Prospettive assistenziali, n. 140, ottobre-dicembre 2002

 

 

vessazioni, violenze e ingiurie di un insegnante

ad un alunno con handicap

 

 

Il Tribunale penale di Catania in data 20 novembre 2000 ha emanato la sentenza che riportiamo integralmente, osservando che nel caso in esame è stato ravvisato il reato di violenza privata che comporta pene molto più gravi rispetto a quelle previste per l’abuso dei mezzi di correzione.

Infatti, l’art. 610 del codice penale (violenza privata) stabilisce quanto segue: «Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni. La pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall’art. 339».

A sua volta l’art. 571 dello stesso codice penale (abuso dei mezzi di correzione o di disciplina) è così redatto: «Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi. Se dal fatto deriva una lesione permanente, si applicano le pene stabilite negli articoli 582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni».

 

Testo della sentenza

Con decreto del 29 dicembre 1995 il Procuratore della Repubblica in sede citava a giudizio B.A. davanti a questo giudice. Esaurita l’istruttoria dibattimentale ed ascoltate le conclusioni delle parti, all’udienza del 6 novembre 2000, il processo veniva definito come da dispositivo pubblicato in aula mediante lettura ed allegato agli atti. La laboriosa istruttoria dibattimentale (nove testi ascoltati, di cui uno ex art. 507 c.p.p.) consente una ricostruzione di accadimenti e condotte sufficientemente puntuale. Per comodità espositiva si premette, in sintesi, quanto dichiarato dalle mamme, firmatarie di un esposto, presentato all’inizio dell’anno 1994, nei confronti dell’insegnante B.A., facente parte del team docente, che si occupava della prima classe elementare del corso A della scuola del plesso di via S. Paolo di Gravina di Catania.

Caia ha riferito del profondo disagio psicologico del proprio figlio, il quale era giunto fino al punto di rifiutarsi di andare a scuola; aveva avuto modo di sapere, specie dalle altre mamme, di situazioni analoghe, stante che il proprio bambino aveva cercato di rimuovere col silenzio l’insostenibile situazione scolastica procurata dalla B., la quale, aveva appreso, alzava le mani sui bambini, la voce oltre misura e usava un linguaggio fortemente offensivo, che aveva l’effetto di inibire i giovanissimi allievi, i quali, innanzi al primo normale fallimento, venivano appellati per deficienti, incapaci, ecc. Ha raccontato anche il caso di una mamma costretta a far trasferire altrove la propria figlia e di altra che aveva lamentato lesioni fisiche ad un braccio della propria.

Tizia ha esposto che la propria figlia, nel mentre regolarmente procedeva a far i compiti che le venivano assegnati dagli altri insegnanti (in particolare dalla maestra F.), rifiutava letteralmente l’idea di far i compiti a lei assegnati dalla maestra B. Dopo le prime attese e i primi cauti tentativi di appurare il perché del detto comportamento, la donna, tenuto conto del crescere delle lamentele provenienti da altri genitori, decise di parlare con l’imputata, la quale la investì, con toni adirati, dichiarandole in faccia che sua figlia non era cosa di andare a scuola; la cosa parve del tutto ingiustificata alla Tizia, tenuto conto che si trattava di bambini di prima elementare alle prese con le prime settimane di scuola, tanto che dovette intervenire il marito della B. anch’egli docente del team, per sedare gli animi. Nel tardo pomeriggio del 28 gennaio 19994, la teste ebbe modo di constatare, sebbene la bambina non gliene avesse fatto cenno prima, che la stessa presentava una consistente dolenza al braccio destro, scoperto il quale, accertò la presenza di un livido. Chiesto chiarimenti, la piccola disse che quella mattina la maestra B. l’aveva a forza, trascinandola per il braccio, tirata fuori dal banco e condotta nel corridoio. Fatto effettuare reperto medico da presidio pubblico quella stessa sera (certificato in atti attestante contusione all’avambraccio destro), la Tizia seppe poi, che sua figlia, quella mattina, piangente e disperata, aveva trovato rifugio presso la maestra F., intenta, in altra aula, a far lezione ad altri alunni, ed era stata costretta, subito dopo, a forza di urli dalla Bar a ritornare nella propria aula.

Sempronia ha raccontato che il proprio figlio, che ancora oggi continua a riferirle ogni cosa, le diceva che la maestra B. soleva letteralmente ricoprire di epiteti gli alunni che commettevano errori o monellerie, applicando castighi inusuali e particolarmente vessatori, costringendo, ad esempio, il bambino punito a star fermo all’impiedi, anche per due ore, all’interno del perimetro di una mattonella; che usava dare schiaffi, e anche lui ne aveva ricevuti, e dar colpi con una bacchetta metallica, che teneva sulla finestra, sulle mani degli allievi che reputava più indisciplinati. A precisa domanda, la donna ha risposto che non si trattava di episodi occasionali, ma di una condotta abituale; né trattavasi di contestare il metodo didattico, più o meno severo, dell’insegnante, ma di vere e proprie condotte insopportabilmente vessatorie, tanto che ben altro tipo doveva ritenersi la pur ritenuta severa maestra F., la quale sapeva “tener la classe”, ma non faceva affatto ricorso a simili violenze.

Mevia ha dichiarato che la propria bambina le riferiva, sebbene lei non fosse mai stata toccata, di un urlare continuo dell’insegnante, la quale soleva colpire alle mani con una bacchetta metallica  i bambini. Quest’ultima circostanza è stata contestata dalla difesa sulla base delle dichiarazioni in precedenza rese dalla donna ai carabinieri, che non ne facevano cenno. La teste, tuttavia, ha precisato che la circostanza era vera e puntualmente gli era stata riferita dalla figlia, la quale aveva anche indicato il luogo dal quale la maestra prendeva la bacchetta (la finestra). Soggiungeva, inoltre, la Mevia, che un giorno, recatasi in classe verso le ore 11, per prelevare in anticipo la propria figlia, aveva avuto modo di assistere ad una violenta reazione dell’insegnante, la quale, a voce altissima, gridava, nei confronti di un bambino posto all’impiedi, e con furia, tanto da far rovinare a terra il banco, e traeva fuori lo zaino del predetto.

Martina ha dichiarato di essere stata costretta a trasferire il figlio per i metodi utilizzati dalla maestra B., i quali avevano sortito il risultato di ottenere il totale rifiuto del bambino della frequenza scolastica.

Il predetto, infatti, veniva continuamente umiliato con appellativi come “scemo, stupido, cretino”; sovente malamente strattonato e spintonato, né aveva la possibilità di aver riscontrati e indicati gli errori commessi, stante che i fogli sui quali il bambino aveva svolto i propri esercizi, venivano strappati. Né i colloqui, che precedettero la decisione, furono utili, poiché la B. appariva aggressiva e intrattabile anche con la madre.

Filana ha, nella sostanza, confermato il racconto delle altre mamme. Il proprio figlio le raccontava del clima di terrore vissuto dai bambini, che in lui si risolveva in un ammutolirsi inerte ed estraniato, e non mancò di dirle del maltrattamento di una compagnetta (la figlia della Tizia, J.), che tanto gli era rimasto impresso.

Katia ha, del pari, testimoniato del clima di terrore instaurato dalla B. fra gli alunni di prima elementare, circostanze a lei note per i racconti della figlia. Tuttavia, la difesa ha contestato l’asserto della donna, averle riferito la figlia di essere stata anche lei oggetto di schiaffi ad ogni sbaglio, perché in contrasto con le dichiarazioni in precedenza rese dalla teste ai carabinieri.

Wanda ha, anch’essa, esposto che il proprio figlio le raccontava di questa maestra, sempre arrabbiata, che, gridando, spaventava la scolaresca; nonché dell’uso di percuotere i piccolissimi allievi sulle mani con una bacchetta metallica, anche se il predetto bambino non aveva subito simile percosse.

Infine, l’insegnante F.M.A., sentita ex art. 507 c.p.p., nonostante l’evidente, umanamente comprensibile, tentativo di non dar mostra di volere infierire sulla collega, stretta dall’impegno di dire la verità, ha confermato l’episodio che aveva visto come protagonista passiva la piccola J., facendo chiaramente intuire che la bambina venne in malo modo e senza una ragione pedagogica apprezzabile portata nella sua classe (la B. aprì e “spostò la bambina dalla spalle…la sospinse… ma non la spinse”) in forte stato di agitazione, spaventata, non a suo agio, bisognosa di essere confortata ed acquietata; e che, poco tempo dopo, allorquando l’aveva mandata nella propria classe, ove vi era la B., a prendere il quadernone, per proseguire la lezione nella classe della F., era sopraggiunta l’imputata, rivendicandola nuovamente: “No, me la devo prendere io”. Ha, inoltre, confermato l’abitudine dell’imputata di usare toni di voce assai alti, tanto che era possibile sentirla a distanza, da classi non contigue.

È evidente,  a questo punto, a meno di non voler credere ad un’improbabile congiura, anche tenuto conto dei diversi anni trascorsi, che di molto hanno rasserenato gli animi, tanto che le deposizioni appaiono, nel loro complesso, serene ed equilibrate, che la B., oltre ad utilizzare strumenti pedagogici e didattici del tutto inadeguati (ma questa è questione che esula dal presente giudizio), forse a motivo di suoi turbamenti personali (che, tuttavia, in nulla elidono la sua penale responsabilità), dette luogo in quei primi mesi di scuola (abbandonerà, infatti, non molto dopo l’esposto delle madri e un periodo di congedo per  malattia, l’insegnamento) ad un vero e proprio  clima di terrore fra i bambini di età tenerissima (fra i cinque e i sei anni), appena usciti dalla materna e affacciatisi al mondo della scuola. Clima reso ancor più odiosamente intollerabile dalle umilianti vessazioni quotidiane  di cui le piccole innocenti vittime erano fatte oggetto: vessazioni foriere di pericolo di danno psicofisico non poco allarmante (basti pensare alla punizione della “mattonella”, specie in relazione alla sua intollerabile durata) per la disistima che generano nel bambino di siffatta tenera età, il quale va cercando sicurezze, rassicurazioni e conferme, appena uscito dalla stretta protezione dei genitori (l’infante appellato come imbecille, o cretino, o stupido, o come “cosa a non andare a scuola”, rischia di confermarsi nel ruolo, secondo la ben nota teoria dell’autoavveramento) e per i disturbi somatici che ne sono inevitabile conseguenza (come è noto alla scienza di settore, in simili casi la malattia, che diviene vera e tangibile, assume la funzione di rifugio e fuga). Questo giudice non è in grado di misurare, ad oggi, quali conseguenze possa aver avuto una simile condotta dell’insegnante; ma una conclusione  è certa: solo il tempestivo intervento dei genitori impedì il generarsi di guasti ancor maggiori.

Pur tenuto conto delle discrasie, invero non decisive, fatte rilevare dalle contestazioni della difesa, i fatti sono rimasti provati: oltre alle umilianti e vessatorie punizioni, un uso costante della violenza fisica vera e propria, schiaffi, spintoni, strattoni, bacchettate sulle mani (emblematico, in un certo senso, il caso della piccola J.).

Invariata la contestazione in fatto, deve escludersi che nel caso di specie, pur volendo aderire ad una, poi superata, posizione della Suprema Corte (Cass. sez. VI pen. n. 3526/1996), le finalità di simili trattamenti avessero scopo disciplinare e correttivo, rappresentando, invece, il libero (nel senso di arbitrario) sfogo dei privati disappunti, o disagi esistenziali di un adulto, posto, fra l’altro, in posizione dominante, nei confronti di inermi infanti. In ogni caso, in ossequio ai principi costituzionali (in specie quello che riconosce il supremo preesistente diritto della dignità dell’uomo (art. 2) e poi quello che sancisce la protezione speciale che è dovuta all’infanzia (art. 31, comma 2 Cost.) e alle numerose Convenzioni internazionali, cui l’Italia ha prestato adesione, o è tenuta a rispettarne i principi fondamentali, quale diritto comune delle genti (art. 10, comma 1 Cost.), l’uso della violenza fisica e di umilianti vessazioni non può, oggettivamente, considerarsi mezzo di correzione, del quale, semmai, punire l’abuso.

Sul punto, per esigenze di sinteticità motivazionale, si possono richiamare, sommariamente e senza pretesa di completezza, la Dichiarazione di Ginevra del 24 settembre 1924 (viene affermato per la prima volta il diritto del fanciullo ad una normale crescita psicofisica e spirituale e ad una protezione speciale); la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Onu, 10 dicembre 1948) proclama il bisogno di speciale assistenza che ha il bambino; il Preambolo della Dichiarazione  dei diritti del fanciullo (Assemblea generale Onu, 20 novembre 1959), che richiama le due Convenzioni prima citate; il Patto internazionale sui diritti civili e politici e quello sui diritti economici, sociali e culturali, approvati il 16 dicembre 1966 (ratificati con la legge n. 881/1977); la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, approvata a Roma il 4 novembre 1950; il Protocollo addizionale di Parigi del 20 marzo 1952, volto ad assicurare il diritto all’istruzione. È evidente come già negli anni ’60 veniva diffusamente avvertita, fra i Paesi di democrazia avanzata, l’esigenza di non escludere i cittadini al di sotto della maggiore età dai diritti dell’uomo e dalle libertà fondamentali; ponendosi, anzi, l’attenzione sulla peculiarità minorile, delicata fase di transito, nel corso della quale il minore (che altro non è, se non un uomo che cresce) ha bisogno di particolari cure, attenzioni, comprensione, atmosfere affettuose e amorevoli, per assicurarne un equilibrato sviluppo. Più di recente, i detti principi hanno trovato conferma ed espansione, con vasta adesione di stati, anche culturalmente distanti tra loro, nella Convenzione sui diritti del fanciullo approvata dall’Onu il 20 novembre 1989 a New York.

Si riporta, nello stesso segno e solo per maggior completezza, la massima della “storica” sentenza della Suprema Corte (Cass., sez. VI  pen., n. 4904/1996): «Con riguardo ai bambini il termine “correzione” va assunto come sinonimo di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. In ogni caso non può ritenersi tale l’uso della violenza finalizzata a scopi educativi: ciò, sia per il primato che l’ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, oramai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti, sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo della personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di convivenza, utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice. Ne consegue che l’eccesso dei mezzi di correzione violenti non rientra nella fattispecie dell’art. 571 (abuso dei mezzi di correzione), giacché in tanto è ipotizzabile un abuso (punibile in maniera attenuata), in quanto sia lecito l’uso».

La relativa brevità della condotta tenuta dall’imputata, cessata per l’energico intervento dei genitori, rivolto prima all’autorità scolastica e poi  a quella giudiziaria, fa dubitare in ordine all’integrazione del delitto di cui all’art. 572 c.p., che pur una qualche durevolezza di reiterazione richiede. Deve, invece, reputarsi configurato il delitto di violenza privata continuata esercitata sui bambini, costretti a subire le vessazioni (implicanti umilianti e dannose punizioni, violenze fisiche e psichiche, nonché ingiurie) di cui s’è ampiamente discorso, così qualificandosi, ai sensi dell’art. 521, comma 1, l’originaria rubrica. Ogni altro reato ipotizzabile avrebbe richiesto, per la procedibilità, querela, che non consta essere stata sporta.

Ciò posto, tenuto conto dell’incensuratezza e della condotta post delictum (abbandono dell’insegnamento), ma, tuttavia, dell’allarme sociale suscitato e della rilevanza dei fatti, pena adeguata può reputarsi quella di mesi sei (p.b. = m. 5: art. 81 c.p. = p.i.). L’incensuratezza consente di presumere che la sola minaccia di pena, che si sospende, possa dissuadere l’imputata dall’ulteriormente delinquere. L’avere abusato della propria funzione in danno di inermi bambini sconsiglia l’applicazione della non menzione.