Prospettive assistenziali, n. 138, aprile-giugno 2002

 

 

 

una importante sentenza sul danno da trasfusione: risarcimento ed equo indennizzo

 

 

Riportiamo il testo della sentenza del Tribunale di Napoli e il commento redatto dall’Avv. Roberto Carapelle e della Dott.ssa GiovannaTona.

 

 

Testo della sentenza

 

La Dott.ssa Caterina Molfino in funzione di giudice unico ha pronunziato la seguente sentenza nella causa civile iscritta al numero 7629 del ruolo generale Affari contenziosi dell’anno 1999 avente per oggetto il risarcimento dei danni tra GMV, elettivamente domiciliata in Maddaloni alla via Napoli 75 presso lo studio dell’Avv. Cesare Formato che la rappresenta e difende con procura a margine della citazione (attrice) e Ministero della sanità in persona del Ministro in carica rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato presso cui domicilia in Napoli alla via Diaz 11 (convenuto).

Conclusioni per entrambe le parti in verbale di udienza 6.3.2001.

 

Svolgimento del processo

Con citazione ritualmente notificata GMV conveniva in giudizio il Ministero della sanità per ottenere il risarcimento del danno biologico e morale, da responsabilità extracontrattuale e contrattuale, subiti per il contagio di virus HCV.

Premetteva di essere talassemica e, pertanto, sottoposta a cure trasfusionali sin da piccola; di aver appreso in data 1.7.1991 di aver contratto epatite C, a seguito di trasfusioni di sangue infetto praticate in strutture pubbliche e di aver ottenuto, pertanto, dall’amministrazione convenuta il riconoscimento del beneficio indennitario di cui alla legge 210/1992.

Si costituiva il Ministero della sanità eccependo l’inammissibilità della domanda, attesa la non cumulabilità della pretesa risarcitoria con il beneficio indennitario già ottenuto dall’attrice, l’assenza di condotte colpose dello Stato nel caso in esame e la prescrizione del diritto.

Nella fase istruttoria le parti producevano documenti; quindi veniva ammessa consulenza tecnica per valutare la riferibilità della patologia alla condotta del convenuto e per la quantificazione dei postumi permanenti.

All’esito il Tribunale si riservava la decisione, concedendo alle parti i termini di cui all’art. 190 cpc.

 

Motivi della decisione

Destituita di fondamento è l’eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento. Ed infatti nel caso in esame la GMV ha convenuto in giudizio l’amministrazione della sanità sotto il duplice profilo della responsabilità contrattuale, conseguente all’inadempimento del Servizio sanitario nazionale rispetto alla prestazione sanitaria corretta dovuta al cittadino in virtù della legge 23.12.1978, e della responsabilità aquiliana, in violazione di un principio generale di neminem ledere.

Sul punto deve chiarirsi che la suddetta “binarietà” è pienamente ammissibile, per giurisprudenza costante, tutte le volte in cui un medesimo fatto violi contemporaneamente sia i diritti spettanti alla persona, indipendentemente da un rapporto giuridico preesistente, che quelli derivanti da un contratto.

Ed allora la pretesa del danneggiato trova la sua fonte sia nel principio generale del neminem ledere che in quest’ultimo, cosicché se viene meno una delle due azioni, per esempio per il maturarsi della prescrizione, la domanda sarà valutabile secondo l’altro schema.

In ogni caso anche con riferimento alla prescrizione più breve di cui all’art. 2947 c.c., atteso che la malattia dell’attrice si è manifestata nel luglio 1991, non può negarsi natura di atto interruttivo “ad effetto diffuso” alla richiesta attorea del 10.8.1995, all’esito della quale il Ministero, riconosciuto il nesso causale tra “la trasfusione e l’infermità” della GMV, le attribuiva l’indennità ex legge 210/1992, secondo tabella A) del Dpr 30.12.1981, n. 834.

Destituita di fondamento è l’eccezione di inammissibilità della domanda, per la pretesa esaustività del riconoscimento indennitario suddetto.

Incoerente sul piano ontologico è l’argomentazione del Ministero, che richiama pronunzie della Corte costituzionale, la cui lettura impone un’interpretazione opposta a quella auspicata, laddove il convenuto, da un lato riconosce la natura indennitaria della prestazione ex legge 210/1992, iscrivendola nel solco della solidarietà sociale, che la collettività deve riconoscere alle vittime, alla stregua di ogni contributo conseguente ad epidemie, a vaccinazioni obbligatorie, ma anche a calamità naturali ed altro, e dall’altro vedrebbe in tale contributo indennitario l’onnicomprensività di ogni voce di danno risarcibile.

Vale a dire che tale indennizzo tabellare, di circa un milione al mese, dovrebbe coprire il danno biologico permanente, inteso quale perduta integrità psicofisica del soggetto, il danno da invalidità temporanea totale e parziale, inteso come im­possibilità di attendere agli atti quotidiani, il danno da perdita di chance, inteso quale mancata rea­lizzazione di aspettattive esistenziali, il pretium do­loris ed il danno da esborsi per cure ed assistenza.

Tale interpretazione contrasterebbe con l’esigenza basilare della proporzionalità del risarcimento e con la costruzione complessiva del nostro sistema risarcitorio, come risultante dalla elaborazione giurisprudenziale degli ultimi trent’anni, che trova le sue fonti essenziali e non esaustive, nella norma costituzionale di cui all’art. 32 e negli artt. 2043 e 2059 c.c.; né d’altro canto può riscontrarsi nella legge 210/1992 l’obiettivo legislativo di precludere al cittadino ogni altra forma di risarcimento quanto, piuttosto, il riconoscimento, mediante corresponsione di un beneficio periodico forfettizzato, assimilabile ad una pensione di invalidità, della colpevole insipienza e negligenza degli organi ministeriali presposti, ex lege istitutiva del Servizio sanitario nazionale alla vigilanza, ricerca e informazione in relazione all’uso di sangue umano, di sieri e di emoderivati, e segnatamente all’omissione di controllo sia sulla raccolta di sangue umano, anche mediante importazione dall’estero, che sulla produzione e commercializzazione di emoderivati, da parte delle aziende farmaceutiche.

Non può disconoscersi, ancora, che sia la raccolta di sangue, che la gestione degli emoderivati, costituisca per lo Stato esercizio di attività pericolosa ex art. 2050 c.c., con conseguente responsabilità oggettiva, superabile solo attraverso la prova a carico dell’esercente, qui non fornita, di aver adottato ogni cautela atta ad impedire l’evento, che negli ultimi anni ha assunto, per diffusione, le caratteristiche dell’attentato alla salute pubblica.

Ed infatti non può ritenersi cautela sufficiente l’imposizione dell’obbligo ai Centri trasfuzionali, con DM 21.7.1990, di ricercare, con accertamenti diagnostici, la presenza di anticorpi anti-HCV nel sangue donato e/o raccolto, obbligo esistente in passato per la ricerca di altri virus; ed infatti la maggioranza delle trasfusioni veniva praticata con plasma importato e distribuito da altri soggetti in confezioni sigillate e munite di certificati di provenienza che non richiedevano controlli ulteriori da parte delle strutture utilizzatrici.

Di conseguenza deve affermarsi la responsabilità del convenuto in relazione all’evento ed al danno derivato, di cui è stata ampiamente riconosciuta l’eziologia e la sussistenza.

L’attrice, di anni ventisei circa al momento del contagio, risalente al maggio-giugno 1991, ha residuato un danno biologico permanente del 40%, come affermato dal Consulente tecnico d’ufficio, del quale vanno condivise le metodiche e le conclusioni.

Tale danno, risarcibile secondo i parametri formatisi dalla elaborazione giurisprudenziale, che ruotano intorno all’età del soggetto ed all’entità percentuale della compromissione biologica permanente, va risarcito con la somma di L. 260.000.000, liquidata all’attività.

Per il danno morale, consistente nel ristoro della sofferenza, intesa quale profilo psicologico del processo patogeno, L. 90.000.000, liquidate all’attualità. In totale L. 350.000.000, con interessi legali dal 30.6.1996, periodo intermedio tra il fatto dannoso e la decisione, al saldo.

Non sono provate altre voci di danno.

Spese di consulenza tecnica d’ufficio e spese processuali a carico del Ministero, liquidate in dispositivo ed attribuite all’Avv. Formato, ex art. 93 cpc.

PQM

il Tribunale di Napoli, nella persona di Caterina Molfino in funzione di Giudice unico, definitivamente giudicando sulla domanda proposta da GMV nei confronti del Ministero della sanità, respinta ogni altra domanda, eccezione e deduzione, condanna il Ministero, in persona del Ministro in carica, a pagare all’attrice L. 350.000.000, oltre interessi legali dal 30.6.1996 al saldo.

Condanna il suddetto convenuto al pagamento delle spese di consulenza tecnica d’ufficio e delle spese processuali, liquidate in L. 590.000 per spese, L. 2.570.000 per diritti e L. 4.800.000 per onorari d’avvocato, oltre IVA, cpa e rimborso del 10% su diritti e onorari, con attribuzione all’Avv. Cesare Formato.

Così deciso in Napoli, 15 giugno 2001.

 

Commento

 

Non ci sono dubbi sul fatto che il diritto all’integrità della salute sia uno dei diritti più sacri ed inviolabili che appartengono all’uomo, così importante che l’art. 32 della Costituzione «tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», realizzando in questo modo la garanzia di un vero e proprio diritto soggettivo operante non solo nei rapporti tra privati ma anche nei confronti della pubblica amministrazione: ciò comporta l’ammissione al risarcimento del danno alla salute (o danno biologico) sempre ed immancabilmente, poiché pregiudizio primario consistente nella «menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione» (1) e pertanto indipendente dalle conseguenze economiche ed afflittive della lesione. Partendo da questo presupposto, fino a che punto è ammissibile che un cittadino malato, costretto a sottoporsi a periodiche trasfusioni di sangue, dopo essere stato contagiato da epatite C o virus HIV a causa di omissioni e ritardi da parte del Ministero della sanità nell’esercizio dei suoi poteri istituzionali di vigilanza e controllo sull’attività di importazione, distribuzione e commercializzazione di farmaci emoderivati, venga risarcito? È sufficiente un indennizzo o è possibile cumulare anche un risarcimento del danno? Inoltre, l’attività svolta dallo Stato in qualità di “supervisore” per quel che concerne l’organizzazione sanitaria, ed in particolare quella che si realizza nell’ambito del trattamento degli emoderivati e della loro trasfusione, può essere considerata attività pericolosa ex art. 2050, con tutte le conseguenze a livello di inversione dell’onere della prova? A queste domande è difficile dare risposta, considerando l’alto margine di interpretazione che risiede nelle norme che disciplinano tali situazioni e quanto queste situazioni colpiscano da un punto di vista umano. In parte ha risposto il Tribunale di Napoli che, trovandosi a dovere giudicare sul caso della signora GMV (2), non solo ha dichiarato la responsabilità contrattuale del Servizio sanitario nazionale rispetto alla prestazione dovuta al cittadino in virtù della legge del 23 dicembre 1978 n. 833 e della responsabilità extracontrattuale in violazione del principio generale del neminem ledere, ma ha anche condannato la Pubblica Amministra­zione al risarcimento del danno biologico e morale dell’attrice, quantificando la lesione del diritto soggettivo in una cifra pari a 350 milioni di lire. In questo modo, è stata ammessa la “binarietà” riguardante il duplice profilo della responsabilità contrattuale e della responsabilità aquiliana, “binarietà” pienamente ammissibile «per giurisprudenza costante tutte le volte in cui un medesimo fatto violi contemporaneamente sia i diritti spettanti alla persona, indipendentemente da un rapporto giuridico preesistente che quelli derivanti da contratto» (3). Infatti, non è condivisibile la difesa realizzata da parte del Ministero della sanità che, riconoscendo e conferendo all’attrice la prestazione ex legge 210/1992 (4) avente natura indennitaria, giustifica la non cumulabilità di questa prestazione con il risarcimento del danno, in quanto l’importo già erogato si caratterizza per il carattere dell’onnicomprensività, tra cui, di conseguenza, il risarcimento del danno stesso. Occorre a questo punto ricordare che l’indennizzo previsto dalla legge 210/1992 e successive modificazioni, «ha natura meramente indennitaria» (5) (venendosi a configurare alla stregua di una sorta di solidarietà sociale che lo Stato ha deciso di riconoscere a vantaggio dei beneficiari), ed, in quanto tale, non preclude il diritto al pieno risarcimento del danno in via ordinaria. A giustificazione di ciò, possono essere invocate due argomentazioni: la circolare ministeriale del 3 maggio 1994 ha esentato le somme erogate ex legge 210/1992 da ogni ritenuta fiscale «in ragione della natura assistenziale ed indennitaria della medesima indennità» ed un passaggio della sentenza 118/1996 della Corte costituzionale, nel quale si è prospettato in via riassuntiva che «la menomazione della salute derivante da trattamento sanitario possa determinare una di queste tre conseguenze: a) il diritto al risarcimento pieno riconosciuto dall’art. 2043 del codice civile; b) il diritto ad un equo indennizzo, discendente dall’art. 2, ove il danno, non derivante da fatto illecito, sia subito in conseguenza dell’adempimento di un obbligo legale; c) il diritto, a norma degli art. 38 e 2 della Costituzione, a misure di sostegno assistenziale disposte dal legislatore, nell’ambito dell’esercizio costituzionalmente legittimo dei suoi poteri discrezionali, in tutti gli altri casi»: da ciò, si evince che la stessa Corte non esclude, ritenendo del tutto prospettabile, l’integrale e concreta risarcibilità del danno subito in violazione del generale principio del neminem ledere. Il problema sorge nel momento in cui il soggetto condannato a pagare il risarcimento del danno e l’indennizzo viene ad essere il medesimo, ossia il Ministero; in questo caso, l’ammissibilità del cumulo sostanziale fra indennizzo e risarcimento integrale del danno derivante da assunzione di emoderivati potrebbe realizzare una sorta di arricchimento senza causa, come è stato fatto notare in nota alla Sentenza 27/1/1998 del Tribunale di Roma, pubblicata sul Foro italiano, trattante un analogo caso. Ciò che viene evidenziato, è come un soggetto finirebbe per percepire, «a fronte di uno stesso evento lesivo del medesimo bene tutelato (la vita e l’integrità psicofisica del danneggiato), una posta indennitaria che, nel momento stesso in cui fosse erogata ad un soggetto già integralmente risarcito per la perdita subita, avrebbe perso per strada le ragioni che ne giustificano l’erogazione a titolo di solidarietà sociale».

Il caso del danno da trasfusione e da somministrazione di emoderivati (imputabile ad un fatto illecito non conseguente all’adempimento di un obbligo legale) rientra nella categoria residuale del caso c) della citata sentenza, e quindi una misura di sostegno assistenziale disposta dal legislatore a norma degli art. 2 e 38 della Carta costituzionale, e che trae origine esclusivamente dalla discrezionalità del legislatore stesso, e quindi dalla norma che preveda l’erogazione della prestazione indennitaria ai soggetti beneficiari; ma considerando che, la legge istitutiva di tale beneficio prevede che «l’indennizzo è cumulabile con ogni altro emolumento a qualsiasi titolo percepito» (6), non escludendo in questo modo nessun tipo di cumulo, ivi compreso il caso in cui sia lo Stato il soggetto tenuto a pagare entrambe le prestazioni; appare palese come all’epoca in cui è stata promulgata la legge, probabilmente non ci si fosse posto il problema del caso di specie, rendendo pertanto legittimo tale cumulo, in quanto non c’è nessuna norma che lo vieti esplicitamente.

Inoltre, occorre ricordare come il Consiglio di Stato, dovendo pronunciarsi riguardo alla cumulabilità dell’equo indennizzo dovuto dalla Pubblica Amministrazione al pubblico dipendente con le somme ottenute da quest’ultimo a titolo di risarcimento danni da terzi estranei all’Amministrazione stessa, abbia stabilito una non cumulabilità solo nel caso in cui l’esercizio di una delle due azioni porterebbe ad una liquidazione «completamente satisfattiva» per il dipendente leso nella sua integrità fisica (7); non si vedono motivi per i quali tale interpretazione non possa essere estesa analogicamente al caso della sentenza in questione.

Infatti, ritornando alla sentenza del Tribunale di Napoli, appare evidente come il cumulo dell’indennizzo ex legge 210/1992 e del risarcimento del danno sia ammissibile, perché, considerando il caso di specie, ci sono seri dubbi sul fatto che un’indennità pari a circa un milione di lire al mese erogati per quindici anni, possa essere «completamente satisfattiva» anche per il danno biologico e morale subito da una donna contagiata da epatite C all’età di ventisei anni, non contando tutte le conseguenze derivanti non solo all’integrità fisica del soggetto ma anche alla sua vita sociale.

Inoltre, il diniego della possibilità di cumulo non trova giustificazione nel fatto che il soggetto erogatore delle due prestazioni sia sempre lo Stato, perché, come già detto in precedenza, la legge 210/1992 ammette esplicitamente il cumulo dell’indennizzo con qualsiasi altro emolumento ed infine non si comprende il perché lo Stato non debba pagare per le lesioni subite a seguito delle proprie colpe, mentre se fossero stati dei privati a compiere la lesione, tale doppia erogazione sarebbe stata ammissibile senza particolari contestazioni.

In conclusione, occorre cercare di risolvere il quesito se l’attività inerente la trasfusione di sangue ed emoderivati realizzata dallo Stato possa o meno essere annoverata quale esercizio di attività pericolosa ex art. 2050. L’art. 1 della direttiva 65/65/Cee, stabilisce che fra i medicinali rientra «ogni sostanza o composizione ... (idonea) allo scopo di ripristinare, correggere o modificare funzioni organiche dell’uomo»: secondo tale definizione, quindi, l’emoderivato (8) è ascrivibile al suddetto generale concetto di medicinale.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 8069 del 1993 ha definito quale attività pericolosa ex art. 2050 del codice civile tutte le attività «... che ... abbiano una pericolosità intrinseca o comunque dipendente dalle modalità di esercizio o dai mezzi di lavoro impiegati; pertanto la produzione e l’immissione in commercio di farmaci, contenenti gammaglobuline umane destinate all’inoculazione nell’organismo umano, costituisce attività dotata di potenziale nocività intrinseca, stante il rischio di contagio dell’epatite di tipo B ...».

Considerando la definizione di medicinale sopracitata, anche il sangue reinfuso nell’organismo umano (dovendo comunque subire un trattamento chimico per poter essere utilizzato) rientra tra i prodotti derivanti dalla produzione, immissione e commercio di farmaci contenenti sostanze che sono possibile veicolo di infezione; inoltre, anche se non espressamente citata, non si vede motivo per cui non debba rientrare tra l’attività pericolosa l’utilizzo di sostanze che possano esser causa dell’insor­genza non solo di epatite di tipo B ma anche A e C.

Il Ministero della sanità è l’organo cui compete (e competeva) l’organizzazione ed il controllo di tutta l’attività inerente l’approvvigionamento e la distribuzione del plasma, e considerando quanto già detto riguardo alla materia, risulta evidente la pericolosità insita nell’attività in questione, peraltro gestita tramite strutture sussidiarie e/o dipendenti e controllabili; appare perciò chiara una responsabilità ex art. 2049 e 2050 del codice civile, in quanto incorsa in grave responsabilità nel mancato esercizio ed attivazione dei propri doveri-poteri di istituto nella sorveglianza e nel ritiro degli emoderivati non sottoposti ai trattamenti già conosciuti all’epoca del contagio (e di conseguenza obbligatoriamente prevedibili) per evitare le possibili cause di infezione.

Infatti, se il Ministero convenuto avesse adempiuto tempestivamente agli obblighi di controllo che ha nei confronti del cittadino riguardo al corretto funzionamento delle proprie strutture, molti dei contagi avvenuti negli anni precedenti si sarebbero potuti evitare; occorre ricordare che già nel 1988 fu imposto il c.d; termotrattamento contro il rischio di trasmissione del virus da epatite C (sebbene il test sia stato messo a punto nel 1989), ma che solo nel 1988 venne disposto l’obbligo di ritiro dei farmaci non trattati al calore e solo nel ben successivo 1992 fu ordinato il ritiro dei farmaci non trattati contro l’epatice di tipo C e che solo nel 1994 venne definitivamente attuato il c.d. piano sangue nazionale.

Alla luce di tali argomentazioni non pare esservi dubbio sulla correttezza e persuasività dei principi contenuti nella sentenza del Tribunale di Napoli e del suo indubbio valore come precedente cui riferirsi per la risoluzione di casi analoghi.

 

 

(1)  Cassazione civile, 20 agosto 1984, n. 4661.

(2) L’attrice essendo talassemica e, pertanto, sottoposta a cure trasfusionali fin da piccola, ha appreso in data 01/07/1991 di aver contratto l’epatite C, a seguito di trasfusione di sangue infetto praticate in strutture pubbliche.

(3) Tribunale di Napoli, 15/06/2001, n. 8692, giudice Molfino.

(4) Art. 1 della legge 210/1992 «1. Chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge ...»; «2. I benefici di cui alla presente legge spettano altresì a coloro che presentino danni irreversibili da epatiti post-trasfusionali ...».

(5) Sentenza del Consiglio di Stato, 118/1996.

(6) Art. 2 della legge 210/1992.

(7) Consiglio di Stato, udienza plenaria, 16/07/1993.

(8) In quanto prodotto costituito da sostanza derivata dal sangue umano ovvero dalle parti frazionabili di esso nella parte corpuscolata (globuli rossi o bianchi e piastrine) ed in quella liquida (plasma).

 

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