Prospettive assistenziali, n. 139, luglio-settembre 2002

 

La difesa del diritto degli anziani cronici non autosufficienti alle cure sanitarie: la vicenda di mia madre

Antonio ronga

 

 

 

Mia madre Anna Martuscelli, classe 1921, viveva sola essendo vedova dal 1996; non aveva particolari problemi di salute; era in cura da diversi anni per ipertensione, scompenso cardiaco, sindrome depressiva associata a stati d’ansia e fobie varie. Nonostante ciò, riusciva a gestirsi discretamente. È stata mia cura darle aiuto quando necessario, cercando di soddisfare quelle necessità quotidiane alle quali lei non era in grado di far fronte.

Il 16 gennaio 2000, era una domenica mattina, recandomi come consuetudine quotidiana oramai da quattro anni a farle visita, la trovai riversa sul pavimento dell’entrata del suo appartamento.

Per entrare, fu necessario l’intervento dei vigili del fuoco, in quanto essa aveva l’abitudine di lasciare la chiave inserita nella parte interna della serratura della porta d’ingresso.

Era abbastanza cosciente, ma non ricordava nulla dell’accaduto; indossava ancora la camicia da notte e si era orinata addosso.

Vidi che le tapparelle della camera da letto erano ancora abbassate e il letto intatto; dedussi allora che vi erano buone possibilità che essa fosse caduta la sera precedente senza avere la possibilità di chiedere soccorso.

Trasportata al pronto soccorso dell’ospedale “Giovanni Bosco”, venne sottoposta a cure ed accertamenti del caso: gli fu riscontrata una frattura al bacino e la Tac cranica evidenziò una “vascolopatia cerebrale cronica con atrofia cortico-sottocorticale diffusa”, una patologia che probabilmente mia madre accusava da lungo tempo, ma la caduta aveva aggravato il quadro psichico.

In tarda serata, nonostante le nostre proteste, mia madre venne dimessa dall’ospedale con prognosi di trenta giorni di assoluto riposo a letto.

Assistere la mamma la settimana successiva fu più arduo del previsto.

Mio fratello, separato dalla moglie, viveva e lavorava a Rivoli ed essendo, tra l’altro, sprovvisto di patente di guida, non ha mai potuto darmi un appoggio adeguato.

L’assistenza esterna fu praticamente irrilevante: l’Asl mise a disposizione del personale infermieristico, ma solo per un paio d’ore e per due o tre giorni alla settimana. Per la pulizia e l’igiene di mia madre consigliarono di rivolgerci al servizio assistenza del Comune.

Naturalmente per ottenere queste prestazioni dovevamo espletare le solite lungaggini burocratiche, per cui nel frattempo siamo stati costretti ad aggiustarci.

Mia madre si è dimostrata una paziente difficile da gestire: era capricciosa ed irrequieta, si alzava continuamente nonostante i forti dolori che accusava, voleva andare in bagno, fare la spesa, cucinare, ecc.

Durante la notte del sabato successivo, la mamma accusò problemi respiratori per cui decisi di riportarla al pronto soccorso del già menzionato ospedale, dove venne ricoverata in osservazione.

Dopo alcuni giorni, venne trasferita nel reparto neurologico dove vi restò una quindicina di giorni. Faccio presente che durante la degenza di mia madre i medici dissero che la frattura del bacino non era in via di guarigione perché mia madre non “aveva rispettato” la prescrizione dell’ortopedico. Tuttavia ricordo che essi fecero nulla per immobilizzarla a letto con le opportune precauzioni del caso, così che essa continuava ad alzarsi e passeggiare per la camera.

Mia moglie ed io decidemmo di accettare le dimissioni dall’ospedale visto che le pressioni da parte dei medici erano ormai quotidiane; l’ospitammo a casa nostra in attesa di inserilrla in una struttura per lungodegenti. In precedenza avevamo compilato, con l’assistente sociale dell’ospedale, una serie di richieste di ricovero in queste strutture; al momento delle dimissioni la stessa assistente sociale ci fornì una lista delle strutture che avevano accettato la domanda e assicurò che nell’arco di dieci/quindici giorni la mamma sarebbe stata ricoverata.

Mi resi conto che tutto ciò era falso. Alcuni giorni dopo, contattando le case di cura private convenzionate con la Regione per avere informazioni in merito, mi fecero presente che i tempi di attesa erano molto più lunghi: trenta/quaranta giorni ed oltre; inoltre una delle strutture accettava esclusivamente pazienti provenienti dall’ospedale.

Naturalmente i tempi si riducevano sensibilmente se si accettava il ricovero in camere da uno o due letti, pagando però una quota che variava da 50 a 100 mila lire al giorno.

Io e mia moglie ci sentimmo profondamente sfiduciati e delusi. Dovevamo nuovamente gestire una persona le cui condizioni, in particolare quelle mentali, erano molto precarie, ma cercammo di fare del nostro meglio.

Il venerdì notte successivo, durante una delle sue solite passeggiate notturne (vorrei far presente che mia madre assumeva sedativi la sera prima di andare a letto, ma evidentemente con scarsi risultati), essa ricadeva nuovamente.

La trovò mio figlio rientrando a casa. Noi, purtroppo, dopo aver trascorso le notti precedenti insonni, eravamo rimasti addormentati.

Cadendo si era provocata una profonda ferita al cuoio capelluto, che sanguinava abbondantemente; contattammo il 118 e trasportammo nuovamente mia madre al pronto soccorso di cui sopra, dove  le furono applicati punti di sutura e venne sottoposta a controlli di routine.

Nel tardo pomeriggio, il medico ci rassicurò sulle condizioni della mamma: non vi erano lesioni cra­niche interne, ma la caduta aveva provocato una frattura all’acetabolo sinistro e, visto che – a suo avviso – non vi erano presupposti per un ricovero, disponeva per le dimissioni.

Questa volta ci opponemmo decisamente, facendo presente che non eravamo più in grado di garantire una adeguata assistenza a nostra madre.

Tutto si rivelò inutile; anzi, fummo oggetti di minacce da parte del sanitario di ricorrere alla Polizia e sporgere denuncia di abbandono se non portavamo a casa nostra mia madre. Noi fummo irremovibili.

 

L’intervento del Csa - Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti

Una nostra conoscente ci fornì il recapito telefonico del Csa - Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti, che contattammo immediatamente.

La signora Breda ci consigliò di inviare al Direttore generale dell’Asl 4 e al Direttore sanitario dell’ospedale Giovanni Bosco un telegramma di opposizione alle dimissioni (1) seguito in data 21 febbraio 2000 da due raccomandate con ricevuta di ritorno (2).

La signora Breda volle parlare personalmente con l’agente di servizio presso l’ospedale, che dietro invito del medico, ci aveva convocati nel suo ufficio: risultò che non aveva alcuna competenza in merito alle dimissioni.

Inoltre, il responsabile del Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti inviò in data 21 febbraio 2000 al Direttore sanitario dell’Asl 4 una lettera in cui, fra l’altro, chiedeva se era vero che «un medico dell’ospedale Bosco ha chiamato i carabinieri per ottenere la dimissione di una persona malata non autosufficiente».

In data 29 febbraio 2000, il suddetto Direttore precisava che i medici del pronto soccorso, dopo aver deciso di trattenere la paziente a seguito dell’opposizione del figlio, si erano rivolti al poliziotto di servizio presso l’ospedale al solo scopo «di identificare i parenti con certezza, data la situazione equivoca e potenzialmente conflittuale tra paziente e parenti».

Ricordo che sia noi che il Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti non abbiamo ricevuto una risposta alle lettere inviate per opporci alle dimis­sioni.

Mia madre restò ricoverata al pronto soccorso per un paio di giorni, poi il lunedì successivo, mia moglie ed io siamo stati invitati a presentarci dal medico responsabile del pronto soccorso.

Dopo lunghe e animate discussioni, si trovò un posto letto presso l’ospedale geriatrico “Luigi Einaudi”, gestito dalla stessa Asl 4, dove la mamma fu trasferita in serata e finalmente sistemata in un letto adatto alle sue condizioni.

È doveroso da parte mia far presente, onde evitare di ripetermi, che da quella sera sino ad oggi, tutto ciò che ha riguardato mia madre (trasferimenti, ricoveri, proposte varie, ecc.) è stato gestito con la preziosa assistenza del Csa - Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti.

Mia madre restò ricoverata in geriatria per circa un mese; successivamente verso metà marzo con il nostro consenso, fu trasferita nella clinica per lungodegenti “Villa Grazia” di San Carlo Canavese, dove lentamente si riprese.

Le fratture erano guarite e iniziò con l’aiuto della fisioterapista a camminare.

Purtroppo le condizioni mentali non erano migliorate, per cui continuava a compiere stranezze e a fare discorsi senza senso.

Durante la degenza all’ospedale Einaudi fu sottoposta da un’apposita commissione, ad una visita per la valutazione geriatrica; venne ritenuta idonea per essere trasferita in una Rsa.

Successivamente le venne riconosciuto il 100% di invalidità, ma senza l’indennità di accompagnamento.

Dopo un paio di mesi, non senza discussioni, con invio da parte nostra al direttore sanitario di “Villa Grazia” che voleva dimetterla, di una lettera raccomandata uguale a quella spedita all’ospedale Bosco, la mamma fu trasferita per accertamenti presso l’ospedale di provenienza.

Nel mese di ottobre 2000, a causa della chiusura dell’ospedale Einaudi, struttura dichiarata obsoleta, mia madre veniva trasferita all’ospedale Giovanni Bosco, anch’esso gestito direttamente dall’Asl 4, dove rimaneva ricoverata sino al 10 ottobre 2001, quando, su proposta della stessa Asl 4, fu inserita nella Rsa di nuova costruzione dell’Asl 2 situata in via Gradisca 10, Torino.

È trascorso ormai un anno e mezzo da quel lontano 16 gennaio 2000 quando la mamma era stata ricoverata al pronto soccorso per la prima volta; vive in un mondo tutto suo, fuori dalla realtà; ha ricordi remotissimi, ma il più delle volte non ricorda di aver mangiato o che cosa ha mangiato; alterna momenti di lucidità a momenti di apatia; scambia sovente l’identità delle persone e commette le solite stranezze; fortunatamente riesce ancora a camminare anche se in modo precario e si alimenta da sola.

Durante l’anno in cui mia madre è rimasta ricoverata presso l’ospedale Bosco, non ho più ricevuto pressioni da parte dei medici riguardanti le dimissioni, anche se a volte hanno cercato di convincermi a trasferire la mamma presso altre strutture per lungodegenti.

Ultimamente mi avevano offerto un ricovero presso la clinica ”Major”. Mi sono recato sul posto ed ho constatato che la struttura non garantiva i servizi essenziali; inoltre, non venivano forniti i pannoloni: pertanto ho rifiutato.

Molte volte durante questo lungo tempo mi sono chiesto come sarebbe la mamma se le cose fossero andate per il verso giusto, e cioè se fosse stata subito ricoverata, risparmiandole tutti quei traumi che essa accusò in quei continui sballottamenti e se, assieme a cure e assistenza, le fosse stato fornito un adeguato supporto psichiatrico e psicologico.

Segnalo, infine, che con il patrocinio dell’Utim ho ottenuto in data 21 marzo 2001 l’interdizione di mia madre e la mia nomina a tutore. Preciso che la procedura è stata avviata dall’Utim in modo che non ho sostenuto spese di alcun genere.

 

 

(1) Il testo del telegramma inviato al direttore sanitario dell’ospedale in data 19 febbraio 2000 era così formulato:

«Il sottoscritto Ronga Antonio, figlio di Martuscelli Anna, ricoverata dalle ore 4.00 del 19.2.2000 presso il vostro pronto soccorso affetta tra l’altro da vascolopatia cerebrale cronica e frattura del bacino respinge le dimissioni della propria madre in quanto impossibilitato a curarla adeguatamente. Segue lettera».

(2) Il testo delle due raccomandate era il seguente:

«Il sottoscritto Ronga Antonio, abitante in Torino,  via … n. …; che agisce anche in nome e per conto del proprio fratello, visto l’art. 41 della legge 12.2.1968 n. 132 (che prevede il ricorso contro le dimissioni) e tenuto conto che l’art. 4 della legge 23.10.1985 n. 595 e l’art. 14 n. 5 del decreto legislativo 30.12.1992 n. 502, consentono ai cittadini di presentare osservazioni e opposizioni in materia di sanità, chiede che la propria madre Martuscelli Anna, abitante in Torino, via … n. …, attualmente ricoverata e curata presso l’ospedale Bosco, non venga dimessa o venga trasferita in un’altra struttura sanitaria per i seguenti motivi:

1) la paziente è affetta da vascolopatia celebrale senile, non è autosufficiente e non è in grado di programmare il proprio futuro;

2) lo scrivente non è in grado di fornire le necessarie cure alla propria madre.

«Fa presente che le cure sanitarie, comprese quelle ospedaliere, sono dovute anche agli anziani cronici non autosufficienti ai sensi delle leggi 4.8.1955 n. 692, 12.2.1968 n. 132 (in particolare art. 29), 17.8.1974 n. 386 (le prestazioni ospedaliere devono essere fornite “senza limiti di durata”), 13.5.1978 n. 180, 23.12.1978 n. 833 (in particolare art. 2, punti 3 e 4 e lettera f). Si ricorda, inoltre, che il Pretore di Bologna, Dott. Bruno Ciccone, con provvedimento del 21.12.1992, ha riconosciuto il diritto della signora P. F., nata nel 1913, degente in ospedale dal 1986, di “poter continuare a beneficiare di adeguata assistenza sanitaria usufruendo delle prestazioni gratuite del Servizio Sanitario Nazionale presso una struttura ospedaliera e non di generica assistenza presso istituti di riposo o strutture equivalenti”.

«Si segnala, altresì, la sentenza della 1ª  Sezione civile della Corte di Cassazione n. 10150/1996 in cui viene riconfermato che:

• le leggi vigenti riconoscono ai cittadini il diritto soggettivo  (e pertanto esigibile) alle prestazioni sanitarie, comprese le attività assistenziali a rilievo sanitario;

• le cure sanitarie devono essere fornite sia ai malati acuti che a quelli cronici;

• essendo un atto amministrativo, il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8.8.1985 non ha alcun valore normativo.

«Ai sensi e per gli effetti della legge 7.8.1990 n. 241, chiede che gli venga inviata una risposta scritta.

«Lo scrivente si impegna a continuare a fornire al proprio congiunto tutto il possibile sostegno materiale e morale compatibilmente con i propri impegni familiari e di lavoro. Chiede pertanto che, nel caso di trasferimento in altre strutture, non venga allontanata dalla città di Torino».

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it