Prospettive assistenziali, n. 139, luglio-settembre 2002

 

Dopo 40 anni di volontariato sono accusato per aver difeso il diritto alle cure sanitarie di una anziana gravemente malata

francesco santanera

 

Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino, Diamante Minucci, in data 6 febbraio 2002 ha dichiarato «non doversi procedere nei confronti di G.P. perché il fatto non sussiste».

Il signor G.P. era stato accusato dalla Procura della Repubblica di Torino di aver abbandonato «la madre C.P. in condizioni di dipendenza per alcune funzioni di base (fare il bagno, vestirsi, l’uso dei servizi, spostarsi, continenza) e parzialmente dipendente nelle attività strumentali, ricoverata presso l’ospedale G. Bosco, rifiutando di ricondurla presso la sua abitazione (nonostante la dimissibilità della parte offesa) e cagionandole un peggioramento, prima nelle capacità di orientamento, nell’attenzione e nelle capacità di riprodurre figure (aprassia costruttiva) a cagione della prolungata ospedalizzazione, poi nelle condizioni generali fisiche e cognitive che la conducevano alla morte in data 15 novembre 1999».   

Come vedremo in seguito (cfr. l’allegato B), dalla controperizia redatta dal dottor Luigi Pernigotti, Coordinatore della Sezione clinica della Società italiana di geriatria e gerontologia e Responsabile dell’Unità operativa di geriatria dell’Ospedale Martini di Torino, risulta, invece, che la madre del signor G.P. era sofferente per una grave malattia del cervello (demenza).

 

Accuse del tutto infondate

Nel provvedimento di assoluzione, il giudice per le indagini preliminari mi incolpa di aver incoraggiato il signor G.P. a disinteressarsi della propria madre.

In primo luogo, ritengo inammissibile che un giudice, senza avermi interrogato, scagli accuse, peraltro del tutto infondate, in un provvedimento che non mi concerne ed in merito al quale non posso, quindi, presentare alcun ricorso alla magistratura per ottenere che sia ristabilita la verità e vengano cancellate le infamanti critiche fatte nei miei riguardi.

Gli addebiti rivoltimi dal giudice per le indagini preliminari sono estremamente pesanti. Afferma, infatti, che mentre «i servizi e gli operatori medico sanitari cercano più volte la collaborazione e la disponibilità del figlio al fine di consentire alla signora di riprendere la sua vita domestica», il signor G.P. «in questo trovando appoggio e soprattutto guida in tale Francesco Santanera, esponente del “Comitato difesa dei diritti degli assistiti”, si rifiuta categoricamente di “aiutare” la madre in ipotesi di dimissione in quanto “non autosufficiente” e non sempre capace di programmare il proprio futuro».

Debbo subito precisare che non ho mai praticato i comportamenti attribuitimi dalla dottoressa Minucci. Infatti, da 40 anni sono impegnato come volontario a tempo pieno nella difesa delle esigenze e dei diritti dei soggetti deboli, in particolare di coloro che, a causa della gravità delle loro condizioni di salute, non sono in grado di autodifendersi. Dunque, ho sempre agito e spero di poter continuare ad operare per una effettiva giustizia sociale, senza alcuna arroganza, ma anche senza cedimenti.

 

Il giudice per le indagini preliminari esclude il reato di abbandono

Nella prima parte della sentenza, in cui viene esaminata la sussistenza o meno del reato di abbandono, la dott.ssa Minucci dapprima rileva che «la signora C.P., anche se dichiarata dimissibile, non era per i problemi psico-fisici che aveva, autonoma»; in merito alla condotta del figlio, scrive che «certamente egli non aveva abbandonato la madre dal punto di vista materiale».

Nel provvedimento il magistrato si sofferma ad
illustrare la portata dell’articolo 591 del codice penale (1). Al riguardo, precisa quanto segue: «Perché sussista il reato de quo è necessario che dalla condotta di abbandono derivi un pericolo di vita o dell’incolumità della persona» e aggiunge: «Le numerose pronunce della Suprema Corte di Cassazione intervenute sul punto sono tutte nel senso che questa situazione di instabilità, di pericolo debba riguardare l’integrità fisica e non anche quella psichica della persona. Del resto una diversa interpretazione renderebbe difficilmente delineabili i confini della fattispecie normativa, posto che appare arduo stabilire in quali casi da una situazione di abbandono sia derivata una situazione di pericolo psichico per la vittima. E nel caso di specie si deve escludere che, anche laddove si ritenesse il comportamento dell’imputato definibile come abbandono, da esso sia derivato un pericolo per l’incolumità fisica della madre».

Precisato quanto sopra, e cioè che il signor G.P. non poteva essere accusato di alcuna colpa giuridicamente perseguibile, non riesco a capire per quali reali motivi il giudice per le indagini preliminari abbia voluto prendere in esame anche gli elementi psicologici dell’inesistente reato.

Preso atto che le sentenze delle Suprema Corte di Cassazione sono tutte orientate nel senso indicato dal giudice per le indagini preliminari, mi sono anche interrogato circa i motivi in base ai quali la Procura della Repubblica ha accusato il signor G.P.

 

Altri ingiustificati addebiti attribuitimi

Affrontando l’elemento psicologico, il giudice  per le indagini preliminari, ripeto senza avermi mai interrogato, sostiene che «appare evidente l’influenza del Francesco Santanera sul comportamento dell’imputato».

Senza verificare se le affermazioni dell’imputato fossero vere o false, nella sentenza la dott.ssa Minucci scrive quanto segue: «Nel corso dell’interrogatorio del 7 giugno 2001 G.P. racconta di essersi recato presso il Comitato difesa degli assistiti ove il sig. Santanera, dopo aver esaminato la documentazione  che gli presentò, gli disse che doveva assolutamente evitare che la madre fosse dimessa dall’ospedale in quanto anziana cronica e non autosufficiente. Gli mostrò un opuscolo del Comitato inerente i diritti dei malati non autosufficienti e due lettere che avrebbe dovuto inviare all’ospedale, al direttore dell’Asl 4 ed al Presidente della 4ª Circo­scrizione».

Il magistrato ha aggiunto che «le dichiarazioni dell’imputato trovano conferma in una lettera a firma F. Santanera inviata al Pubblico Ministero, nella quale l’autore, prestando all’epoca ancora la sua opera di consiglio presso il G.P., afferma d’avere predisposto una lettera per conto dello stesso da inviare al Direttore generale dell’Asl ed altra per disdire l’impegno assunto per il ricovero della madre».

Non appagata dalle affermazioni sopra riportate, la dott.ssa Minucci conclude la sentenza con un gratuito  insulto nei miei riguardi, sostenendo che «anche qualora fosse dimostrata la sussistenza degli elementi materiali del reato, “stato di abbandono” dal quale sia derivato un pericolo per la vita o per l’incolumità della persona, non si ritiene che il G.P., persona di modesta cultura, abbia avuto, specie dopo gli insegnamenti ed indottrinamenti  del F. Santanera  che con sicumera gli confermava essere nel giusto, la consapevolezza del proprio comportamento».

 

La realtà dei fatti

I fatti si sono svolti in modo molto diverso rispetto a quanto risulta dalla sentenza. Al signor G.P., com’è successo per le 6-7 mila persone che finora si sono rivolte al Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti, ho fornito informazioni (come continuerò a fare in futuro) circa il diritto, sancito dalle leggi vigenti, alle cure sanitarie degli anziani colpiti da patologie invalidanti e da non autosufficienza. Mai i componenti del Comitato, ovviamente compreso chi scrive, hanno esercitato pressioni di sorta sulle scelte di competenza dei malati e dei loro congiunti. Anzi, a tutti è sempre stata segnalata la validità delle cure domiciliari (2).

Per quanto riguarda la lettera che ho indirizzato in data 16 settembre 1999 al dottor Marco Bouchard, Sostituto Procuratore della Repubblica di Torino, il testo integrale è il seguente: «Avendo saputo dell’invio da parte Sua di un avviso di garanzia al signor G.P., abitante in Torino, via Abc, desidero informarLa di quanto segue:

– per il signor G.P., rivoltosi al Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti segnalando che sua  mamma C.P. era malata, non autosufficiente e non in grado di programmare il proprio futuro, ho predisposto la bozza di lettera, di cui unisco fotocopia (allegato 1) (3), lettera che il signor G.P. ha inviato con raccomandata r.r. al Direttore generale dell’Asl 4 e al Direttore sanitario dell’Ospedale Bosco di Torino in data 16 dicembre 1998;

– ritenendo che la signora C.P. avesse diritto alle cure sanitarie gratuite e senza limiti di durata, ho anche predisposto per lo stesso signor G.P. la bozza di lettera (cfr. l’allegato 2) (4) per disdire l’impegno assunto dal suddetto per il ricovero della propria madre presso una struttura dell’assistenza sociale e, quindi, a pagamento.

«Ciò premesso, La prego di voler valutare se vi sono responsabilità penali da parte mia per aver indotto il signor G.P. a chiedere al Direttore generale dell’Asl 4 e al Direttore sanitario dell’Ospedale Giovanni Bosco di fornire le cure occorrenti per la propria madre.

«Nel caso lei mi ritenesse responsabile sul piano penale, nomino fin d’ora quale mio difensore l’Avv. Roberto Carapelle con studio in Torino, via Berthollet 43.

«Colgo l’occasione per informarLa che sono rimasto molto sorpreso del fatto che, invece di rispondere, come prevede la legge n. 241/1990, alla lettera raccomandata inviata dal signor G.P. alla Direzione sanitaria dell’Ospedale Bosco, dall’Ospedale stesso sia stata avviata l’iniziativa che ha determinato l’invio dell’avviso di garanzia».

 

La vicenda ha un seguito non inaspettato

Come avevo previsto, il caso del signor G.P. viene reso pubblico. Infatti, su La Stampa del 28 aprile 2002, con un titolo a piena pagina  compaiono due articoli. Il primo, firmato da Alberto Gaino, reca il titolo “Abbandonò la mamma in ospedale, è assolto. La donna morì di malinconia. Il giudice: il figlio pensava fosse curata”. Il secondo, redatto da Grazia Longo, porta questa intestazione: “La solitudine nemica degli anziani. Per loro serve l’assistenza a casa”. A fianco dei due servizi è collocata una fotografia, commentata con questa scritta: “Molti sono gli anziani ricoverati in ospedale non per vere malattie ma perché la famiglia non può o non sa come assisterli”.

L’articolo di Gaino, che conosce da molti anni l’attività svolta dal Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti, inizia con la seguente esposizione: «Morì in ospedale, dopo un ricovero durato un anno, non tanto perché fosse anziana (77 anni) e ricca solo di acciacchi: la Signora C.P. avrebbe voluto tornare a casa, al San Giovanni Bosco non era e non si sentiva al posto suo; cominciò a  rifiutare il cibo e ad andarsene così. Un caso tutt’altro che singolare, ma che di insolito ha avuto uno sviluppo post-mortem dell’anziana: il processo al figlio pensionato di 57 anni per abbandono, dopo che l’uomo si era rifiutato a sua volta di collaborare al ritorno a casa della signora. G.P., negò ai servizi sociali la chiave dell’appartamento della madre, malgrado l’Asl di zona e il Comune avessero predisposto un consistente piano di assistenza domiciliare per lei, ha ricostruito il medico legale Virginio Oddone».

Dopo la sopra riportata premessa, il Gaino scrive, senza avermi interpellato in merito, che il comportamento del figlio era stato «confortato dall’incoraggiamento di Francesco Santanera del Comitato di difesa dei diritti degli assistiti».

Non bastavano le affermazioni infondate del giudice, anche il giornale La Stampa ha sentito la necessità di infangare l’attività del Comitato e la mia persona (5).

Con la scritta riportata sotto la fotografia, inoltre, il giornale torinese ha ripetuto un falso macroscopico che ha creato e crea disastrose conseguenze sulla vita di decine di migliaia di anziani malati e delle loro famiglie. Infatti, come da sempre sanno coloro che rispettano la verità, gli anziani non autosufficienti sono persone colpite da patologie invalidanti così gravi da determinare anche la loro dipendenza da terzi. Altro che «malattie non vere».

Certo è che, fino a quando non si riconosceranno le condizioni patologiche dei vecchi non autosufficienti, continueranno a verificarsi situazioni fortemente lesive dei loro diritti più elementari quali, ad esempio, la carenza di interventi terapeutici e di iniziative rivolte a contrastare il dolore.

 

Una nota aggiuntiva inquietante e non richiesta

Il procedimento a carico del signor G.P. trae origine dalla richiesta avanzata dalla Procura della Repubblica di Torino al dottor Virginio Oddone di una consulenza tecnica sulle condizioni psichiche (6) per conoscere «quali siano state le conseguenze sul piano dell’equilibrio psico-fisico della signora C.P. della permanenza ospedaliera oltre le strette necessità ritenute dai sanitari e se vi sia stato un nesso causale fra il mancato rientro della signora C.P. presso la sua abitazione e la morte» (7).

Consegnata la relativa relazione, pur avendo esaurito il suo compito, il consulente tecnico d’ufficio ha inviato alla Procura della Repubblica una nota che dagli atti consultati non mi risulta che gli sia stata richiesta, avente il seguente significativo oggetto: «“Parcheggio” anziani con il pretesto del diritto alle cure gratuite».

In primo luogo, il dottor Oddone sostiene che in merito al “parcheggio” di cui sopra «il punto di partenza è il problema, veramente drammatico, dei costi – economici ma anche umani – delle cure agli anziani che perdono la propria autosufficienza, che sono molto elevati per il familiare che veramente se ne voglia occupare, soprattutto poi se le risorse del malato siano esigue od inesistenti».

Al riguardo, prosegue affermando che «le risposte legislative sono sempre state limitate», dimenticando che tutte le leggi approvate (692/1955, 132/1968, 386/1974, 180 e 833/1978) hanno riconosciuto il diritto degli anziani cronici non autosufficienti alle cure sanitarie gratuite e senza limiti di durata, comprese – occorrendo – quelle praticate in ospedale o in altre strutture sanitarie (8).

Nella suddetta nota aggiuntiva, il dottor Oddone scrive, altresì, quanto segue: «Un gruppo privato – il Csa di Torino – del quale è magna pars Francesco Santanera (...) elaborò nel corso degli anni Ottanta una strategia difensiva, da utilizzare nel caso di anziani non autosufficienti ricoverati in ospedale, che si richiama al diritto costituzionale del cittadino di ricevere cure gratuite in ospedale».

Infine, afferma: «Devo però aggiungere che attorno alle lettere del Csa si è venuto in questi anni creando un balletto di rinvii, che ha avuto effetti non piccoli anche sul piano amministrativo. Come Lei potrà notare dalla relazione 1.2.1999, inviata dall’allora Direttore generale dell’Asl 4 alle Regione in risposta ad un quesito di diversa natura, il rifiuto alle dimissioni rappresenta uno dei principali fattori che hanno alimentato il ricorso alle case di cura private. La situazione – conclude il Dr. Oddone – non riguarda solo l’Asl 4 ma, a quanto mi consta, un poco tutti gli ospedali torinesi: non ho dati per quelli della cintura».

Ne deriva che, anche in questo caso senza che sia mai stata fatta alcuna contestazione scritta o orale, non solo sono accusato di aver incoraggiato l’abbandono degli anziani, ma anche di aver arrecato danni economici, evidentemente rilevanti, al Servizio sanitario regionale. Inoltre, avrei favorito i ricoveri presso le case di cura private.

 

Un altro interrogativo

Numerosi sono gli interrogativi che mi sono posto e che esprimono anche le preoccupazioni degli altri componenti del Csa - Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti. Segnalo quello più inquietante.

Le situazioni relative alla degenza della signora C.P. presso l’Ospedale Giovanni Bosco di Torino potevano essere solo tre:

1. la signora non era malata e non necessitava di cure praticabili presso l’ospedale o case di cura private convenzionate con l’Asl 4. In questo caso, se la signora non voleva allontanarsi dall’ospedale, la forza pubblica poteva trasportarla a casa sua, così come viene giustamente fatto nei confronti dei cittadini che pretendono di soggiornare presso uffici pubblici;

2. la signora, malata o non malata, era in grado di vivere autonomamente e voleva ritornare a casa sua. Evidentemente poteva lasciare l’ospedale quando voleva e nessuno, né i medici, né il figlio o qualsiasi altra persona poteva impedirlo;

3. se, invece, la signora, come risulta anche dalla controperizia del dottor Pernigotti, non era capace di provvedere da sola alle proprie esigenze a causa della gravità delle sue condizioni di salute, allora sorge, come giustamente prevedono le leggi vigenti, l’obbligo del Servizio sanitario nazionale (e non del figlio o di altri congiunti) di fornire le necessarie prestazioni.

 

Alcune considerazioni

Quando il signor G.P. mi segnalò di aver ricevuto un avviso di garanzia, ho ritenuto che la Procura della Repubblica fosse incorsa in un errore: a mio avviso erano e sono colpevoli coloro (politici, amministratori, medici, infermieri, ecc.) che non forniscono le necessarie cure alle persone colpite da patologie invalidanti, comprese quelle inguaribili e non i congiunti che chiedono il rispetto delle leggi che giustamente assicurano a tutti i malati (acuti e cronici, autosufficienti e dipendenti, giovani e anziani, guaribili e inguaribili) il diritto esigibile a ricevere le occorrenti prestazioni sanitarie.

In seguito, sono rimasto molto sorpreso a causa dell’istanza presentata dalla Procura della Repubblica al Giudice per le indagini preliminari.

Dopo aver letto la perizia del dottor Virgino Oddone e la sua nota aggiuntiva sul «“Parcheggio” degli anziani con il pretesto del diritto alle cure gratuite», sono stato assalito da una inquietudine sempre più assillante e mi sono chiesto più volte chi era il soggetto accusato.

Poi, mi sono illuso che la documentata controperizia del dottor Luigi Pernigotti avesse sistemato la questione, avendo dimostrato con scienza e coscienza quali erano le reali condizioni di salute della signora C.P. e le conseguenti necessità terapeutiche.

Ma le sorprese non sono mancate nemmeno a questo punto. Come ho segnalato in precedenza, ci sono state le accuse rivoltemi dal Giudice per le indagini preliminari Diamante Minucci e dal giornalista Alberto Gaino.

Mentre scrivo, continuo a non capire per quali motivi il signor G.P. è stato denunciato, mentre nessuna azione è stata intrapresa dagli stessi soggetti che hanno accusato il signor G.P. nei confronti di numerose analoghe vicende anch’esse patrocinate dal Csa - Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti, ad esempio quello della madre di Antonio Ronga (cfr. in questo numero la sua testimonianza) ricoverata nello stesso Ospedale Giovanni Bosco in cui era degente la signora C.P.

 

 

Allegati

 

A. Conclusioni della perizia del dottor Oddone

«Rispondendo ai quesiti posti dal PM dichiaro che:

1. Il ricovero 7.11.98 della signora C.P. era giustificato, alla luce delle sue condizioni generali, e tale rimase sino al 16.12.98, quando il consulente geriatra dichiarò che la signora poteva venire avviata ad una dimissione in ambiente protetto; da quella data in poi il ricovero deve venire considerato indebito, sino al momento in cui le condizioni precipitarono.

2. Non appena si riprese a sufficienza, la signora C.P. espresse in modo lucido, e ritenuto valido da due consulenti ospedalieri (psichiatra e psicogeriatra), che la visitarono in due successive occasioni, il desiderio di rientrare a casa, in base ad un progetto concordato con i servizi territoriali, la cui realizzazione fu però impedita dal figlio.

3. Un ricovero di molti mesi, ingiustificato ed in condizioni di costrizione, ha sempre effetti lesivi, sia fisici che più ancora psichici, su chi ne sia la vittima, soprattutto se anziano e con i significativi precedenti morbosi della signora C.P. Tali effetti furono contenuti per diversi mesi grazie all’assistenza prestata dalla Pubblica Amministrazione (“affidataria” pagata dai servizi sociali della Città di Torino), sino a quando ad agosto 1999 la signora, anche in relazione a nuove reazioni aggressive del figlio, non perse le speranze di un rientro a casa, precipitando in una crisi depressiva incontrollabile, tale da farle perdere ogni residua volontà di vita e portarla in uno stato negativistico, di rifiuto di contatti con il mondo esterno, del cibo e di ogni altra iniziativa.

4. Le ripercussioni appena descritte della crisi depressiva provocarono uno scadimento generale, con ripercussioni su più sistemi e, con ogni probabilità, facilitarono anche la crisi cardiaca del 21-23.8.99, e l’ulteriore peggioramento fisico e cognitivo. La morte sopravvenne al termine di questo processo, probabilmente per uno “scompenso a cascata”, come tipicamente accade in questo genere di soggetti.

«La mia indagine peritale ha portato alla luce anche comportamenti criminosi del figlio antece­denti la data 7.11.98, con le caratteristiche dei reati di cui all’art. 572 e 591 c.p., che determinarono malattia fisica e psichica. Il prolungamento indebito della degenza della signora C.P. ha anche determinato una indebita occupazione di un letto ospeda­liero, con tutte le implicazioni che ne possono derivare».

 

B. Conclusioni della controperizia del dottor Pernigotti

1. Premessa

Sono emersi errori, metodologici e sostanziali, nella valutazione del caso clinico in oggetto. Gli errori emersi possono avere sostanziale importanza nel determinare la costruzione dei nessi causali sui quali il PM ha richiesto di riferire, presupponendovi importanza nella oggettivazione della responsabilità del figlio riguardo la salute della madre.

2. Sulla morte della signora C.P.

La depressione della signora C.P. era segno transitorio di un quadro evolutivo in demenza o disturbo concorrente e complicante una sindrome demenziale, in ogni caso espressione di un danno cerebrale di una malattia evolutiva e mortale della quale, e solo della quale, la povera signora è stata “vittima”.

Non si può affermare che esista un nesso causale tra il mancato rientro della signora C.P. alla sua abitazione e la morte. La morte è avvenuta come esito dell’evoluzione di una encefalopatia vascolare su base arteriosclerotica, malattia multifattoriale in cui sinergicamente intervengono predisposizione genetica e stili di vita.

3. Sulla relocation differita e la morte di crepacuore

Le considerazioni sugli effetti della resistemazione alloggiativa (il fenomeno della relocation) espressi dal Dr. Oddone riguardano persone portatrici di disabilità che determinano handicap, non persone malate affette da patologie evolutive come la signora C.P. e per le quali fenomeni di relocation, forse anche possibili, mai sinora sono stati provati essere evidenziabili dalla scienza medica.

Le affermazioni che la signora C.P. aveva proiezioni ottimistiche non risultano attestate da misure, sono espressione di un’analisi che non permette confronti, condotta con metodo autoreferenziale che, ancorché giustificabile sul campo di una pratica medica con obiettivi terapeutici, male si accorda alle necessità di obiettività che devono essere rispettate nel campo della revisione di eventi messi al vaglio di giudizio non medico.

Lo stress entro il quale può essere compreso il cosiddetto crepacuore (di solito uno spavento) può essere causa necessaria ed anche sufficiente nel determinare la morte quando si associ una componente fisica a quella psicologica (ad esempio il fortissimo dolore della puntura del pesce scoglio dei mari caldi) ma lo stress psicologico isolato non è mai causa sufficiente alla morte. Si tratta comunque di morte cardiaca acuta, se non improvvisa. Il crepacuore dilazionato, presupposto di causa mortale della signora C.P., non è realtà medica, solo una bella ma fantastica, quindi falsa, rappresentazione di un corteo patologico irreale (…).

4. Sul percorso di cura della signora C.P.

Nella prima parte della storia clinica della signora C.P. si individua che il percorso di cura a casa è fallito. Questo è l’unico dato certo che il figlio può avere in mente e che doverosamente non potrà che sviluppare perplessità, in seguito ad altre proposte di ritorno a casa dopo una nuova dimissione ospedaliera. Anche l’operatore del servizio di cure domiciliari messo in atto lamentava che alla signora C.P. era stata messa a disposizione una organizzazione non sufficiente.

Nella parte di storia della signora C.P. vissuta nel ricovero ospedaliero conclusosi con la morte, sono documentati comportamenti dell’ospedale, dei suoi medici e del servizio sociale, assolutamente originali, non rispettosi delle norme che governano l’assistenza ospedaliera. In particolare le dinamiche messe in atto per sviluppare la dimissione, come passaggio di cura, dall’Ospedale Giovanni Bosco ad altro presidio funzionante come lungodegenza o al medico di famiglia, sono state percorse in modo inefficace per sicure carenze nella comunicazione dei processi adottati o proposti al figlio.

Nel corso della lunga assistenza alla signora C.P., in ospedale è stato utilizzato, in modo del tutto inconsueto, personale esterno, ed il totale del numero di ore di assistenza, in somma di questo e di quello ordinario ospedaliero era assai superiore a quello normalmente a disposizione dei ricoverati. Ciò può essere indicativo di una necessità di assistenza molto elevata, superiore a quella condotta nelle strutture per anziani non autosufficienti, ove normalmente si giunge per esaurimento delle possibilità della famiglia a farsi carico di lavoro tutelare ed infermieristico. Pare ben chiaro che le condizioni di salute e di necessità di assistenza della signora C.P. fossero ben superiori a quelle che fanno ritenere possibile l’organizzazione di cure domiciliari.

Durante la degenza ospedaliera sono stati richiesti al figlio apporti del tutto inconsueti, forse anche al di fuori delle norme ospedaliere che prevedono che i finanziamenti ottenuti per il funzionamento dell’ospedale siano utilizzati anche per erogare l’assistenza tutelare necessaria, tramite personale di ruolo Ota (Operatori tecnici dell’assistenza).

5. Sul comportamento del figlio

Il comportamento del figlio della signora C.P., esprime sicuramente la presenza di tensioni e di conflittualità. Questa pare rivolta, più che nei confronti della madre, nei confronti dei servizi sociali, che a suo avviso non considerano appieno la problematicità del caso. Il figlio della signora C.P. esprime chiaramente quello stato frequente e comune che si indica come stress parentale e di fronte al quale, come per una malattia, l’organizzazione sanitaria è tenuta ad intervenire, con possibilità di molteplici interventi, alcuni, di fatto, messi in atto anche nei suoi confronti, ma senza adeguata comunicazione, non dichiarati come tali, ed assolutamente insufficienti.

6. Conclusioni

Il comportamento del signor G.P. figlio della signora C.P., nonostante le molteplici interpretazioni dei molti attori che hanno ruotato intorno al caso, e non ultimo, privo di un supporto tecnico esauriente, anche il giudice tutelare, attore della denuncia a carico del signor G.P., sulla base di una ricostruzione dei fatti avvenuti e delle reali, e non teoriche, dinamiche evidenziatesi, non ha mai rappresentato un reale ostacolo alle cure necessarie alla madre signora C.P. del tutto in opposizione alle conclusioni del consulente tecnico del PM occorso in numerosi errori interpretativi.

 

 

 

(1) L’art. 591 del codice penale stabilisce quanto segue: «Chiun­que abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a sé stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Alla stessa pena soggiace chi abbandona all’estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro. La pena è della reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale, ed è da tre a otto anni se ne deriva la morte. Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio o dal coniuge, ovvero dall’adottante o dall’adottato».

(2) Ricordo che il servizio di ospedalizzazione a domicilio dell’Azienda ospedaliera S. Giovanni Battista di Torino, che funziona ininterrottamente dal 1985 e che rappresenta nel nostro Paese l’intervento più idoneo per le cure sanitarie domiciliari fornite a soggetti gravemente malati, è stato promosso congiuntamente dall’Istituto di geriatria dell’Università di Torino e dal Csa - Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti.

(3) La lettera spedita il 14 dicembre 1999 dal signor G.P. al Direttore generale dell’Asl 4 e al Direttore sanitario dell’Ospedale Giovanni Bosco era così redatta: «Il sottoscritto G.P., abitante in Torino, via Abc, visto l’art. 41 della legge 12/2/1968 n. 132 (che prevede il ricorso contro le dimissioni), e tenuto conto che l’art. 4 della legge 23/10/1985 n. 595 e l’art. 14, n. 5 del decreto legislativo 30/12/1992 n. 502 consentono ai cittadini di presentare osservazioni ed opposizioni in materia di sanità, chiede che la propria madre C.P., abitante in Torino, via Efg, attualmente ricoverata e curata presso l’Ospedale Giovanni Bosco, non venga dimessa o venga trasferita in un altro reparto dello stesso ospedale o in altra struttura sanitaria per i seguenti motivi:

1. la paziente è gravemente malata e non autosufficiente, e non sempre è capace di programmare il proprio futuro;

2. lo scrivente non è in grado di fornire le necessarie cure alla propria madre.

Fa presente che le cure sanitarie, comprese quelle ospedaliere, sono dovute anche agli anziani cronici non autosufficienti ai sensi delle leggi 4/8/1955 n.  692, 12/2/1968 n. 132 (in particolare art. 29), 17/8/1974 n. 386 (le prestazioni ospedaliere devono essere fornite “senza limite di durata”), 13/5/1978 n. 180 e 23/12/1978 n. 833 (in particolare art. 2, punti 3 e 4, lettera f ), e del Dpr 1 marzo 1994 “Approvazione del piano sanitario per il triennio 1994-1996” che stabilisce quanto segue: “Gli anziani ammalati, compresi quelli colpiti da cronicità e da non autosufficienza, devono essere curati senza limiti di durata nelle sedi più opportune”. Si ricorda, inoltre, che il Pretore di Bologna, dr. Bruno Ciccone, con provvedimento del 21/12/1992 ha riconosciuto il diritto della signora P.F., nata nel 1913, degente in ospedale dal 1986 di “poter continuare a beneficiare di adeguata assistenza sanitaria, usufruendo delle prestazioni gratuite del Servizio sanitario nazionale presso una struttura ospedaliera e non di generica assistenza presso istituti di riposo o strutture equivalenti”. Si segnala, altresì, la sentenza della 1ª Sezione civile della Corte di Cassazione n. 10150/1996 in cui viene riconfermato che:

- le leggi vigenti riconoscono ai cittadini il diritto soggettivo (e pertanto esigibile) alle prestazioni sanitarie, comprese le attività assistenziali a rilievo sanitario;

- le cure sanitarie devono essere fornite sia ai malati acuti che a quelli cronici;

- essendo un atto amministrativo, il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri  dell’8 agosto 1985 non ha alcun valore normativo.

«Ai sensi e per gli effetti della legge 7 agosto 1990 n. 241, lo scrivente chiede che gli venga inviata una risposta scritta. Lo scrivente si impegna di continuare a fornire al proprio congiunto tutto il possibile sostegno materiale e morale, compatibilmente con i propri impegni familiari e di lavoro. Chiede pertanto che, nel caso di trasferimento in altra struttura (la madre, n.d.r.) non venga allontanata dalla città di Torino».

(4) Il testo della lettera inviata dal signor G.P. il 14 dicembre 1999 al Presidente della 6ª Circoscrizione di Torino è il seguente: «Nei giorni scorsi ho sottoscritto, su richiesta dell’assistente sociale, un’impegnativa di ricovero assistenziale presso una struttura privata di mia madre, abitante in Torino, via Efg, attualmente ricoverata presso l’Ospedale Giovanni Bosco di Torino, Piazza Donatori del Sangue».

«Con la presente disdico gli impegni sottoscritti, anche perché ho chiesto all’Asl 4 e all’Ospedale Giovanni Bosco di non dimettere mia madre o di trasferirla in idonea struttura sanitaria». Osservo che se il signor G.P. avesse accettato il ricovero della madre presso una struttura assistenziale (e quindi non abilitata alla prestazione di cure sanitarie per  persone stabilmente ammalate) certamente nessuno lo avrebbe accusato di abbandono. Non risulta, infatti, che siano stati avviati procedimenti penali al riguardo.

(5) Su La Stampa del 30 aprile 2002 è stata pubblicata  la seguente mia lettera: «In merito all’articolo di domenica “Abbandonò la mamma in ospedale, è assolto”, smentisco nel modo più assoluto di avere incoraggiato G.P. a disinteressarsi della madre ricoverata presso l’Ospedale Giovanni Bosco. Come ha accertato il geriatra Luigi Pernigotti nella controperizia presentata all’autorità giudiziaria, la degenza della madre di G.P. era dovuta ad una grave malattia del cervello. Il giudice Diamante Minucci, senza avermi mai interrogato, mi ha attribuito comportamenti che sono diametralmente opposti ai principi etici che perseguo da 39 anni come volontario  a tempo pieno. Sono intervenuto ed interverrò affinché, come prescrivono le leggi vigenti, gli anziani cronici non autosufficienti vengano curati dal Servizio sanitario nazionale. Al riguardo non è vero che, com’è scritto su “La Stampa” del 28 “Molti sono gli anziani ricoverati in ospedale non per vere malattie, ma perché la famiglia non può o non sa come assisterli”. Si tratta invece, di persone colpite da gravi patologie o da loro esiti invalidanti. Tuttavia, essendo inguaribili, sono quasi sempre considerati incurabili dalle strutture sanitarie e scaricati sui loro congiunti. A causa delle illegali dimissioni, come risulta dal documento emesso nell’ottobre 2000 dall’allora Ministro della solidarietà sociale “nel 1999, 2 milioni di famiglie sono scese sotto la soglia della povertà a fronte del carico di spese sostenute per la cura di un componente affetto da una malattia cronica”».

(6) Ricordo nuovamente che il giudice per le indagini preliminari ha scritto nella sentenza di assoluzione del signor G.P. che «le numerose pronunce della Suprema Corte di Cassazione intervenuta sul punto (e cioè sulla portata dell’articolo 591 del codice penale concernente l’abbandono, n.d.r.) sono tutte nel senso che questa situazione di instabilità e di pericolo (concernenti cioè l’incolumità della persona abbandonata, n.d.r.) debba riguardare l’integrità fisica e non anche quella psichica della persona».

(7) In allegato sono riportate le conclusioni della perizia e quelle della controperizia.

(8) Nella relazione peritale, il dottor Oddone compie un clamoroso errore sostenendo che «Il figlio rifiutava che la madre venisse dimessa o trasferita in altro reparto della stesso ospedale», mentre il signor G.P. aveva chiesto (cfr. la nota 3) che la propria madre «non venga dimessa o venga trasferita in un altro reparto dello stesso ospedale o in altra struttura sanitaria», aggiungendo che «nel caso di trasferimento in altra struttura (la madre, n.d.r.) non venga allontanata dalla città di Torino».

 

 

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