolo. Quindi, come potete aver intuito io mi sentivo proprio un verme fuori di casa, ma quando rientravo mi sentivo il ragazzo più felice del mondo.

Vi prego quindi di non dare nessuna colpa ai miei genitori adot­tivi perché sono stati l’unici ad avermi voluto veramente bene e di questo li ringrazio di cuore.

Inoltre ringrazio anche due miei amici molto cari che mi hanno sempre impedito di fare il gesto
fatale.

Molte volte ho parlato della mia idea a persone che credevo mi potessero aiutare a farmi cambiare idea ma non ho avuto altro che queste risposte: «ma non fare il cretino», «tu guardi troppi film», «ma vai via».

Molta gente pensava dentro di sé che raccontassi frottole ma adesso hanno avuto la prova che non scherzavo affatto.

Quando sono entrato alle superiori pensavo che quei anni di scuola li avrei passati più serenamente di quelli che avevo trascorso alle medie.

Invece non ho trovato che solitudine, tristezza e tanti brutti voti. A me piaceva studiare e mi piaceva andare a scuola, però da quando nessuno mi apprezzava per quello che ero la mia vita è ritornata ad essere infernale come quando ero in India.

La vita fa schifo!!!!. Inoltre, odio l’india. La odio perché mi ha messo al mondo.

Prima di levarmi dai coglioni voglio dire al presidente Berlusconi che il mondo potrà diventare pacifico se diventerà multietnico.

Mi dimenticavo, ho avuto il coraggio di suicidarmi solo per un motivo. Perché un’altra persona ha fatto in modo di mettere dentro di me questo coraggio mettendomi due note sul diario, intestate alla mia famiglia. Voglio però far notare alla professoressa X.Y. che è una testa di cazzo perché la prima nota l’ho falsificata e lei ci è caduta in pieno. Con questo voglio dirle che c’è sempre qualcuno più furbo di lei.

Mi sono scordato di dire a voi poliziotti di NON DARE NESSUNA COLPA NEANCHE ALLA MIA SORELLA D. perché anche se non ci parlavamo molto so che lei mi voleva un monte di bene. Inoltre voglio dire ai miei genitori di non fare cazzate, perché anche se me ne sono andato io c’è sempre la D. che dovete mantenere!!!!

Comunque spero che tutta questa difficoltà mi abbia maturato per affrontare il regno dei cieli, dove spero che ci sia più fratellanza tra gli umani.

Credo di avere detto tutto. No, una cosa non l’ho specificata: LA VITA è UN INFERNO.

Addio a tutti.

Anthony

 

P.S.: Babbo, mamma, io non me ne sono andato perché non vi volevo bene, solo che questo non era il mio tipo di vita. Io non l’ho fatto per punirvi ma per levarvi un peso in più. Sarebbe stato molto meglio se sette anni fa fosse arrivato un altro bambino, che fosse più intelligente e non combinasse tante di quelle cavolate che vi ho fatto io.

Credo però, nonostante tutte le vostre forze, non sarei mai divenuto quello che avete sempre sognato ma sarei stato uno dei tanti imbecilli che ci sono in questo maledetto mondo.

Siete stati dei genitori perfetti, non mi avete mai fatto mancare nulla. Peccato però che a rovinare la mia felicità sia stata l’India.

Probabilmente vi starete chiedendo ma cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Ma io vi ripeto che la colpa è solo mia che non ero mai felice.

Non disperatevi troppo, perché c’è la D. che dovete ancora tirar su e aiutarla nei momenti più difficili.

Scusate se le frasi non scorrono molto, ma non ho avuto il tempo di ricopiare.

Vi saluto di nuovo.

 

 

 

Commento di Maria Teresa Pedrocco Biancardi (2)

È difficile superare l’impatto emotivo che la lettera disperata di Anthony suscita, e cercare di riflettere in termini razionali e costruttivi sulla storia sua e della sua famiglia.

Difficile in termini razionali perché tutte le sue parole sono espressione di un’onda lunga, inarrestabile di emozioni che l’ha portato fino alla autodistruzione.

Difficile in termini costruttivi perché la sua è la storia di una lenta distruzione.

 

La famiglia non basta

Anthony ci insegna prima di tutto questo: che la disponibilità, l’intelligenza educativa, l’amore di una famiglia non sono sufficienti a tener riparato un bambino e poi un ragazzo dalla cultura che lo circonda, una cultura che si insinua nelle pieghe delle emozioni e dei pensieri, che costruisce sistemi di significato perversi, che impone con prepotenza l’omologazione non solo dei comportamenti, ma dei giudizi e dei pregiudizi, dei colori e delle culture.

Forse il sistema di significato più perverso che per Anthony è diventato insostenibile è stato quello relativo alle confusioni di termini tra clandestino e extracomunitario e straniero, tra figlio biologico definito naturale e figlio adottivo in corrispondenza sottinteso come «innaturale, artificiale», tra simpatia e prestanza fisica.

Anche se la famiglia può fare in modo che un ragazzo si possa sentire «il ragazzo più felice del mondo», il mondo che circonda la famiglia può giungere a farlo sentire «proprio un verme».

Anthony ci insegna quanto difficile possa essere l’essere figli e genitori adottivi in un mondo dove la genitorialità è tenuta confinata dentro la legge barbara del sangue, dove il diverso, a meno che non imponga pubblicamente un orgoglio di massa, è considerato  «da buttare».

È un insegnamento sul quale tutti i genitori adottivi sono chiamati a riflettere, perché se da un lato la genitorialità adottiva e la corrispettiva filialità costituiscono legami giuridici e esistenziali saldi tanto e in qualche caso più di quelli biologici, dall’altro la vicenda dell’adozione può favorire fragilità, può lasciare aperte ferite, e allora la consapevolezza può suggerire prudenza, protezione, prevenzione, impegno più forte e delicato di quanto non si sia portati a pensare.

 

Una storia sociale in caduta libera

«Quando sono entrato alle Superiori pensavo che quegli anni di scuola li avrei passati più serenamente di quelli che avevo trascorso alle Medie. Invece non ho trovato altro che solitudine, tristezza, e tanti brutti voti». La cultura dell’espulsione del diverso cresce con l’età e prende forza: se i ragazzini si limitano a prendere in giro per il colore della pelle, la bassa statura e la magrezza, i ragazzi più grandi sono più raffinati e condannano alla solitudine, e gli adulti più raffinati ancora: toccano l’autostima con i brutti voti.

In una società sempre più omologata e omologante non c’è lo spazio per integrarsi, perché nessuno dà una mano: Anthony cita Berlusconi, al quale insegna che «il mondo potrà diventare pacifico se diventerà multietnico»: chissà se mentre scriveva  aveva davanti agli occhi i maxi cartelloni pre-elettorali con quali il futuro leader mirava alla conquista dei voti delle coppie senza figli, cartelloni dai quali ammiccava con il solito sorriso e con la scritta: «adozioni più semplici».

Il bambino adottato all’estero vive sulla sua pelle la profonda e atroce contraddizione tra l’esaltazione della scelta di adottare e la condanna, il disprezzo, la diffidenza nei confronti di possibili compatrioti ai quali non è riconosciuto il diritto di avere quello che ha avuto lui, fuori dal contesto familiare, venendo a lavorare in Italia come liberi cittadini adulti.

Questa grave contraddizione mina alle origini la percezione di sé che un ragazzino adottato può costruirsi, perché lo pone nell’impossibilità di comporre la propria esperienza di accoglienza e le esperienze di espulsione, la mentalità del rifiuto, che vede dominare nel contesto sociale in cui vive.

La cosa è ancora più grave perché si tratta di un ragazzo indiano, uno dei Paesi che prima degli altri hanno suscitato interesse nei confronti dell’adozione internazionale. Il rifiuto così feroce che Anthony ha patito è un segnale preoccupante di forte regressione sociale su un tema umanissimo come quello dell’accoglienza. D’altra parte questa regressione è tragicamente sotto gli occhi di tutti, perché assume il connotato politico della difesa dei propri interessi egoistici, fino al paradosso che esponenti della stessa corrente politica accaparrano voti e consensi sia ammiccando alle «adozioni più semplici» sia ammiccando all’espulsione di ogni diverso.

 

Ma gli insegnanti dove erano?

Oggi si parla di bullismo nelle scuole, come di un fenomeno preoccu­pante.

Probabilmente al di là del razzismo, Anthony è stato vittima di episodi di bullismo.

Gli insegnanti lamentano la loro incapacità di contenere il fenomeno: ma nei riguardi di ciò che stava accadendo a Anthony cosa stavano facendo? Lui prendeva le note e i brutti voti, e quelli che lo prendevano in giro e lo emarginavano, cosa prendevano?

Se è vero che la scuola è la prima palestra sociale che il ragazzo deve affrontare e nella quale può misurare e migliorare le proprie attitudini sociali, gli adulti della scuola non possono essere indifferenti a quanto vi accade in termini relazionali, al di là del mero insegnamento della specifica materia, dietro al quale è facile e comodo nascondersi per non entrare nella delicatezza dei problemi relazionali. Ma la scuola non è solo il luogo dell’apprendimento di nozioni, è il luogo in cui si apprende a stare con gli altri, a misurare le proprie potenzialità comunicative, il luogo in cui si impara a dare e ricevere rispetto, e dove, in questo gioco di reciprocità, i più deboli hanno il diritto di essere aiutati dagli adulti che dovrebbero riconoscersi e vedersi riconosciuta la dignità di  educatori e non di semplici insegnanti.

Forse qualcuno, leggendo l’articolo dell’ennesimo suicidio di adolescente (questo ha fatto rumore perché Anthony era un ragazzo adottato e di colore, ma i suicidi degli adolescenti per motivi scolastici sono spaventosamente numerosi) e apprendendo la sua condizione di figlio adottivo, avrà pensato ad un’adozione fallita: nulla di quanto Anthony ci ha lasciato scritto autorizza questo pensiero, qui, se mai, come in tanti altri casi, si deve pensare al fallimento della scuola e della società.

Un adottato adottante

Probabilmente questa contraddizione in Anthony era diventata insopportabile: lui che aveva avuto l’esperienza di essere accolto, si preoccupava che anche gli altri fossero accolti: voleva un mondo multietnico, voleva che la sorellina potesse godere fino in fondo l’esperienza di essere accolta: le raccomandazioni, ripetute che egli fa ai genitori di prendersi cura della sorellina, anch’essa, come lui, adottata, sono il segno chiaro di questa sua preoccupazione: il mondo è uno schifo per lui, la cui fragilità non regge la contraddizione tra la disponibilità affettiva del mondo familiare e l’indisponibilità espulsiva del mondo sociale.

Il fatto che non sia stata l’adozione e che non sia stata la famiglia la causa che l’ha portato a togliersi la vita, è in questa preoccupazione per le vite degli altri,  che è frutto dell’esperienza di essere stato accolto e di aver avuto vicino persone che si preoccupavano di lui.

Attenti a riempire l’Italia di figli adottivi stranieri per compensare le lacune provocate dalla sterilità crescente delle coppie: se non cresce parallelamente una cultura generalizzata dell’accoglienza, si rischia di porre tanti altri adolescenti nella condizione di Anthony: la condizione insostenibile, per una personalità particolarmente sensibile, di vedere assicurati per sé benefici rifiutati agli altri, e non ad altri qualsiasi, ma a quelli che hanno le loro stesse radici, quelli a cui li tiene legati la forza potente dell’appartenenza ad antiche radici comuni.

 

 

Commento di Emilia De Rienzo (3)

Anthony a 15 anni ha deciso lucidamente di togliersi la vita. Era un ragazzo d’origine indiana adottato a 8 anni da una famiglia di Firenze. Di fronte alla sua morte ci si rimane sbigottiti. La parola lascia il posto al silenzio, all’ascolto. Prima di morire ci ha lasciato una lettera che è un vero e proprio testamento spirituale. Ho letto e riletto le parole di Anthony, le ho sedimentate e fatte risuonare dentro di me. Mi è parso di udire la sua voce, di sentire la sua sofferenza. Non ho conosciuto Anthony, ma in quella lettera ho percepito un messaggio chiaro quanto drammatico: Anthony non avrebbe voluto morire. In lui, al contrario, c’era una gran voglia di vivere, ma non in un mondo tanto ingiusto e spietato che lo aveva fatto tanto star male. Il dolore e la sofferenza gli avevano tolto la forza ed avevano preso il sopravvento su di lui.

Anthony è morto con una speranza, di trovare nel regno dei cieli «più fratellanza tra gli uomini». Questo era il suo sogno, un sogno che forse condividiamo in tanti, ma per cui pochi sentono la necessità di lottare. Ognuno si ritaglia il suo angolino e non si accorge di quello che gli capita intorno.

Quello che ad un certo punto si chiede Anthony è come sia possibile continuare a vivere in un mondo così “mostruoso” da permettere che tanti bambini soccombano e muoiano senza aver conosciuto momenti di gioia e di serenità? Perché? Me lo sono chiesto tante volte anch’io ed è per questo che mi sembra giusto raccogliere l’appello tanto vitale di Anthony che era troppo piccolo e troppo provato per alzare la testa e reagire e ha preferito andarsene non senza però richiamare la nostra attenzione, lanciarci un appello: ci chiede di fare qualcosa.

Ed è proprio il desiderio di mantenere viva la sua memoria, il rispetto che gli dobbiamo per quello che ci ha saputo dire con le sue parole, che mi sollecita a fare qualche riflessione, a richiamare l’attenzione di noi adulti che siamo responsabili del mondo che stiamo creando e dei figli che stiamo crescendo. Insomma vorrei tanto poter dire ad Anthony: non sei morto invano, la tua vita non è stata inutile, perché qualcuno di noi ha ascoltato le tue parole e ha ricominciato a credere che un po’ della giustizia e fratellanza che tu chiedevi è possibile costruirla anche qui su questo mondo. E vorrei che mi ascoltassero anche i tuoi genitori il cui dolore non possiamo forse afferrare abbastanza: hai ragione Anthony a chiedere loro di continuare a lottare, perché l’aver tentato di salvarti, come tu stesso dici, è un gesto grande, meraviglioso di amore; è il gesto di chi non si arrende anche se sa di poter essere sconfitto, è il gesto di chi non si sottrae alle proprie responsabilità di adulto, di un adulto-genitore non solo di chi nasce dalla propria pancia, ma di tutti quei bambini che hanno bisogno della nostra protezione. Anche loro, però, io credo abbiano oggi bisogno della nostra solidarietà, di sentire che anche altri non si arrenderanno con loro.

Anthony ha voluto sottolineare che i genitori non solo non avevano nessuna responsabilità della sua morte, ma erano stati gli unici che avevano cercato di ridargli la vita che altri gli avevano sottratto e continuavano a sottrargli.

Sapeva forse Anthony come sono facili e superficiali i commenti dei giornali quando si trovano di fronte a tragedie come la sua, sapeva come poco sono avvezzi alla riflessione, all’autocritica, quanto poco aiutano la gente a pensare e a riflettere per cambiare, quanto sono abituati ad attribuire facili colpe per non interrogarsi.

La morte di Anthony ha il diritto di non diventare un puro fatto di cronaca, ma un appello alla riflessione, ad un ripensamento serio e profondo su un mondo che stiamo costruendo, un appello perché ci impegniamo a renderlo più a misura di uomo, più attento a chi è debole e fragile, a essere meno chiusi nei nostri piccoli e grandi egoismi che generano solo diffidenza e odio. Nessun bambino può essere felice in un mondo così e lo dimostrano i segnali che sempre di più emergono anche dalla nostra realtà.

Anthony è stato ucciso da due mondi: il primo è l’India dove è nato e dove non ha trovato quel nucleo caldo che è la condizione essenziale perché un bambino possa crescere in modo sano e sereno: un padre, una madre, una famiglia.

L’altro mondo è il nostro quello del progresso e della civiltà, il mondo occidentale, dove, però, l’indifferenza, l’incapacità di comunicare, la competizione e i modelli precostituiti hanno tolto ad Anthony quella speranza che gli era nata grazie alla sua famiglia adottiva.

Nascere vuol dire «essere messi al mondo», la vita ci è data e per questo si configura fin dall’inizio come relazione. Il bambino sente intorno a sé fin dai primi momenti di vita presenze, si sente anello di una catena parte di un tutto, ha bisogno che qualcuno si prenda cura di lui. E nel momento stesso che percepisce intorno a sé «presenze calde» attente ai suoi bisogni, il mondo si presenta come desiderabile, sente come dice Natoli «il piacere di esistere» perché condivide con altri qualcosa di sé. Sperimenta che la  vita è possibile solo nel legame con l’altro, percepisce i suoi limiti, ma nello stesso tempo capisce se qualcuno è lì per lui, per aiutarlo a superarli.

La vita è un cammino. Possono aprirsi possibilità o può chiudersi ogni speranza. Porte aperte o porte chiuse segnano il nostro destino.

E proprio nei primi anni della sua vita Anthony ha sperimentato il mondo come privazione, il dolore e la sofferenza come solitudine e assenza di qualcuno che si facesse carico di lui.

Poi a otto anni si apre una porta. Un padre e una madre gli offrono il loro amore, la loro presenza e il loro aiuto.

Finalmente Anthony ha una famiglia che lo ama e che impara ad amare. Quando entra nella sua casa si sente il «ragazzo più felice del mondo» e nella lettera ringrazia i suoi genitori «di cuore» perché hanno saputo «volergli veramente bene». La famiglia cerca di accendere una luce nell’esistenza di Anthony, di guidarlo verso l’uscita da quel tunnel in cui Anthony si era sentito fino a quel momento, di fargli assaporare quel calore che gli è sempre mancato. E veramente Anthony ritrova la gioia di vivere: sente che forse in questo mondo c’è posto anche per lui.

L’India sembra lontana e le ferite che gli ha inferto, anche se profonde e ancora doloranti, forse avrebbero potuto essere rimarginate o per lo meno sopportate se avesse trovato anche fuori dalla cerchia famigliare ascolto, se si fosse sentito accettato e apprezzato per quello che era. Ma non è stato così. Ha trovato solo indifferenza, egoismo che si sono trasformati a volte come atti di ostilità.

Anthony cerca degli amici, come tutti i ragazzi della sua età, amici che gli prestino attenzione, con cui condividere il dolore di un’infanzia perduta, che ascoltino la sua storia così diversa da quella di tutti gli altri. E nei momenti di stanchezza e di disperazione cerca in loro aiuto. Ma si sente respinto, sperimenta ogni giorno il rifiuto e ci dice «la gente non faceva altro che insultarmi per il colore della mia pelle, per la mia altezza di un metro e cinquanta e per il mio corpo magro senza un briciolo di muscolo…».

Trova rifugio nella sua famiglia, ma cosa può una famiglia da sola, anche se coraggiosa e accogliente, contro l’accanimento, forse inconsapevole ma quotidiano, di un mondo «esterno» che lo fa sentire «un verme»?

I bambini, i ragazzi sanno essere estremamente crudeli, ma sono loro stessi vittima di una realtà che ha perso i valori importanti, sono vittime di stereotipi da cui molto spesso sono imprigionati e colpiti loro stessi.

Galimberti della generazione compresa tra i dodici e quindici anni dice che spesso «ha un basso livello di autoconsiderazione, una sensibilità gracile, introversa, indolente, un’inerzia provocata da un’eccessiva esposizione agli influssi della televisione, un’unica preoccupazione: procurarsi un’incredibile quantità di prodotti, di oggetti di beni di consumo e di esibizione, perché il rapporto d’amore con i loro genitori è passato solo attraverso le cose e non attraverso il tempo, la disponibilità, la comunicazione». Certo non si può generalizzare, certo è che non possiamo negare che quello che si percepisce spesso intorno a noi è un’indifferenza emotiva sempre più diffusa. Lo spazio di riflessione si è ristretto, e «la generazione dei nostri figli è soggetta ad un bombardamento di stimoli eccessivi rispetto alla loro capacità di contenerli e di elaborarli».

Troppa televisione che dà false risposte ai problemi senza dare spazio per la riflessione personale e tanto meno collettiva.

I genitori hanno sempre meno tempo per stare insieme ai loro figli e, presi anche loro dal mito del consumismo, veicolano l’amore attraverso le cose che acquistano in abbondanza per soddisfare quei desideri infantili che vanno a occupare il vuoto di comunicazione. I ragazzi rimangono sempre più soli davanti ad una televisione e ad un computer, pieni di giochi sofisticati non sanno più giocare con gli altri bambini, sono sempre più soli nelle loro case.

Sembrano più adulti, perché hanno i desideri degli adulti, ma sono sempre più immaturi affettivamente, sempre meno sanno decifrare le loro emozioni, sanno parlare dei loro sentimenti e delle loro paure.

Tra di loro si sono disabituati ad ascoltarsi, a soccorrersi. Si giudicano per come vestono, per come riescono nei giochi, ma non si conoscono. In questo clima generalizzato che Galimberti chiama «analfabetismo emotivo» si ha sempre più difficoltà a esprimere sentimenti positivi come simpatia e gratitudine, i rapporti interpersonali si fanno più impersonali e non coinvolgenti, e si può fare del male all’altro senza più sentire rimorso o avere sensi di colpa, senza forse neanche rendersene conto.

L’aggredire l’altro è normale, prenderlo in giro, insultarlo è uno scherzo ricorrente che non ha coscienza di far del male. Ricordo, una volta, di aver chiesto a dei ragazzi a scuola il perché avevano preso a calci un compagno e di aver ricevuto questa risposta: «Per divertirci» e nel pronunciare queste parole si erano guardati fra di loro e avevano riso. Non era stato facile fargli capire quanto quella loro aggressione così gratuita fosse ingiusta e inaccettabile. Ma è quotidiano prendere di mira qualcuno e sfotterlo, farlo oggetto di scherzo senza accorgersi quando si supera il limite di sopportazione che l’altro può sostenere.

Starebbe a noi adulti far comprendere la differenza tra scherzo e offesa, tra divertimento e aggressione dell’altro, far notare che ciò che noi soffriamo è sofferenza anche nell’altro, che la sensibilità può essere diversa, che qualcuno può essere più vulnerabile di un altro. Starebbe a noi parlare di sentimenti, di emozioni, ma forse anche noi abbiamo perso questi valori, forse anche noi non ne siamo più capaci.

Troppo spesso copriamo i nostri figli quando sbagliano con gli altri, temiamo i loro problemi e li neghiamo perché forse non li sappiamo affrontare. Di fronte a gesti discutibili li giustifichiamo dicendo che sono “ragazzate”, che i ragazzi del resto devono imparare ad essere dei duri perché la vita è dura, non sappiamo metterli di fronte alle loro responsabilità quasi potessero col tempo farlo da soli o non fosse necessario. Desideriamo allevare ragazzi più intelligenti perché possano affrontare un mondo che ci appare sempre più competitivo, li vestiamo con le marche di moda al momento perché non si debbano mai sentire inferiori a nessuno e non ci accorgiamo che stiamo trascurando l’aspetto più importante della loro personalità, quello affettivo ed emotivo.

In una prima media iniziando a conoscere i ragazzi ho chiesto loro che cosa si aspettavano dai compagni della loro classe e molti mi hanno detto: «non essere presi in giro come nella scuola elementare» ed altri «trovare degli amici di cui fidarsi», dall’insegnante si aspettavano di essere aiutati nelle loro difficoltà e di poter parlare. E di una bambina che dichiarava di non avere paura di nulla venni a conoscenza che da tempo andava dallo psicologo perché di notte si svegliava continuamente per gli incubi. Si sentiva coraggiosa perché riusciva a vedere alla televisione tutti i films horror più spaventosi, però aveva paura della realtà. Questi sono solo piccoli spaccati di realtà di fronte a cui, noi insegnanti, ci troviamo davanti tutti i giorni.

Non era solo Anthony che aveva bisogno di essere capito e ascoltato, è un’esigenza di tutti; il problema è voler trovare lo spazio e il tempo in cui possano finalmente aprire i loro cuori. E spazio e tempo oggi gliene si dà veramente poco per questo.

Certo, hanno ragione a dire gli insegnanti di Anthony che tutto sembrava “normale”. Ma forse è questo il problema: non ci accorgiamo che questa normalità spesso non è sana, non produce benessere.

Quando la propria infanzia è stata felice e serena, si diventa più forti, più pronti ad affrontare le difficoltà, le sconfitte; un’infanzia di deprivazione rende, invece, fragili, frantumabili. Chi soffre regge al dolore se, a fronte delle possibilità chiuse, se ne aprono altre nuove.

E le parole di Anthony a questo proposito sono chiare. Ogni atteggiamento di indifferenza, di noncuranza o addirittura di aggressività aggiungeva ferite profonde ad un cuore già così profondamente provato fin dall’infanzia e così sensibile e fragile. Egli ci dice chiaramente come disperatamente aspirasse ad un colloquio autentico. Un mondo più attento agli altri, non chiuso nei propri egoismi avrebbe potuto capire e restituire a Anthony quello che non gli era stato dato.

E quando si parla di colloquio non si parla solo di parole, ma di sguardi, di atteggiamenti, di attenzioni vere e sincere. Alcuni ascoltano Anthony, ma non lo prendono sul serio; una risposta veloce e poi si torna a giocare con gli altri. Un bambino che soffre, è considerato spesso noioso quando non si scopre il valore della comunicazione, quando non si sa quanto è bello sentirsi vicino agli altri, far sentire la nostra presenza, quando un atto di solidarietà viene vissuto come una perdita di tempo.

In questo vuoto di comunicazione Anthony perde anche il coraggio di affrontare la vita, ogni possibilità di futuro gli appare sbarrata e la speranza lascia il posto alla disperazione e all’abbattimento.

Ogni progetto è impossibile, il mondo lo abbandona nuovamente e il presente lo riporta irrimediabilmente ad un passato da cui non si riesce più a liberare. L’India, come luogo che non gli ha dato «una buona nascita» incombe su di lui come una condanna definitiva. Perché di condanna si tratta. Anthony non si sente accettato da questo mondo e quindi si percepisce come non adatto, soprattutto non si sente all’altezza degli altri e di se stesso dice che «sarebbe stato uno dei tanti imbecilli che ci sono in questo maledetto mondo» e in modo chiaro e forte dice «la vita è un inferno».

Ma la scuola avrebbe potuto fare qualcosa? Io non so se avrebbe davvero potuto salvarlo. Credo, però, che gli insegnanti debbano interrogarsi sul malessere che percepiamo nelle nostre aule sia che si manifesti con l’aggressività sia con la fragilità. Non si possono liquidare i problemi dicendo che non ci competono, che non siamo né psicologi, né assistenti sociali.

È un problema della scuola se tanti bambini sono sempre più demotivati allo studio, se non trovano più interessi in quello che si insegna. Dobbiamo essere consapevoli che il più delle volte i ragazzi incontrano un’istituzione dove si va ad apprendere un sapere frammentato, un sapere che divide il corpo dalla mente, la ragione dall’emozione, la conoscenza dall’esperienza. Un’istituzione che si dimentica che ogni bambino entra al suo interno con la propria storia, con le proprie specificità, capacità e difficoltà, con le proprie paure, i propri sensi di inadeguatezza. Il bambino si prepara a non contare più molto come persona se non per la propria intelligenza.

Quando si chiede a un bambino perché impara l’italiano, la matematica, per esempio la risposta è quasi sempre, per imparare a scrivere, a leggere e a far di conto e non ha la percezione e la coscienza che tutto ciò che sta imparando dovrebbe insegnargli anche a comunicare, a esprimersi, a conoscere se stesso, a cimentarsi con il mondo che lo circonda sorretto dall’aiuto di chi lo segue e lo accompagna. Il maestro e il professore, il più delle volte, non vengono percepiti dai ragazzi come persone che lo guidano, lo aiutano ad orientarsi, ad affrontare le sue difficoltà, a scoprire le sue potenzialità e ad accettare i suoi limiti, ma piuttosto come persone che lo giudicano a volte senza appello. Questo non può essere.

È importante che la conoscenza sia opportunità di dialogo. Qualunque contenuto disciplinare prende senso dentro una relazione, poiché la questione dell’insegnare non è tanto quali informazioni trasmettere ma come trasformare le informazioni in conoscenza e la conoscenza è anche imparare a dare dei significati al mondo in cui si vive e dunque imparare a fare scelte consapevoli e il più possibile serene.

Le materie non devono essere materie morte, ma vivere nell’incontro con menti e anime.

L’apprendimento non può prescindere, quindi, dalla conoscenza di sé, e la conoscenza di sé non può avvenire in solitudine: sono le domande degli altri, è la loro voglia di stare a sentirci, di interessarsi a noi ad aiutarci a vederci come siamo, a vedere di noi le cose positive e ad imparare a correggere quelle negative. Se vogliamo che un ragazzo  metta in moto la propria intelligenza, la propria sensibilità, che scopra le proprie paure e i propri sensi di inadeguatezza, se vogliamo che impari a cimentarsi bisogna dare occasioni di incontro fra di loro e con noi, abituarli a prendere la parola, ad ascoltarsi e ad ascoltare gli altri, a riflettere sul rapporto tra di loro e su come il sapere scolastico può migliorare il proprio pensiero, a conoscere le proprie emozioni, a riflettere sui propri modi di ricordare, capire e imparare. I bambini non sono robots senza anima, e Anthony ce lo fa capire in modo chiaro: come è possibile che nessuno abbia tenuto conto della sua storia, ma non solo in modo pietistico, ma in quanto poteva arricchire gli altri se solo avesse trovato uno spazio in cui esprimersi.

Aiutare i ragazzi nell’apprendimento non può  prescindere dal creare un clima di classe sereno, una modalità comunicativa circolare per affrontare le questioni emergenti, la gestione dei conflitti, l’integrazione delle differenze soggettive.

Questo modo di insegnare pone l’insegnante in modo diverso nella classe: egli fa parte del gruppo con le sue specifiche competenze senza nascondersi dietro al suo sapere, con la sua persona, ma attento a mettersi in relazione anche con le singole individualità che ha di fronte e con le dinamiche di gruppo che via via si vengono a creare che possono essere di aiuto, ma anche fonte di sofferenza per molti. Solo così ogni ragazzo potrà dare senso al proprio percorso di apprendimento.

L’insegnante non cura malattie, non fa e non deve fare diagnosi (e spesso purtroppo le fa), non interpreta, ma molto semplicemente deve avere il desiderio di conoscere una storia, una persona per accompagnarla nel suo processo di crescita scolastica, per aiutarla nel difficile cammino dell’apprendimento, per capire dove il ragazzo si blocca, trova ostacoli per trovare insieme a lui strategie per superare le difficoltà, per individuare percorsi alternativi laddove il ragazzo non riesca a superare alcuni ostacoli. Il ragazzo di fronte a un insegnante che sa prendersi cura di lui non stenterà quasi mai a riconoscere le proprie responsabilità, ma non si sentirà giudicato o peggio squalificato.

Dialogare significa anche apprendere la democrazia e la vita, la solidarietà, la capacità di riconoscere il valore dei contributi al vivere insieme di tutti gli esseri umani.

Oggi più che mai la scuola sta andando in un’altra direzione. La scuola, a cui viene ingiunto di affrontare da sola la sfida della promozione sociale, a cui sempre si fa richiamo quando ci si trova di fronte al disagio giovanile, nella realtà viene progressivamente screditata e sottoposta ai desiderata del mercato del lavoro. La promozione delle nuove tecnologie ha sostituito il pensiero e la scuola rischia di diventare lo strumento di legittimazione di una divisione sociale che favorisce le ineguaglianze.

Riccardo Putrella in un articolo su “Le Monde” scrive: «La sfera educativa tende a trasformarsi in un “luogo” dove si impara una cultura di guerra (ognuno per sé, se riesci meglio degli altri e al posto loro) piuttosto che una cultura di vita (vivere insieme agli altri, nell’interesse generale). Le università, i poteri pubblici, gli studenti, le famiglie e persino molti sindacati, hanno - in generale - accettato questa cultura della competizione. Malgrado gli sforzi di buona parte degli educatori, il sistema è stato così spinto a privilegiare la funzione di selezione dei migliori, piuttosto che la funzione di valorizzazione delle capacità specifiche di ogni allievo».

Il mondo si divide tra i cosiddetti “qualificati” e i “non qualificati” che rimangono esclusi dal mondo produttivo e quindi dalla vita nella sua eccezione più generale, quelli tra cui si è sentito inserito Anthony («sarei stato uno dei tanti imbecilli che ci sono in questo mondo maledetto»).

No Anthony, non saresti stato un imbecille, forse te l’hanno fatto credere, ma quello che nella tua breve vita hai saputo capire tu, troppi adulti e troppi bambini non hanno mai saputo comprendere. Se così fosse stato tu saresti ancora vivo e molti bambini sarebbero oggi molto più felici di quello che sono. A noi oggi raccogliere questo tuo messaggio, a noi fare in modo che il mondo diventi più giusto. E hai proprio ragione a ricordare al primo ministro Berlusconi  che «il mondo potrà diventare pacifico se diventerà multietnico». Lo hai ricordato a lui, lo hai ricordato a tutti noi, perché credere in questo vuol dire accettare le differenze, rispettarle e valorizzarle.

Anthony, ti ricorderemo, non dimenticheremo il tuo messaggio.

 

 

(1) Testo integrale con le lettere in maiuscolo o sottolineate come nello scritto di Anthony.

(2) Psicologa e psicoterapeuta familiare.

(3) Insegnante, condirettore della collana di libri “Persone e società: i diritti da conquistare” e coautrice, fra gli altri, dei volumi editi dall’Utet Libreria “Una famiglia in più” e “Storie di figli adottivi - L’adozione vista dai protagonisti”.