Prospettive assistenziali, n. 135, luglio-settembre 2001

 

Ricovero in istituto e risarcimento del danno

Massimo dogliotti

 

Nell’editoriale del n. 133, 2001, di Prospettive assistenziali, abbiamo segnalato la costituzione dell’Associazione “Mai più istituti d’assistenza”. Fra le finalità, la richiesta alle autorità competenti del risarcimento dei danni morali e materiali subiti da persone ricoverate in istituti di assistenza  durante   la loro minore età. Al riguardo, abbiamo chiesto un parere a Massimo Dogliotti, magistrato della Corte di appello e docente di diritto all’Università di Genova, che ci ha inviato l’articolo che riportiamo.

 

1)  Ormai sull’affermazione dei diritti del minore e di ogni soggetto debole (handicappato, anziano, malato di mente, ecc.) il consenso è generale. E tuttavia, quando si tratta di scendere nel concreto, di dare piena attuazione, di rendere veramente esigibili e operanti tali diritti, le difficoltà, gli ostacoli sembrano diventare insormontabili.

Certo il diritto del fanciullo allo sviluppo pieno ed armonico della sua personalità trova sicure garanzie in famiglia o fuori di essa (quando i genitori siano “incapaci”, la legge, anche ai sensi dell’art. 30, comma secondo della Costituzione, assicura che comunque siano adempiuti gli obblighi genitoriali: è la tematica dell’adozione e dell’affidamento familiare, che da “temporaneo” tende talora necessariamente a permanere a tempo indeterminato).

Ma se l’adozione non è possibile, non sussistendone i presupposti (manca “l’abbandono” dei genitori di origine) e non si può far luogo all’affidamento familiare (per varie ragioni: perché non vi sono ad esempio coppie o persone singole disponibili, ma pure, magari, perché l’ente locale non ha creduto a fondo in tale possibilità, promuovendola, potenziandola e  rendendola più facile)? O magari sussiste l’abbandono, ma il minore già adolescente, handicappato, ecc. difficilmente potrà essere dato in adozione? La risposta sarà ancora e sempre l’istituto di assistenza. Certo - si potrebbe dire - non si tratta più dell’istituto di una volta, il trattamento è umanizzato e individualizzato, e poi vi sono le case alloggio, le comunità familiari, in cui sono maggiormente considerati i profili affettivi e relazionali.

Tuttavia dalla permanenza dei minori in istituto, al di là delle capacità e talora dell’abnegazione e sacrificio degli operatori, derivano indubbi guasti  alla personalità  del soggetto, magari proprio nel  periodo più delicato del suo sviluppo. Senza contare le indubbie violazioni dei diritti fondamentali della persona, che necessariamente derivano da un’organizzazione spersonalizzante dell’istituzione. Non si tratta, in genere, come qualche opinionista vorrebbe far credere, di minori “abbandonati” (potrebbe essercene qualcuno, ma a ciò si dovrebbe sopperire con un controllo più incisivo e adeguato sugli istituti, da parte dell’autorità pubblica), ma al contrario di fanciulli che potrebbero rimanere a casa nel loro ambiente, nella loro scuola, a contatto con gli amici e godendo dell’affetto delle loro famiglie, se gli enti locali preposti (la Regione per la programmazione e il Comune per l’erogazione delle prestazioni) attivassero una rete di servizi, adeguata e capillare, oppure fornissero sussidi alle famiglie, privilegiando dunque, come sarebbe doveroso - e costituisce un principio base del nostro ordinamento - la permanenza del minore in famiglia.

In tal caso, dunque, il diritto del minore a vivere e crescere nel proprio ambiente di origine non può attuarsi non già per “incapacità” dei genitori (quanti, al contrario, mantengono un rapporto stretto con il figlio, lo visitano in istituto per quanto possono, lo accolgono a casa in fine settimana e in altri periodi dell’anno, ecc.!) ma… per “incapacità” degli enti preposti.

 

2)  Nel rapporto tra soggetti privati, ma ormai sempre più spesso in quello tra privati e pubblica amministrazione, quando un diritto è violato, ci si può rivolgere al giudice per ottenere la diretta e specifica attuazione del diritto stesso ovvero, se ciò non è possibile, un risarcimento del danno derivante dalla violazione del diritto stesso (si tratta della corresponsione di una somma di denaro che fornisce al soggetto leso una soddisfazione, certo inferiore a quella che gli verrebbe da una diretta attuazione del diritto). Nella specie, il minore (una volta divenuto maggiorenne) o il suo legale rappresentante, non potrebbe certo chiedere al giudice di ordinare al Comune di apprestare servizi e sostegni alla famiglia. Ma potrebbe ottenere un risarcimento del danno “per equivalente”.

Lo schema dovrebbe essere quello generale stabilito per la responsabilità civile dell’art. 2043 del codice civile: qualunque fatto doloso o colposo che cagiona danno ingiusto dà luogo al risarcimento del danno. Sarebbe necessario dunque un comportamento doloso (voluto) o almeno colposo (dovuto a trascuratezza, imperizia…) dell’autore della lesione (nella specie, evidentemente, l’assenza di interventi e di una generale programmazione alternativa al ricovero in istituto), una grave lesione dei diritti del soggetto (difficoltà nello sviluppo psico-fisico, carenze affettive, di socializzazione, ecc.), un rapporto di causalità tra i due predetti elementi.

Va detto che in questi anni si è notevolmente estesa l’area della responsabilità civile, ciò che fino a qualche tempo fa appariva del tutto impensabile. Con un così radicale ampliamento, il riferimento al dato normativo diventa sempre più sfumato; al giudice tocca procedere alla c.d. selezione degli interessi: di fronte ad un conflitto, si tratta di scegliere l’interesse considerato maggiormente meritevole di tutela. Ma quali sono i criteri di scelta? Il magistrato è investito di un compito estremamente gravoso: quello di farsi interprete della coscienza sociale e dei valori dominanti (ma anche e soprattutto di quelli emergenti) nella nostra società, in questo determinato momento storico.

Non si deve sottacere l’importanza dell’estensione della responsabilità civile: è in fondo, per molti versi, l’affermazione della dignità della persona e della tutela dei suoi diritti (spesso si tratta dei soggetti più deboli) contro aggressioni  e prevaricazioni, di fronte alle quali precedentemente essa era del tutto inerme. (Al riguardo, cfr. Dogliotti e Figone, “Il danno ingiusto”, Torino 1998, 110 n).

Nell’ambito del fenomeno sopra descritto, un’estensione dell’operatività della responsabilità civile, tra l’altro, particolarmente attenta, come si diceva, alla posizione dei soggetti più deboli, si colloca la recente fortuna del c.d. danno esistenziale. Un “nuovo” danno che presenta un ventaglio di indicazioni originali e nel cui ambito si rinvengono tanto lesioni già tradizionalmente rientranti in altre categorie, quanto lesioni apparentemente del tutto inedite “sequenza di dinamismi alterati, un diverso fare o dover fare o non più fare, un altro modo di rapportarsi al mondo esterno, un’attenzione verso qualsiasi modalità realizzatrice della persona, addirittura l’intero mondo dell’antigiuridicità”. (Sono parole di Cendon, Non di sola salute vive l’uomo, Riv. crit. dir. priv., 1998, 225 n).

 

3) Dunque non sarebbe più così azzardato sostenere una risarcibilità dei danni derivanti al soggetto dalla prolungata permanenza in istituto, a fronte della sua possibilità di vivere e crescere nel proprio ambiente di origine.

Ma chi dovrebbe essere considerato autore della lesione? Sicuramente l’ente locale: la Regione per la carenza nella generale programmazione, il Comune per l’assenza di prestazioni alternative al ricovero; si potrebbe talora pure ipotizzare una responsabilità concorrente della direzione e magari del personale dell’istituto (ma soltanto qualora tali soggetti non seguano le direttive dell’ente locale e, con il loro comportamento, aggiungano emarginazione ad emarginazione, carenze a carenze istituzionali).

Quanto alla determinazione del risarcimento del danno (e cioè la quantificazione della somma di denaro che ha la funzione di alleviare “per equivalente” le gravi lesioni psicofisiche subite dal soggetto), va precisato che l’art. 2059 del codice civile limita il risarcimento del danno ai profili patrimoniali (perdita subita o mancato guadagno) ammettendo quelli non patrimoniali nei “soli casi consentiti dalla legge”.

Il caso più frequente è l’esistenza di un’ipotesi di reato (bisognerebbe cioè dimostrare che l’ente abbia commesso reato: omissione d’atti d’ufficio, ecc., o magari la direzione dell’istituto o il personale ulteriori reati: violenza privata, percosse, lesioni, minacce, ecc.).

Ma, al di là di fatti così eclatanti, va ulteriormente sottolineato che da tempo ormai si ritiene che le lesioni dei diritti personali e personalissimi del soggetto (quelli appunto che attengono al suo sviluppo psicofisico) possono prescindere da ogni incidenza patrimoniale, rilevando la lesione in sé.

Numerose sono ormai le pronunce in materia. Si segnala, tra le altre, una sentenza della Cassazione (Cass. 6-4-1983, n. 2396), ove si pone soprattutto l’accento sul risarcimento del danno, non riconducibile alla sola attitudine a produrre reddito, ma collegato alla somma delle funzioni naturali (le quali hanno rilevanza biologica, sociale, culturale ed estetica, in relazione alle varie articolazioni in cui la vita si esplica, e non solo a quella economica) afferenti al soggetto. La Suprema Corte trova la giustificazione della risarcibilità del danno alla persona nella clausola generale dell’art. 2043 del codice civile che pone il principio della risarcibilità del danno “ingiusto” senza ulteriori specificazioni (senza, in particolare, alcun riferimento alla natura patrimoniale del danno). La nozione di danno “ingiusto” non può che richiamare, secondo la Corte, il “complesso valore della personalità nella sua proiezione non solo economica ed oggettiva, fatta palese dal patrimonio, ma anche soggettiva (biologica e sociale)”. In tal senso danno patrimoniale e non patrimoniale (quest’ultimo nell’astratta accezione di danno morale, caratterizzato da sofferenze, dolori, ecc.,  e rilevante soltanto nei casi previsti dalla legge ai sensi dell’art. 2059 del codice civile) non sono che specificazioni di una figura più generale che li ricomprende, ma non li esaurisce.

Precisa la Corte costituzionale (Corte cost. 14-7-1986, n.184) che, in generale, il riconoscimento di un diritto soggettivo non esclude che siano posti limiti alla sua tutela risarcitoria, ma ciò non può accadere per i “diritti e gli interessi dalla Costituzione dichiarati fondamentali”.

Per quanto si è detto dunque nessuna limitazione potrebbe ipotizzarsi per il risarcimento del danno.

 

4)  Certo una somma di denaro può soltanto alleviare la lesione subita e non sicuramente restaurare il diritto violato, ma il risarcimento per equivalente è la tecnica più adeguata, quando appunto non sia possibile una soddisfazione diretta, tecnica tradizionale che ha trovato in questi anni un’insospettata capacità di adeguamento ad esigenze nuove, a valori nuovi. Quella finora esaminata costituisce ulteriore prova, come si diceva, della modernità e dell’attualità del risarcimento del danno da responsabilità civile.

 

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