Prospettive assistenziali, n. 135, luglio-settembre 2001

 

Prospettive e significati dell’adozione

Marisa del Guercio

 

Le recenti disposizioni legislative in materia di adozione hanno riaperto una serie di interrogativi che rimandano direttamente al significato o ai significati dell’adozione stessa. Le parole di opinionisti, addetti ai lavori, protagonisti animano un dibattito che non pare potersi risolvere chiamando in causa il principio del superiore interesse del minore. D’altra parte, uno degli articoli della riforma di legge che suscita le reazioni più accese riguarda gli adulti: i figli adottivi maggiorenni che desiderano conoscere l’identità anagrafica di chi li ha procreati. Sospendendo la riflessione sui problemi pratici che queste riforme pongono, pare utile soffermarsi sul “diritto all’origine” come possibile chiave di lettura del /i significato/i dell’adozione.

 

Le parole dell’esperienza

Un buon punto di partenza per intraprendere un percorso di comprensione del significato è rappresentato dalle parole che i figli adottivi utilizzano per comunicare la propria storia adottiva e per parlare di origini. Gli stralci e le considerazioni che seguiranno non hanno alcuna pretesa di scientificità, ma propongono delle linee interpretative sull’essere adottati. Il sito web Figli adottivi e genitori naturali (1) è uno spazio virtuale in cui i figli adottivi che intendono intraprendere la ricerca sulle proprie origini si confrontano, si consigliano e si supportano raccontando le proprie emozioni e i propri stati d’animo.

Racconta S.: “Mi rendo conto che ciò che cerco è diverso da quello che penso di trovare. Io so di volerla toccare, vedere, per ritrovare qualcosa di me e sentire continuità e questo mi tormenterà finché non l’avrò trovata, ma so anche che alla parte più infantile e irrazionale di me questo non basta. Quella parte vorrebbe ritrovare una madre, una donna che capisca che ho sofferto per l’abbandono e che soprattutto colmi con il suo affetto il vuoto.” 

Anche Storie di figli adottivi (2), utilizzando la tradizionale carta stampata, fornisce numerose testimonianze sull’essere figli adottivi e sui pensieri intorno alle origini. Sandro racconta: “In quegli anni mi chiedevo davvero perché chi mi aveva messo al mondo non mi avesse tenuto. Questo momento di crisi se n’è andato così come è venuto e non ho più sentito il bisogno di sapere chi fossero. Certo, il sapere di essere abbandonati è un pensiero che ti turba, ma ora so che molte cose in questo mon-do sono inspiegabili, ingiuste… Io sono stato for­tunato”. 

Sempre da questa raccolta di testimonianze, le parole di Graziella propongono un terzo approccio alla questione: “Personalmente ho sentito il bisogno di conoscere le mie origini familiari fin da quando ero piccola. Essendo di natura molto curiosa ho sempre fatto molte domande in merito, ma non essendo stata riconosciuta dai miei procreatori, ho dovuto rassegnarmi al difetto delle risposte sempre molto insoddisfacenti di coloro che mi amavano. Questa sensazione di imperfezione e di manchevolezza era comunque, paradossalmente, sempre accompagnata dal forte timore di incontrare realmente la mia famiglia biologica e di dovermi confrontare con delle persone emarginate e problematiche certamente diverse da quelle idealizzate”.

Cristina, Sandro e Graziella devono fare i conti con un passato o un’origine non facilmente gestibili. Le apparenti contraddizioni, i vuoti, il senso di manchevolezza segnano uno sforzo nel domare e contenere emozioni ambivalenti.

L’ambivalenza, d’altra parte, è uno stato emotivo che denota le esperienze di molti dei protagonisti dell’adozione. Figli e genitori adottivi si confrontano con un senso di appartenenza non definito univocamente dall’evento nascita e i segnali di incertezza nel percorso di crescita familiare sono difficili da contenere.

I genitori nel rievocare i momenti salienti della storia adottiva raccontano di incontri tanto attesi con il figlio del desiderio, delle sue prime domande che chiamano in causa la pancia di un’altra donna, della scuola come banco di prova di un buon genitore-educatore, delle domande di conoscenti impertinenti (3).  Troppo spesso si fatica a leggere e ad accettare come “normali” gli stati d’animo contrastanti dietro l’ansia e i timori dei protagonisti dell’adozione.

 

Il modello psicopatologico

Lo psicologo americano David Brodzinsky, impegnato da anni nel trattamento e nello studio dei figli adottivi, fornisce un modello per comprendere il vissuto dell’adozione da parte dei figli mostrando un ampio spettro di emozioni, pensieri ed esperienze. I compiti evolutivi che li attendono nel ciclo della vita richiedono un’elaborazione complessa in cui intervengono vari fattori e difficoltà, ma ciò non implica necessariamente l’insorgenza di psicopatologie.

Brodzinsky si sofferma, inoltre, sulla pratica dell’adozione aperta formulando ipotesi ed esprimendo le proprie opinioni in proposito. In primo luogo propone un distinguo fra l’accesso all’anagrafe da parte degli adottati e il ricongiungimento con i genitori biologici o procreatori (4). Nel primo caso appoggia l’iniziativa con argomentazioni per lo più di tipo etico; nel secondo caso, quando i tre poli dell’adozione (figlio adottivo, genitori adottivi, procreatori) rimangono in contatto, Brodzinsky avanza delle riserve. “L’adozione aperta è relativamente nuova. I primi bambini adottati con il sistema aperto stanno appena entrando nei loro 10 anni, e la maggior parte non ha ancora terminato la scuola elementare. Indubitabilmente, l’esperienza dell’adozione aperta modificherà il vissuto dei figli adottivi. Se alla madre di nascita viene dato un nome, un volto e un ruolo come membro molto speciale della famiglia allargata, la perdita sentita dagli adottati non sarà la stessa. Come sarà sentita, comunque, non si sa ancora  (…) (5). In positivo, crediamo, l’adozione aperta possa eliminare il mistero e la paura dello sconosciuto che ha procurato così tante difficoltà ad alcuni adottati (…). In negativo, i frequenti contatti con la madre di nascita possono accrescere la confusione e l’ansia del figlio” (6).

Dunque, l’autore ritiene che i motivi “della mente” per i quali l’ipotesi del ricongiungimento può essere accettata siano tutti da verificare. Probabilmente si eviteranno le difficoltà legate alle fantasie ingombranti sui procreatori, ma a quale prezzo? Dall’ambivalenza emotiva che caratterizza alcune tappe dello sviluppo affettivo degli adottati, si transiterà alla confusione nell’esperienza?

Altri studi provenienti dall’Inghilterra hanno cercato di sbrogliare l’intricata matassa dell’adozione utilizzando come chiave di lettura il rapporto fra salute mentale dei figli adottivi e ricerca dei procreatori. L’ipotesi di questa relazione stretta fu formulata da H.J. Sants nel 1964 che introdusse il concetto di confusione genealogica come condizione di rischio psicopatologico per tutti gli adottivi e venne ripresa da J. Triseliotis nel 1973 che la verificò mediante un’indagine empirica.

Vent’anni dopo il dibattito rimane ancora aperto e viene alimentato da nuove ipotesi esplicative sostenute da ulteriori evidenze empiriche. Se a livello scientifico la spiegazione  deterministica di una relazione causale fra “ignoranza delle origini” (intendendo per origini i nomi e cognomi dei genitori biologici) e psicopatologia è stata affiancata e arricchita da nuove ipotesi esplicative che chiamano in causa difficoltà nella storia pre e perinatale dell’adottato, l’esperienza più o meno breve dell’istituzionalizzazione precedente all’adozione, i rapporti con la famiglia adottiva, i problemi legati alla comunicazione dell’adozione ai figli adottivi (7), l’insicurezza dei genitori adottivi, la qualità dell’attaccamento nella famiglia biologica, la ricerca delle origini e l’incidenza dei problemi psicologici negli adottati sono  questioni da riconsiderare.

 

I segnali dalla ricerca

L’adozione è rischiosa per la salute mentale degli individui? I rapporti con i genitori adottivi possono essere pienamente soddisfacenti? I legami di attaccamento fra genitori e figli nell’adozione differiscono qualitativamente dagli standard della popolazione non adottiva? A queste e ad altre simili domande si è rivolta la ricerca scientifica partendo dall’alta incidenza di consulenze psichiatriche per i figli adottivi.

Le prime indagini risalenti a 30-35 anni fa con­clusero rilevando che i figli adottivi si rivolgevano più spesso dei non adottivi a psicoterapeuti e psichiatri (8).

 Le numerose critiche che sono state mosse a queste ricerche, minandone l’attendibilità dei risultati, hanno rilevato che il campione dei soggetti utilizzati non poteva essere rappresentativo della popolazione adottiva. In effetti, la reperibilità del campione non è facile poiché lo stato adottivo non compare in nessun documento e la legge ha sempre tutelato la privacy delle famiglie adottive.

Dunque, nella maggioranza dei casi il campione è clinico o autoselezionato (mediante annunci sui giornali pubblicati dai ricercatori stessi per reperire soggetti).

 Un’altra osservazione è che i genitori adottivi si rivolgono più spesso degli altri genitori a psichiatri e psicoterapeuti per affrontare le difficoltà di crescita dei loro figli poiché più insicuri sulle proprie capacità educative e timorosi di eventuali tare ereditarie.

Tuttavia, se attualmente i risultati della ricerca rimangono contraddittori nell’appurare se le persone adottate siano o meno soggetti a maggiore rischio psichiatrico, il modello psicopatologico continua ad essere applicato anche alla genitorialità adottiva, in particolare per leggere l’influenza che la maternità adottiva ha sui figli.

Numerosi autori (9) hanno sottolineato che l’infertilità femminile possa essere la causa principale di disturbi per sé e per i figli, arrivando anche a ipotizzare che esista una sindrome del figlio adottivo e che sia causata da impulsi materni di negazione verso l’adozione.

In Italia, sebbene non sia stata ancora definita una vera e propria sindrome del figlio adottivo, l’infertilità materna è spesso (forse troppo) chiamata
in causa come una ferita (colpa?) originaria inguaribile.

In base a questi presupposti più o meno verificati si dovrebbe ipotizzare che i rapporti familiari adottivi siano intrinsecamente rischiosi. È stata condotta una indagine sperimentale per esaminare la qualità dell’attaccamento delle coppie madre e bambino adottive comparandola con la qualità della relazione di coppie non adottive (10). I risultati mostrano che non vi è alcuna differenza significativa rispetto alla dimensione analizzata, cioè che le percentuali di attaccamento sicuro nel campione adottivo e in quello non adottivo sono le medesime. Il paradigma della teoria dell’attaccamento che si è dimostrato particolarmente fecondo per indagare le relazioni familiari mettendone in luce la variabilità degli stili e gli indicatori fenomenologici, è stato recentemente assunto per esaminare la qualità dei rapporti adottivi. In particolare, sono stati utilizzati degli strumenti euristici non clinici che hanno consentito di far luce sulle risorse, più che sui limiti, dei legami di attaccamento adottivi (11). È auspicabile che questo nuovo approccio all’adozione, che si riferisce alla teoria dell’attaccamento nei suoi recenti sviluppi, possa essere divulgato e sperimentato anche in Italia così da indicare gli ulteriori significati del vissuto adottivo.

 

Dai dati ai significati

L’urgenza con cui è stata approvata la riforma della legge sull’adozione in Italia a fine legislatura, compreso l’articolo sull’accesso all’identità, farebbe pensare ad una emergenza sul piano della realtà del Paese e ad un’unanimità di pareri sulle indicazioni fornite. Così non è stato e non è. I resoconti dei lavori parlamentari dimostrano che le perplessità sussistevano prima dell’approvazione della riforma. Sulla situazione del Paese rispetto alla questione non esistono dati ufficiali. Le uniche fonti che possiamo considerare a questo proposito sono una ricerca effettuata dall’Anfaa nel 1999 e il sito web Figli adottivi e genitori naturali. L’Anfaa ha interpellato i Tribunali per i minorenni e dai risultati raccolti è emerso che sono state presentate in tutto 48 richieste da figli adottivi che desideravano conoscere i nomi dei loro procreatori. Di queste 48 domande, 16 sono state fatte da persone non riconosciute alla nascita, 3 da persone che hanno saputo di essere state adottate solo in età adulta. Il registro di Faegn, su cui si iscrive chi desidera entrare in contatto con i procreatori o ricevere notizie su di loro, segnala 38 iscritti di cui 6 riconosciuti alla nascita, 6 non specificato. Il dato significativo su cui convergono le due fonti è l’incidenza di richieste da parte di persone non riconosciute.

Al di là del fatto che la riforma di legge non prevede per i non riconosciuti alcuna rivelazione di identità, sarebbe interessante esplorare il senso di un tale risultato. Forse l’esiguità numerica non ci consente di indicare delle tendenze nette, ma è doveroso prendere atto di questi segnali e cercare di leggerli.

In Inghilterra e in Galles, dove la legge consente agli adottati maggiorenni l’accesso ai dati anagrafici dal 1975, sono disponibili dal 1982 le statistiche riguardanti il numero di coloro che ricercano (12).  Dal 1982 il numero di coloro che hanno usufruito della opportunità è fisiologicamente cresciuto: da 628 richieste si è passati ad una media di 1000 richieste negli anni Novanta (13), circa il 15% degli adottati. Negli Usa, dove solo 3 Stati (Alaska, Kansas, Tennessee) garantiscono il diritto senza restrizione agli adottati in cerca delle suddette informazioni, non esistono statistiche ufficiali per censire il fenomeno. Questo favorisce le rivendicazioni dei movimenti pro accesso e di quelli contrari: i secondi sostengono che solo l’1% della popolazione adottata intraprende una ricerca e i primi controbattono che virtualmente tutti gli adottati provano la cosiddetta confusione genealogica e che coloro che non hanno il minimo interesse verso le proprie origini biologiche lo negano e lo rimuovono inconsciamente (14). Curiosamente ritorna l’ipotesi della confusione genealogica come strumento argomentativo degli stessi protagonisti dell’adozione.

La storia del dibattito sull’accesso all’identità anagrafica negli Stati Uniti può dare un senso a ciò che sta accadendo anche in Italia. Ad animare il dibattito nel nostro Paese non sono le testimonianze come quelle sopra riportate che denunciano difficoltà ed emozioni ambivalenti, ma gli accorati appelli di chi chiama in causa un modello psicopatologico di famiglia adottiva.

 

Guarire l’adozione

Katarina Wegar ripercorre in Adoption, Identità and Kinship le tappe che hanno segnato la storia del dibattito sull’accesso all’identità da parte degli adottati da un punto di vista sociologico. Nella sua analisi smaschera le contraddizioni e le ambiguità sottese alle parole del movimento americano nato negli anni ’70 per sostenere il diritto all’origine. A differenza della tradizionale prospettiva psico-medica che ha illuminato solo fattori individuali o intrapsichici utili nei singoli casi di terapia ma inutili a delineare strategie e politiche, la Wegar prende in considerazione i simboli e i significati che la società e la cultura americana hanno trasmesso attraverso questo dibattito. L’attenzione al contesto e alle condizioni storico sociali in cui si colloca l’adozione riprende l’impostazione del lavoro condotto da  D. Kirk (15) negli anni ’60. Kirk notò che le famiglie adottive che aveva esaminato avevano sviluppato un atteggiamento ambivalente nel confrontarsi con le famiglie fondate su una genitorialità “naturale”: o negavano che sussistesse una qualche differenza o, all’opposto, riconoscevano la differenza rispetto alle altre famiglie. Kirk sostenne, inoltre, che la strategia dell’accettazione e del riconoscimento della differenza favoriva il benessere dei figli adottivi. Questa conclusione venne accolta dalla letteratura e dal movimento pro accesso come prova dell’inevitabile disagio che l’adozione comporta. In realtà, sottolinea la Wegar analizzando il lavoro di Kirk, ciò che non è stato affatto ripreso di tale studio è il motivo dell’atteggiamento ambivalente assunto dai genitori adottivi rispetto alla questione, motivo che Kirk colloca nel contesto sociale dell’adozione. L’autore osserva che l’atteggiamento richiesto ai genitori adottivi da parte degli operatori e della comunità consiste nell’accettare e contemporaneamente rifiutare gli aspetti caratterizzanti la genitorialità adottiva. Per esempio, nonostante sia accentuata la natura sociale dei legami fra genitori e figli, l’enfasi sull’ereditarietà del figlio trasmette ai genitori messaggi contrastanti. Ciò che stigmatizza l’adozione non è da ricercarsi nella sfera affettiva che coinvolge adottanti e adottati, ma nel più ampio contesto socioculturale in cui le famiglie adottive vivono.

Non considerando l’impatto dei modelli e delle credenze socio culturali riguardanti l’infertilità, l’assenza di figli, l’essere donna (madre adottiva e ragazza madre, n.d.a.), i rapporti e il significato dei legami di sangue, alcuni studi hanno riflettuto e rinforzato un’ideologia di famiglia che definisce i rapporti adottivi come intrinsecamente inferiori a quelli biologici.

Paradossalmente, i ricercatori hanno perpetuato un modello di famiglia “normale” con cui le famiglie adottive non possono confrontarsi (16). Sem­plificando la tesi della Wegar, anche a scapito della precisione con cui l’autrice l’argomenta, il fatto che gli adottati siano una popolazione afflitta da svariati problemi psicologici causati dalla mancata conoscenza della propria genealogia è stato confermato non tanto da evidenze empiriche, quanto dal tipo di prospettiva teorica e disciplinare assunta dagli studiosi; inoltre, tale prospettiva ha potuto diffondersi e consolidarsi negli anni perché conferma indirettamente credenze e modelli familiari radicati nella società americana.

L’analisi della Wegar sulle rappresentazioni sociali dell’adozione mostra che la questione delle origini chiama in causa i valori americani dell’individualismo inteso come autodeterminazione e scelta del proprio destino, della verità come principio morale, della famiglia come cellula che garantisce stabilità al tessuto sociale. Questi valori stanno attraversando un periodo di crisi profonda nell’America contemporanea e il dibattito sull’accesso alle origini degli adottati diventa l’occasione per rivedere questi ideali, per ribadirli o metterli in gioco.

 La tendenza statunitense emersa dall’analisi della Wegar sembra quella di riconfermare i modelli culturali tradizionali ancorandoli all’inviolabilità dei legami di sangue, gli unici a garantire agli occhi degli americani la stabilità della famiglia e a definire in maniera univoca l’identità personale. L’adozione in questo mondo di significati rimane un ripiego mal riuscito di famiglia, un errore da cancellare o uno stato da guarire.

La riflessione presentata, pur riferendosi ad un contesto sociale, geo-politico e storico diverso da quello italiano, può fornire alcuni spunti per far luce sul senso della “nostra” adozione. La riforma di legge italiana ha risollevato la questione delle origini dei figli adottivi proponendo una soluzione nuova alle precedenti disposizioni normative e, pare, abbia recepito alcune delle indicazioni provenienti dagli studi sull’argomento e dalle voci di una parte dei figli adottivi. Il dibattito che ha suscitato non si è però sopito e può diventare una feconda occasione per interrogarsi sui significati e sui modelli culturali che conferiscono senso non solo all’adozione, ma anche ai legami familiari, all’essere genitore e figlio. Questo ripensamento, che ogni adottato e adottante affronta nel corso della propria vita, richiede un impegno di responsabilità diffuso; a partire dalla problematizzazione del modello psicopatologico che interpreta univocamente l’adozione come un problema da curare (17).

 

 

(1) www.communities.msn/Figliadottiviegenitorinaturali

(2) E. De Rienzo, C. Saccoccio, F. Tonizzo, G. Viarengo, Storie di figli adottivi, l’adozione vista dai protagonisti, Utet 1999.

(3) Ho condotto una ricerca sul campo in occasione della mia tesi di laurea in cui ho intervistato 9 genitori adottivi sulla loro storia adottiva. La metodologia qualitativa con cui ho lavorato ha consentito di sondare i vissuti di mamme e papà sul rapporto con i figli e sul confronto con le origini etero familiari dei figli stessi. Tesi di laurea non pubblicata “La comunicazione delle origini ai figli adottivi”, relatore Prof. ssa Susanna Mantovani, Università degli Studi di Milano, 1998.

(4) La pratica dell’adozione aperta può variare molto: da limitati contatti alla presenza di un intermediario, alla selezione da parte dei procreatori delle coppie che intendono adottare il bambino.

(5) D. Brodzinsky, Schechter M., Marantz R., Being Adopted. The lifelong search for self, Anchor Books,1993, pag.20.

(6) D. Brodzinsky et alii, idem, pag.188-189.

(7) M. Humphrey, H. Humphrey, “A Fresh look at genealogical bewilderment”, in British Journal of Medical Psychology, 1986, 59.

(8) In particolare, in USA, le ricerche e le conclusioni dello psichiatra Schecter hanno avuto larga influenza in questo senso.

(9) Si rimanda a K. Wegar, Adoption, Identity, and Kinship,1997, Yale University.

(10) Singer L.M., Brodzinsky D. M., Ramsay D., Steir M., Waters E., “Mother – Infant Attachment in Adoptive Families”, in Child Development, 1985, 56.

(11) Oltre al citato studio apparso su Child Development, mi riferisco a Steele M., Kaniuk J., Hodges J., Haworth C., Huss S., “The use of the Adult Attachment Interview: Implications for Assessment in Adoption and Foster Care”; Steel M., Hodges J., Kaniuk J., Henderson K., Hillman S., Bennet P., “The use of story stem narratives in assessing the inner world of the child: Implications for adoptive placements”, studi pubblicati su Assessment, Preparation and Support: Implications from Research, BAAF Publications 1999, London.

(12) Tali dati sono ricavati dai colloqui a cui, in base alla normativa vigente, i richiedenti sono invitati a sottoporsi.

(13) Dal sito www.statistics.gov.uk.

(14) La figlia adottiva e psicoterapeuta Betty Lifton, autrice del libro Twice Born, interviene in più occasioni sostenendo questa argomentazione.

(15) Kirk D., Shared Fate: A theory of Adoption and Mental Health, New York, Free Press, 1964.

(16) K. Wegar, op.cit., pag. 60.

    (17) Ho trattato diffusamente nella mia tesi di laurea, v. supra, l’opportunità di superare un approccio clinico all’adozione a favore di una prospettiva multidisciplinare che sappia cogliere e mobilitare le risorse presenti nel nucleo familiare.

 

www.fondazionepromozionesociale.it