Prospettive assistenziali, n. 136, ottobre-dicembre 2001

 

 

l’affidamento nell’esperienza delle famiglie affidatarie

Franco garelli, raffaella ferrero, daniela teagno

 

 

Chi sono e come vivono la loro scelta gli affida­tari?

Nel 1995 due associazioni di famiglie affidatarie “Luciano Accomazzi” e “Gruppi Volontari per l’affidamento e l’adozione”, durante gli incontri promossi dall’Ufficio famiglia della Diocesi di Torino hanno pensato di approfondire la conoscenza degli affidatari attraverso  una ricerca specifica  alla quale ha collaborato anche l’Anfaa.

La ricerca, realizzata con il contributo della Provincia e del Comune di Torino, è stata condotta  dal professor Franco Garelli, docente di sociologia della conoscenza del Dipartimento scienze sociali dell’Università  degli studi di Torino con la collaborazione delle dottoresse Raffaella Ferrero e Daniela Teagno, è pubblicata nel volume “L’affidamento - L’esperienza delle famiglie ed i servizi”,  edito da Carocci.

La ricerca ha ricostruito, attraverso le 276 interviste realizzate, un identikit della famiglia affidataria e dei fattori che incidono  sull’andamento dell’affidamento, tentando anche di ricostruire la complessa trama di relazioni tra gli attori in gioco: famiglia affidataria, famiglia d’origine, minore, contesto parentale-amicale, operatori  dei servizi socio-assistenziali e sanitari e i giudici del Tribunale per i minorenni.

Abbiamo chiesto agli autori di riassumere i risultati più significativi della ricerca che sono stati illustrati nel Convegno “L’affidamento - Le esperienze delle famiglie, il ruolo dei servizi e della magistratura minorile” promosso dalle associazioni sopra citate e tenutosi a Torino il 7 giugno 2001.

 

Questa ricerca, svolta su un ampio campione di famiglie impegnate in affidamenti realizzati dal Comune di Torino e dagli Enti gestori delle funzioni socio-assistenziali della Provincia di Torino, offre un forte contributo alla comprensione di un intervento sociale complesso ma anche interessante ed innovativo. E ciò in un tempo e in un’area sociale nella quale l’esperienza affidamento è oramai consolidata, a quasi vent’anni di distanza dall’istituzione di questo servizio a livello nazionale e di sperimentazione dello stesso a livello locale.

Quali messaggi sociali sono contenuti nell’esperienza delle famiglie affidatarie? A partire dal loro vissuto e dalla loro riflessione  è possibile scrivere una “memoria” per l’affidamento che contenga le principali indicazioni circa il bagaglio di saper fare e di saper essere richiesto a tutti gli attori coinvolti in questo intervento sociale? In altri termini, quali sono i problemi più rilevanti, gli errori più comuni, ma anche le scelte più felici che caratterizzano l’esperienza dell’affidamento?

a) L’indagine ci dice anzitutto che le persone e le coppie impegnate nell’affidamento sono assai soddisfatte dell’esperienza fatta e considerano l’affido come un’importante risorsa sociale per minori in gravi difficoltà. Tuttavia non mancano segnali contrastanti. La validità di questo tipo di intervento sociale (come uno strumento adeguato per far fronte a situazioni problematiche) è riconosciuta dal 95% delle famiglie, mentre poco meno dell’80% ritiene che il bilancio della propria esperienza sia positivo. Per contro, solo 1/5 dei casi accetterebbe un nuovo affido, mentre il 40-50% delle famiglie prenderebbe in considerazione una nuova proposta solo dopo un periodo di pausa e a determinate condizioni, che indicano l’esigenza di maggiore preparazione e supporto da parte dei servizi sociali. Circa 1/3 dei soggetti, invece, non è per nulla disponibile a una nuova esperienza, o in quanto provati dall’impegno in atto o appena concluso, o in quanto sono cambiate le condizioni di base.

In sintesi, non è affatto in discussione l’idea dell’affidamento mentre varie riserve si addensano circa il modo in cui esso viene realizzato. Entrando nel merito, l’80% degli affidatari ritiene che i servizi sociali tendano a scaricare sulla famiglia il peso dell’affidamento; il 70% circa che gli stessi servizi non abbiano un chiaro progetto di gestione dell’affido; il 77% che molti affidamenti si prolungano nel tempo, in quanto la loro durata non è prevedibile e la situazione problematica della famiglia di origine non sembra avere sbocchi.

Per 6 soggetti su 10 l’affidamento potrebbe essere un intervento assai più diffuso, se le famiglie potessero contare su un maggiore aiuto e su strumenti più adeguati da parte dei servizi sociali. Come a dire, che la disponibilità è assai estesa, ma carenze ed omissioni la contengono, a fronte di un impegno oneroso e non facile.

 

b) Si tratta poi di famiglie caratterizzate nello stesso tempo sia da condizioni di vantaggio personale e sociale che di normalità. L’idea di aver fatto una scelta eroica o di rappresentare un’eccezione è assai lontana dalla percezione che questi soggetti hanno di se stessi e del loro impegno sociale. Tuttavia, è innegabile che essi - per vari aspetti - presentino un modello moderno di famiglia, caratterizzato da un buon livello di motivazioni, di capacità di elaborare le esperienze di vita, di comunicazione di coppia, di condivisione dell’impegno domestico, di apertura verso l’esterno: tutti aspetti che costituiscono una pre-condizione favorevole per una esperienza come l’affidamento.

Il vantaggio di queste famiglie deriva sia da considerazioni oggettive che da propensioni culturali. Si tratta per lo più di persone caratterizzate da una scolarità medio-alta, che appartengono al ceto medio, con molte donne che svolgono professioni dal contenuto relazionale (come insegnanti o operatori socio-assistenziali), anche se non presentano condizioni economiche superiori alla media. Il background culturale sembra dunque contare di più del capitale economico nell’orientare i soggetti verso una scelta di affidamento. Si tratta, ancora, per lo più di coppie in classi centrali di età, con alle spalle vari anni di storia comune, caratterizzate da numerosi elementi di affinità. La stabilità di vita e la convergenza culturale sembrano rappresentare altri fattori positivi per aprirsi all’esperienza dell’affidamento e per farvi fronte. Molti soggetti fanno poi parte dell’associazionismo sociale e del volontariato, risultano attivi e convinti dal punto di vista religioso ed esprimono una cultura progressista. Rientra tra le affinità di coppia anche un’idea aperta di famiglia, orientata a condividere con altri le risorse acquisite. Tra i fattori di vantaggio, c’è anche la rete di relazioni nella quale questi soggetti sono inseriti, costituita da amici e parenti che possono condividere l’idea affidamento e svolgere un’importante funzione di sostegno e di aiuto.

Per contro, queste famiglie si caratterizzano per varie condizioni di “normalità”. Pur non mancando la ricerca della convergenza, l’asimmetria tra i ruoli maschili e femminili coinvolge anche le coppie che si aprono all’affidamento. Cosi l’onere dell’impegno domestico grava maggiormente sulle donne, le quali inoltre costituiscono l’asse trainante dell’esperienza dell’affido, pur condivisa dai partner.

Un altro tratto di normalità emerge dal fatto che gli affidatari si rendono disponibili ad impegni che siano “compatibili” con le loro condizioni di vita. Nella loro domanda ai servizi, le famiglie risultano per lo più indifferenti circa il sesso del minore da accogliere, mentre prestano attenzione alla sua età e condizione fisica. Si tratta di una scelta improntata a criteri di realismo, che spinge gli affidatari a preferire un minore la cui età sia per lo più prossima a quella dei figli biologici e non caratterizzato da particolari problemi di salute; ciò al fine di evitare un eccesso di tensioni e di preoccupazioni. Analogamente ci si impegna per lo più in un solo affidamento.

Ma la normalità emerge anche dal modo di relazionarsi al minore accolto. Si tratta di famiglie per lo più orientate a far fronte alle carenze affettive del minore, offrendogli dei punti di riferimento e dei rapporti stabili, costruendo un habitat in cui il minore si senta accettato e amato, possa trovare occasioni di conferma di sé, possa crescere in modo equilibrato e armonico. A fronte di ciò è meno importante per gli affidatari che il minore possa usufruire di vari vantaggi materiali o che egli abbia successo in campi diversi (ad esempio, a livello scolastico), in quanto l’attenzione al cammino educativo di fondo prevale rispetto alle possibilità di riuscita immediata. Nell’affidamento, dunque, si cerca di far fronte ad alcune carenze di base, senza la pretesa di ottenere risultati in tutti i campi o di operare dei cambiamenti profondi a livello educativo.

 

c) Già si é accennato al carattere moderno di molte famiglie affidatarie, che emerge anche dalle motivazioni che muovono l’affidamento. Il carattere laico di questo impegno sembra di gran lunga prevalente, anche nei soggetti per i quali la fede religiosa è parte rilevante della propria identità personale e sociale. Si prende a carico un minore in difficoltà più per motivi umanitari che religiosi, più come forma di compartecipazione dei doni ricevuti che come testimonianza, più come esigenza interna della famiglia che per sollecitazione esterna. L’apertura e la condivisione delle situazioni problematiche rientra nello stile con cui queste famiglie intendono vivere la loro identità di fondo e presenza sociale. L’impegno altruistico e solidaristico (in questo caso attraverso l’affidamento) è parte integrante del modo in cui queste famiglie si definiscono e si esprimono nella società.

Aprendosi all’esterno, queste famiglie si rendono disponibili a modificare gli equilibri sin qui maturati, a lasciarsi attraversare da stimoli e circostanze che cambiano i ritmi e le condizioni di vita, che richiedono continui aggiustamenti e grande capacità di adattamento. La flessibilità è un tratto caratteristico delle famiglie affidatarie, che accogliendo un minore sono chiamate a rivedere lo spazio abitativo, a modificare abitudini e interessi, a distribuire diversamente il tempo, a cambiare i rapporti con l’intorno immediato.

Il carattere moderno di queste famiglie emerge poi dal loro approccio all’affidamento, visto come un’esperienza impegnativa che richiede preparazione e qualificazione e ricorrenti verifiche. Rientra in questo quadro la disponibilità a farsi carico dei percorsi di approfondimento previsti dai servizi sociali, l’accettazione di momenti di valutazione delle proprie abitudini e capacità, la ricerca di sostegno da parte di figure specialistiche, la propensione a far parte di gruppi di affidatari che si confrontano sul vissuto e ripensano l’esperienza.

Inoltre, queste famiglie si orientano all’affidamento per motivazioni positive, non come una scelta di ripiego, a seguito di una adozione mancata o di “vuoti da colmare”. La grande maggioranza degli affidatari nega che nella propria esperienza, o in quelle conosciute, ci si orienti all’affidamento per ragioni difensive o per carenze, come nel caso in cui si accoglie un minore in difficoltà per mancanza di figli, o perché i figli hanno ormai lasciato la casa dei genitori, o a seguito di un lutto familiare, o ancora, per far fronte al senso di inutilità conseguente a repentini cambiamenti nella propria esistenza (come nel caso del pensionamento). Quasi tutti gli affidatari sono genitori biologici e nel loro percorso di vita non sembrano esservi indizi della ricerca di soluzioni compensative a eventi drammatici o a problemi quotidiani. Quella dell’affidamento sembra dunque essere una scelta matura e ripensata, che assume il carattere di una risposta positiva ad un’esigenza sociale rilevante.

La modernità di queste famiglie emerge anche dalla capacità di fare dell’affidamento un’esperienza di crescita personale e comunitaria. L’affido non implica soltanto degli oneri, come non è solo una palestra per una maggiore tolleranza e flessibilità. La grande maggioranza degli affidatari riconosce il carattere formativo - sia per sé, che per i figli biologici e per lo stesso clima familiare - dell’esperienza dell’affidamento. L’affido è un campo di impegno che può far crescere come genitori, che può far emergere potenzialità inespresse, che costringe alla riflessione e alla verifica; un banco di prova in cui si arricchisce e si apprende. Tra gli aspetti più richiamativi è l’idea che questa esperienza rappresenti per gli affidatari una continua pratica di confronto e di accettazione della diversità, un esercizio di intercultura nella vita quotidiana, assai più coinvolgente e formativo di altre forme di interazione pluralistica. Certo, queste valutazioni positive non coinvolgono tutte le famiglie, e i problemi non mancano. Ma queste ombre non attenuano l’idea che l’affidamento è (o è stato) un momento significativo e denso di conseguenze positive nella vita di molte famiglie e coppie.

 

d) Dalla presente indagine emerge poi che il minore accolto appartiene per lo più all’infanzia o alla prima adolescenza, un’età nella quale la for­mazione di base è già delineata e rappresenta il punto di partenza di qualsiasi intervento educativo. Inoltre, varie famiglie aprono la loro casa a minori che – oltre a provenire da famiglie problematiche – hanno vissuto per qualche tempo in istituti o comunità alloggio, esperienza questa sovente foriera di strascichi negativi. Di fronte a persone già sufficientemente strutturate, gli affidatari interpretano il loro compito in termini di accompagnamento di un soggetto in un tratto di vita, senza pretese velleitarie di operare grandi cambiamenti, ma nello stesso tempo senza rinunciare a creare condizioni favorevoli ai compiti dello sviluppo.

A detta degli affidatari, il punto dolente del rapporto col minore è rappresentato dalla sua refrattarietà ad accettare le norme di base della convivenza; in quanto egli appare per lo più insofferente ai richiami e alle sollecitazioni, fa della contrapposizione un motivo di affermazione personale, appare carente di senso di proprietà e di responsabilità. Il tentativo di colmare questo vuoto di regole è l’impegno più gravoso dell’affidamento. Ovviamente non pochi minori si caratterizzano anche per condizioni più problematiche, individuate in disturbi psicologici e di comportamento. Ma la maggior parte dei minori accolti non sembrano condizionati da problemi gravi, così come godono di un buon stato di salute, mentre su vari aspetti dell’interazione domestica non si discostano di molto dalle reazioni messe in atto dai figli biologici.

Nel complesso, comunque, la qualità della relazione tra i minori e famiglia affidataria sembra assai positiva, anche se non mancano le tensioni. L’esperienza del minore continua ad essere condizionata dal peso di un passato troppo incerto e movimentato, mentre è forte il rischio che egli rimanga sospeso tra i modelli culturali della famiglia affidataria e quelli della famiglia di origine.

 

e) L’indagine ci dice anche che gli affidatari non sono particolarmente propensi a farsi carico dei problemi della famiglia di origine, ritenendosi per lo più inadatti o impotenti (sia emotivamente che a livello pratico) nel creare positive condizioni di reinserimento del minore nel suo ambiente di partenza. È alle istituzioni, ai servizi sociali che compete l’impegno per il recupero, per quanto possibile, della famiglia d’origine e per l’impostazione dei rapporti fra le due famiglie. Per la verità non sono molti i casi che denunciano un rapporto negativo con la famiglia di origine, ma le posizioni neutre prevalgono di gran lunga sulle interazioni positive, ad indicare l’assenza di coinvolgimento in questo campo o la difficoltà a stabilire contatti di qualche rilievo. Parallelamente, i rapporti con la famiglia di origine vengono mediati dal minore, o attraverso incontri periodici o mediante l’influenza che l’ambiente di partenza continua ad avere sul vissuto del minore. Il riverbero negativo di queste esperienze sulla vita del minore è uno degli aspetti più delicati dell’affidamento, largamente denunciato dagli affidatari. Ciò vale sia nel caso in cui i minori considerino i propri genitori come figure di riferimento negativo, sia nel caso in cui essi si ostinino a rivalutare i genitori biologici di fronte alle difficoltà che incontrano nella nuova famiglia.

La famiglia di origine appare dunque sullo sfondo dell’affidamento, in quanto essa risulta l’anello debole di questo intervento sociale, sia perché vive un disagio acuto, sia perché le altre componenti dell’affido hanno difficoltà a rapportarsi con essa. Al di là di quanto previsto dai servizi sociali e di quanto gli stessi sono in grado di fare, la famiglia affidataria tende a non avere molti rapporti con la famiglia di origine. Questa carenza di contatti e di presa a carico può essere imputabile a molti fattori, tra cui - a seconda dei casi - l’eterogeneità delle condizioni di vita e dei modelli culturali tra le due famiglie, la non accettazione da parte di alcune famiglie di origine della soluzione “affidamento” per un proprio figlio, l’assenza “di fatto” dei genitori biologici. Si tratta di aspetti che possono mettere in discussione l’idea di fondo dell’affidamento, che esso sia una soluzione temporanea in vista del rientro del minore nel suo ambiente naturale, restituito a un minimo di dignità educativa e affettiva.

f) I rapporti tra affidatari e servizi non sono idilliaci, ma nemmeno compromessi. Le famiglie denunciano varie carenze dei servizi sociali, sia nella fase di maturazione della scelta e dell’abbinamento, sia durante l’iter di questa esperienza. La sensazione più diffusa è che questo intervento sia dominato dalla logica dell’emergenza, per far fronte a situazioni problematiche che necessitano di soluzioni indifferibili. Così si creano i presupposti di un’azione “off limits”, avendo sovente a che fare con casi il cui progetto non è chiaramente definito, la cui durata è di difficile previsione e con vari interventi (quelli stabiliti dal Tribunale) realizzati senza il consenso dei genitori biologici. Tra le famiglie affidatarie è ricorrente la lamentela di non aver avuto una sufficiente informazione circa la storia pregressa del minore, come di non essere state adeguatamente preparate a questa esperienza e di non poter contare sui necessari supporti nel corso del progetto. È anche diffusa la sensazione che i servizi sottovalutino le tensioni e i problemi cui la famiglia affidataria si espone in questo suo impegno sociale, sovente chiamata a far fronte autonomamente alle difficoltà e ai cambi di scenari che caratterizzano un’esperienza complessa come l’affidamento. Su tutto, prevale l’idea che - a lungo andare - i servizi tendano a scaricare sulle famiglie il peso dell’affidamento. In questo quadro, si riconosce comunque la maggior presenza dei servizi sociali nel caso degli affidamenti giudiziari, propensi ad attivarsi maggiormente nelle situazioni più problematiche.

A fronte  di queste riserve, le famiglie affidatarie non esprimono giudizi drastici nei confronti dei servizi sociali e dei loro operatori. Le critiche possono riguardare la scarsa attenzione al progetto complessivo sul minore, la carenza di informazioni, la rigidità delle procedure rispetto ai bisogni delle persone, la tendenza alla delega; ma esse non si estendono all’idea che i servizi sociali abbiano a controllare o a strumentalizzare la famiglia affidadaria. Le disfunzioni o le carenze non sembrano imputabili alla responsabilità dei singoli operatori o servizi, quanto ad un sistema organizzativo o a politiche sociali non adeguate a far fronte alla complessità dei casi.

 

g) L’esperienza delle famiglie affidatarie offre molti spunti non solo per comprendere i problemi connessi all’affidamento, ma anche per individuare le condizioni più favorevoli per l’attuazione di questo intervento sociale.

Sul versante delle famiglie, tali condizioni sembrano rappresentate da coppie stabili che si caratterizzano al proprio interno per vari elementi di convergenza, che tendono alla parità nei rapporti di genere, che condividono un’idea di famiglia aperta e solidale, che hanno una buona capacità riflessiva, che appaiono flessibili verso situazioni nuove, inserite in rete di amicizie, che hanno tra i propri principi ispiratori un riferimento di fede.

La riflessione sull’esperienza effettuata porta le famiglie ad individuare vari errori di impostazione del rapporto con il minore, la cui avvertenza può favorire un miglior esito di questo tipo di intervento. Tra gli errori più diffusi vi è l’idea di poter modificare gli orientamenti del minore accolto proponendo i propri modelli culturali, sottovalutando la sua difficoltà a raccordarsi con un mondo diverso. Altri limiti sono rappresentati da un eccesso di coinvolgimento affettivo ed emotivo in questa esperienza, che spinge vari affidatari a trattare il minore come un proprio figlio  o a esporlo ad attese e sollecitazioni superiori alle sue possibilità. L’invito, dunque, è ad accettare il minore “reale”, come un soggetto caratterizzato da una sua storia, che non inizia nel momento dell’affidamento. Sovente, inoltre, si tende a sopravvalutare la capacità di adattamento della propria famiglia (della coppia e dei figli), con il rischio che si produca troppa tensione e che i rapporti si inaridiscano.

Sul versante dell’ente pubblico, si ricordano le difficoltà o i guasti cui si va incontro quando l’affidamento si presenta come una soluzione residuale o di emergenza, mentre tale intervento dovrebbe avere una funzione preventiva. L’inserimento del minore in una nuova famiglia non rappresenta il punto di arrivo di un processo, quanto il momento di partenza di un progetto teso al recupero del minore e del suo ambiente di origine. Una condizione positiva per l’affidamento è poi costituita dalla possibilità che la famiglia affidataria ed il minore accolto non risultino troppo distanti culturalmente, obiettivo questo non impossibile anche se non facilmente perseguibile. Inoltre, l’accettazione della famiglia di origine (sia da parte degli operatori, che della famiglia affidataria) può aiutare il minore ad inserirsi in modo positivo nel nuovo ambiente che lo accoglie.

 

In tutti i casi l’affido si presenta come una soluzione “complessa” per i minori che devono lasciare la loro famiglia di origine e che vengono accolti in un altro nucleo; per le famiglie (affidatarie e di origine) diversamente investite da questa esperienza; per gli operatori ed i servizi sociali che hanno la responsabilità del caso e che devono seguire sia il minore che le famiglie coinvolte, garantendo loro risorse ed interventi. Proprio dall’apporto di questi diversi soggetti dipende la riuscita di un intervento non facile ma socialmente assai innovativo. Tra i motivi positivi che muovono a questo impegno vi è indubbiamente l’idea di favorire l’autonomia di cittadini che altrimenti sono destinati a stare ai margini della società. Un affidamento ben impostato e seguito, può consentire al minore di uscire dal sistema assistenziale e di tendere alla propria autonomia di vita. L’intento è di aiutarlo a rompere la spirale che lo spinge al ribasso, offrendogli ragioni e risorse per costruirsi un futuro indipendente. Anche l’affidamento, dunque, è un luogo privilegiato di esercizio di cittadinanza attiva.

 

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