Prospettive assistenziali, n. 135, luglio-settembre 2001

 

I Cittadini in gravi difficoltà: i diritti e le illusioni tecnocratiche della fondazione zancan

francesco santanera

 

 

Tiziano Vecchiato, Direttore scientifico della Fondazione Zancan, sul n. 6/2000 di “Politiche e servizi alla persona”, dopo aver espresso un giudizio nettamente positivo sulla legge 328/2000 (1), ha sostenuto che è «necessario prevedere meccanismi di regolazione dell’accesso [alle prestazioni] basati sulla valutazione tecnico-professionale del bisogno», al fine di rendere compatibili il principio dell’universalismo (2) con l’esigenza di garantire gli interventi occorrenti agli individui in gravi difficoltà personali e sociali.

Al riguardo, non si capisce perché Vecchiato non si sia adoperato affinché la legge 328/2000 stabilisse diritti esigibili a favore di coloro che, se non ricevono anche le prestazioni di assistenza o muoiono (bambini senza famiglia, ecc.) o sono costretti a ricorrere alla beneficenza privata o cadono nel baratro dell’emarginazione (donne o minori avviati alla prostituzione, persone senza fissa dimora, ex carcerati e loro congiunti, ecc.), tanto più che, nell’udienza conoscitiva indetta dalla Commissione affari sociali della Camera dei Deputati il 27 maggio 1997, dopo aver ricordato che «mentre in sanità vi sono servizi essenziali obbligatori, nell’area dei servizi di assistenza sociale tutto è lasciato troppo alla discrezionalità», aveva giustamente sostenuto che «un sistema unitario dovrebbe invece elencare i servizi essenziali e i finanziamenti con cui realizzarli». Inoltre, aveva precisato che «per quanto riguarda le garanzie di esigibilità dei diritti (…) una legge che non sciolga questo nodo è solo una buona legge di promesse, non di garanzie».

Ritornando alle posizioni assunte dal Direttore scientifico della Fondazione Zancan nell’articolo citato, dobbiamo precisare che, a nostro avviso, “universalismo” e “selettività” sono assolutamente antitetici. Volerli conciliare significa solo danneggiare i più deboli (com’è avvenuto con la legge 328/2000) e ingannarli un’altra volta attribuendo alle amministrazioni locali ed ai loro funzionari ampi spazi di discrezionalità: in sostanza si ritorna al vecchio e deleterio concetto della beneficenza.

Ovviamente, idonee leggi regionali e valide deliberazioni dei Comuni singoli o associati possono compensare, sia pur in misura parziale, le gravi carenze della legge 328/2000 (3). Va, tuttavia, osservato che le suddette iniziative potevano essere assunte anche prima dell’approvazione della legge di riforma dell’assistenza e dei servizi sociali.

 

Assurdità dell’universalismo previsto dalla legge 328/2000

Che l’universalismo della legge 328/2000 sia un principio assurdo, è dimostrato incontrovertibilmente dal fatto che non sono destinabili a tutta la popolazione le prestazioni assistenziali. Ad esempio, com’è ovvio, le attività relative all’adozione (segnalazione dell’autorità giudiziaria dei minori dichiarabili in stato di adottabilità, valutazione delle loro condizioni di vita, accertamenti sull’assolvimento dei compiti educativi da parte dei loro genitori e dei loro parenti, ecc.) non devono essere estese a tutti i fanciulli  ed a tutti i loro congiunti.

Analoghe considerazioni valgono per le altre prestazioni: gli emolumenti economici diretti ad assicurare il minimo occorrente per vivere non possono essere erogati a coloro che hanno redditi e beni sufficienti per soddisfare le loro esigenze di vita. Parimenti, sarebbe un comportamento insensato sottrarre i bambini ai loro genitori validi sul piano educativo  ed affettivo, per inserirli presso famiglie affidatarie.

Che ne direbbero le donne e gli uomini se  ad essi venissero fornite, in base al principio dell’univer­salismo, le prestazioni assicurate alle persone dedite alla prostituzione ed agli individui senza fissa dimora?

In sostanza, non si capisce per quali motivi, se non in base a considerazioni esclusivamente astratte, una legge debba prevedere servizi per tutta la popolazione, quando solo il 2-3% degli abitanti ha l’esigenza di interventi aggiuntivi rispetto a quelli di competenza della sanità, della formazione scolastica e professionale, dei trasporti, ecc., attività che sono rivolte – evidentemente – a tutta la popolazione  e, quindi, hanno oggettivamente natura universalistica.

In secondo luogo, non si comprende per quali motivi, le norme relative ai servizi sociali debbano prevedere che tutte le attività, escluse solo quelle assicurate dalla sanità, dalla previdenza e dall’amministrazione della giustizia, possano essere erogate dai servizi sociali, nonostante che i finanziamenti previsti siano appena sufficienti per rispondere alle esigenze vitali di coloro (ripetiamo, il 2-3% della popolazione) che vivono in condizioni di marginalità o rischiano di cadervi.

Ma, soprattutto, è certamente priva di qualsiasi logica la negazione alle persone più deboli, spesso incapaci di autodifendersi, del diritto esigibile di ottenere dai Comuni singoli o associati l’erogazione delle prestazioni concernenti le loro esigenze vitali che non sono, né possono essere, soddisfatte dai settori primari sopra indicati, preposti cioè alla sanità, alla formazione, ai trasporti, ecc.

Se ognuno di noi ha un cognome e un nome, se i bambini vanno a scuola, se il Servizio sanitario ci cura, se dopo aver lavorato percepiamo uno stipendio e in seguito una pensione, ciò avviene grazie al fatto che le leggi vigenti ci riconoscono questi diritti, diritti che, se non vengono rispettati, possono essere ottenuti ricorrendo all’autorità giudiziaria.

I settori pubblico e privato ed il relativo personale non hanno alcuna possibilità di negare i suddetti (e altri) diritti. L’accesso alle prestazioni è deciso dalla legge: le amministrazioni preposte, sia esse pubbliche o private, ed i loro addetti hanno esclusivamente compiti attuativi.

Ciò premesso, non riusciamo a comprendere per quali motivi etici e giuridici non siano stati riconosciuti diritti esigibili per l’ottenimento delle prestazioni che, nei casi più gravi, sono indispensabili per la sopravvivenza.

Perché i più deboli devono essere dei senza diritti, dipendenti dalla discrezionalità delle istituzioni, degli amministratori e degli operatori?

Ha giustamente dichiarato Raniero La Valle (Segno, n. 220, dicembre 2000) che «il diritto potrebbe essere la più grande risorsa per la difesa del povero. Perché sta nel codice genetico del diritto di essere alternativo alla forza, di essere l’antidoto alla guerra, di essere la difesa del debole. Il forte non ha bisogno del diritto, perché quello di cui ha bisogno se lo prende da sé».

 

Fuorvianti affermazioni

Nel citato articolo, Tiziano Vecchiato sostiene che, nel corso del dibattito parlamentare relativo all’attuale legge 328/2000, si sarebbero scontrate due posizioni: «Chi sosteneva l’universalismo, riteneva che il sistema dei servizi sociali doveva essere pensato e realizzato per promuovere la qualità di vita sociale di ogni persona e di ogni famiglia. Chi al contrario voleva un approccio selettivo lo motivava con il fatto che dividere in parti uguali fra disuguali era profondamente ingiusto e contrario ai principi costituzionali».

In realtà, le posizioni assunte prima e durante il dibattito parlamentare non sono state quelle esposte dal Vecchiato.

Infatti, le proposte di legge presentate, ad esclusione di quella di Rifondazione comunista, non prevedevano nessun diritto esigibile in materia di assistenza. Quella predisposta dalla Fondazione Zancan e dalla Caritas italiana (4) cancellava addirittura i diritti, di fondamentale importanza per tutta la popolazione, esistenti nel campo dei servizi sanitari (5): quindi non era finalizzata all’universalismo, bensì al ritorno della discrezionalità e cioè della beneficenza.

Inoltre, nel testo della Fondazione Zancan e della Caritas italiana, era previsto – fatto gravissimo – quanto segue: «I cittadini utenti e le loro famiglie sono chiamati a contribuire alle spese di funzionamento dei servizi» sanitari e assistenziali (art. 27 della proposta di legge n. 2743).

A sua volta, la legge 328/2000 che, ha recepito la posizione della Caritas italiana e della Fondazione Zancan – anche se, per fortuna dei cittadini italiani, con esclusione delle norme concernenti la sanità – pone sullo stesso piano giuridico sia le prestazioni indispensabili per vivere, sia quelle che migliorano la qualità della vita di coloro che già stanno bene o benissimo.

Invero, in base alla legge in oggetto, i servizi sociali possono operare non solo nel campo dell’assistenza, ma anche svolgere funzioni in materia di tempo libero (corsi di ginnastica, balli, centri di incontro, atelier riguardanti le attività cinematografiche e televisive, laboratori fotografici, ecc.), di turismo urbano ed extra cittadino (visite a musei, soggiorni di vacanza, ecc.), di sport (giochi vari, eccetto quelli a carattere professionale e competitivo), di animazione culturale (teatro, danza, musica, ecc.).

Nello stesso tempo, la legge 328/2000 consente ai Comuni singoli o associati di disinteressarsi anche completamente dei minori privi di adeguato sostegno familiare, degli handicappati intellettivi con limitata o nulla autonomia, delle donne e degli uomini che vogliono uscire e non cadere nella schiavitù della prostituzione, delle persone senza fissa dimora e degli altri soggetti aventi gravi difficoltà personali e sociali.

Permette, inoltre, agli enti locali di non intervenire a favore dei soggetti che attualmente sopravvivono (se ce la fanno) con la pensione di 411 mila lire mensili! (6), che sono nell’assoluta e definitiva impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa proficua, come hanno accertato le apposite commissioni sanitarie.

Rileviamo, inoltre, che la posizione assunta dal Csa, Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base, e da Prospettive assistenziali nel corso del dibattito parlamentare concernente la riforma dell’assistenza, è ben diversa da quella espressa da Vecchiato.

Infatti, si chiedeva (e si chiede) che tutti i cittadini siano messi in grado di poter usufruire delle attività riconosciute universalistiche dalle leggi vigenti. Ad esempio, si chiedeva (e si chiede) che gli anziani cronici non autosufficienti, i malati di Alzheimer, i soggetti colpiti da disturbi psichiatrici non siano più trasferiti all’assistenza (o ai servizi sociali), ma vengano curati dal Servizio sanitario nazionale, così come lo sono i malati acuti (7); si chiedeva (e si chiede) che l’integrazione al minimo delle pensioni Inps, per le quali lo Stato ha speso nel 2000 ben 41 mila miliardi, sia concessa solamente a coloro che non hanno redditi sufficienti né beni mobiliari o immobiliari (8). Si chiedeva (e si chiede) che vengano colpiti il lavoro nero e il doppio lavoro, in modo da consentire a moltissimi disoccupati di poter trarre dal loro salario i mezzi economici necessari per vivere. Si chiedeva (e si chiede) che le case dell’edilizia economica vengano concesse in locazione solamente alla fascia più debole della popolazione e non ai benestanti (9).

In sintesi, si chiedeva (e si chiede) che i servizi definiti universalistici (sanità, scuola, trasporti, ecc.) possano essere utilizzati da tutti i cittadini, compresi – evidentemente per noi – anche quelli più deboli: in sostanza che siano effettivamente universalistici.

Per quanto riguarda i servizi assistenziali, non abbiamo mai sostenuto che era necessario, come ha scritto Vecchiato, «un approccio selettivo» e che «dividere in parti uguali fra disuguali era profondamente ingiusto e contrario ai principi costituzionali».

Abbiamo, invece, sostenuto e sosteniamo che non si possono mettere sullo stesso piano giuridico le esigenze vitali (tutela dei minori privi in tutto o in parte dell’indispensabile sostegno del suo nucleo familiare, assistenza dei soggetti con handicap aventi limitata o nulla autonomia, contributi economici a coloro che non dispongono di risorse sufficienti per vivere, ecc.) con il soddisfacimento di aspettative (tempo libero, attività ludiche, turismo urbano ed extra urbano, ecc.) assolutamente non indispensabili per una esistenza accettabile.

Partendo da questo principio il Csa aveva pre­disposto il seguente emendamento: «Com’è stabi-lito negli articoli seguenti, gli interventi e i servizi sociali si distinguono in obbligatori e facoltativi» presentato dagli onorevoli Diego Novelli e Tiziana Valpiana (10).

Ripetiamo, inoltre, che la priorità stabilita dal 3° comma dell’art. 2 della legge 328/2000 per i soggetti in condizioni di povertà o con limitato reddito o con incapacità totale o parziale di provvedere alle proprie esigenze per inabilità, non costituisce un diritto esigibile. Pertanto, se i Comuni non rispettano le priorità di cui sopra, i cittadini in condizione di bisogno non hanno alcun strumento giuridico per ottenere le prestazioni indispensabili per la loro sopravvivenza.

D’altra parte, i Comuni non sono tenuti né dalla legge 328/2000 né dal Piano nazionale degli interventi e servizi sociali 2001-2003, recentemente approvato dal Governo Amato (11), ad istituire i servizi che, ai sensi dell’art. 22 della legge 328/2000, costituiscono «il livello essenziale delle prestazioni sociali», trattandosi di espressione priva di alcuna rilevanza giuridica.

Di conseguenza non è assolutamente vero, come afferma Vecchiato nel citato suo articolo, che nella legge 328/2000 vi siano norme che consentono di affermare che «l’idea di operare per livelli essenziali e uniformi di risposta si fonda sulla premessa che non possiamo avere un sistema di diritti sociali se non a partire da risposte certe, distribuite nel territorio, accessibili, capaci di affrontare in modo efficace i bisogni».

Per sostenere quanto sopra, il Direttore scientifico della Fondazione Zancan afferma che: «livelli essenziali sono presenti anche in altri sistemi: il servizio sanitario nazionale e il sistema scolastico», dimenticando, però, che nei settori della sanità e della scuola sono previsti diritti esigibili, mentre nella legge 328/2000 tutto è facoltativo.

Dunque, l’operatività per livelli essenziali ed uniformi, peraltro non definita dalla legge 328/2000 come obbligatoria per i Comuni singoli e associati, anche se fosse assunta come riferimento dagli enti suddetti, non determinerebbe né un sistema di diritti sociali, né risposte certe: anche a questo riguardo non viene scalfita la piena discrezionalità delle istituzioni.

Non è nemmeno del tutto veritiera l’altra asserzione di Vecchiato secondo cui, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 22, «il servizio sociale professionale e il segretariato sociale, il servizio di pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personale e familiare, l’assistenza domiciliare, le strutture residenziali per soggetti con fragilità sociali, i centri di accoglienza diurni e residenziali a carattere comunitario (...) devono essere garantiti per ogni ambito territoriale deputato a gestire unitariamente i servizi alle persone», in quanto anche per detti interventi i Comuni singoli e associati (cfr. il comma 2 dello stesso art. 22) operano «nei limiti delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali».

Inoltre, i servizi citati da Vecchiato possono rivolgersi anche ad un numero molto limitato di soggetti rispetto a quelli che lo richiedono. Ad esempio, i Comuni singoli o associati possono applicare correttamente l’ultimo comma dell’art. 22 della legge 328/2000 fornendo l’assistenza domiciliare a 10 persone quando l’esigenza riguarda 200 nuclei fami­liari.

Tiziano Vecchiato afferma, inoltre, che, per quanto riguarda «il sostegno economico per le persone e le famiglie in condizione di povertà (...) la principale soluzione indicata dalla legge 328/2000 è costituita dal reddito minimo di inserimento» e che «con questa misura gli enti locali sono tenuti ad individuare soluzioni organizzative e professionali per garantire che le erogazioni economiche siano sistematicamente associate a progetti personalizzati di inserimento e di integrazione sociale».

Purtroppo, non è vero. Infatti, l’art. 23 della legge 328/2000 stabilisce solamente che in merito al reddito minimo di inserimento «il Governo (...) riferisce al Parlamento, entro il 30 maggio 2001, sull’attuazione della sperimentazione e sui risultati conseguiti».

 

L’universalismo selettivo: una mascheratura del ritorno alla beneficenza

Come abbiamo già ricordato in altri articoli, ma – purtroppo si tratta di una citazione di assoluta importanza – nella seduta del Senato del 18 luglio 2000, l’On. Gianfranco Morgando, Sottosegretario al tesoro, ha chiarito che, ad esclusione delle erogazioni di natura pensionistica, le prestazioni previste dal disegno di legge n. 4641, ora legge 328/2000 «non formano oggetto di diritti soggettivi per cui l’entità delle stesse sarà determinato in relazione alle disponibilità del Fondo», e cioè degli stanziamenti che saranno stabiliti.

Se non sono previsti diritti soggettivi, risulta evidente che tutte le attività sono facoltative.

Dunque, anche per gli interventi assolutamente indispensabili per la sopravvivenza dei soggetti non autonomi che non posseggono il necessario per vivere, i Comuni singoli o associati (ai quali com’è noto la legge 328/2000 attribuisce la gestione dei servizi sociali) non sono obbligati a provvedere (12).

In altre parole, le prestazioni previste dalla legge 328/2000 sono facoltative, discrezionali: si ritorna, dunque, alla beneficenza!

Purtroppo, come precisiamo nell’editoriale di questo numero, l’assenza totale di diritti esigibili non ha subito alcuna modificazione a seguito dell’approvazione, da parte del Governo Amato, del Piano sociale nazionale.

A questo proposito non è superfluo ricordare che con i regi decreti 6535/1889, 773/1931, 383/1934 e con la legge 2838/1934 erano stati stabiliti diritti effettivamente esigibili.

 

La valutazione tecnico-professionale del bisogno

Per «rendere compatibili universalismo e selettività», il Direttore scientifico della Fondazione Zancan, come abbiamo già osservato, sostiene la necessità di «prevedere meccanismi di regolazione dell’accesso [alle prestazioni] basati sulla valutazione tecnico-professionale del bisogno».

Allo scopo, Vecchiato asserisce che non è accettabile «l’autonoma scelta degli interessati di quello che meglio risponde alle loro esigenze» in quanto, a suo avviso «in materia sociale spesso le esigenze non coincidono con i bisogni e anzi spesso sono un ostacolo alla loro soluzione».

Dunque, Vecchiato nega che le persone in difficoltà siano in grado di esprimere correttamente che cosa loro occorra, considerazione che ci sembra assolutamente infondata, ingiusta e inaccettabile.

A nostro avviso, non si può e non si deve negare che i soggetti, impossibilitati ad inserirsi nel mondo del lavoro a causa della gravità del loro handicap, sappiano di non poter vivere con la pensione mensile di invalidità di Lire 411 mila e nessuno può seriamente disconoscere la correttezza della richiesta al loro Comune di appartenenza di un contributo economico per poter campare.

Parimenti, è ovvio che gli anziani e le persone con handicap, che non sono in grado di continuare a vivere, come vorrebbero, a casa loro a causa della loro ridotta autonomia, sappiano individuare l’assistenza domiciliare come il servizio idoneo a risolvere i loro problemi.

Ciascuno di noi è in grado di segnalare altri numerosi esempi sulla consapevolezza dei citta­dini.

Certamente, non affermiamo che i cittadini siano sempre in grado di individuare correttamente le risposte più idonee per il soddisfacimento delle loro esigenze: riteniamo, però, che non si possa e non si debba rifiutare aprioristicamente il loro apporto.

A nostro avviso, l’individuazione degli interventi deve essere perseguita, in tutti i casi in cui ciò sia possibile, mediante un rapporto collaborativo fra gli utenti (e le eventuali altre persone coinvolte) e gli operatori dei servizi.

Il Csa aveva chiesto al Parlamento di riconoscere un ruolo ai gruppi di volontariato che operano per la tutela dei diritti dei più deboli: purtroppo la risposta è stata del tutto negativa per quanto riguarda le concrete possibilità di intervento.

Per ottenere che le attività dei vari servizi siano svolte non solo correttamente sul piano professionale, ma anche sotto il profilo umano, la collaborazione fra operatori e utenti è indispensabile sia nel campo dell’assistenza, sia in tutti gli altri settori di interesse pubblico (sanità, scuola, ecc.) (13).

Ai cittadini più deboli, la legge 328/2000 nega qualsiasi diritto esigibile: non togliamo ad essi anche la possibilità di esprimere le loro esigenze e di proporre le soluzioni da essi ritenute appropriate.

Se si tiene conto della realtà delle cose, non si può certo negare che troppo spesso numerosi operatori del settore socio-assistenziale e molte organizzazioni che li rappresentano si pongono dalla parte delle istituzioni e non assumono come riferimento prioritario le esigenze delle persone in gravi condizioni di disagio personale e sociale.

Al riguardo è noto che numerosi sono gli assistenti sociali che continuano a richiedere contributi economici ai parenti di assistiti maggiorenni, nonostante che questa pretesa non sia ammessa da nessuna legge.

A questo proposito, segnaliamo che è rimasta senza alcun esito la nota inviata in data 2 dicembre 1997 dal Csa ai presidenti dei Consigli nazionale e regionali degli Ordini degli assistenti sociali (14).

La mancanza di centri diurni per handicappati intellettivi ultradiciottenni, colpiti in modo cosi grave da rendere del tutto impraticabile il loro inserimento lavorativo, e l’estrema carenza di comunità alloggio per coloro che sono privi di adeguato sostegno familiare, non sono più situazioni che sollevano proteste da parte degli operatori, nonostante la conseguente incentivazione dell’istituzionalizzazione.

Malgrado siano ancora 20 mila i minori rinchiusi in strutture a carattere di internato, con tutti gli effetti negativi, a volte irreparabili, noti da oltre 50 anni, sono troppo pochi i neuropsichiatri infantili, i pediatri, gli psicologi, gli assistenti sociali e gli educatori che difendono concretamente il loro diritto alla famiglia. A volte si verifica, addirittura, che la permanenza negli istituti duri anni e anni senza che le autorità (Comuni singoli e associati, Regioni, Tribunali per i minorenni, Giudici tutelari, ecc.) intervengano.

Non dimentichiamo che attualmente sono rarissimi gli operatori dei servizi pubblici e privati che si oppongono all’isolamento nelle cooperative dei soggetti con handicap, soprattutto di quelli che, se collocati in modo mirato, sono in grado di assicurare nelle normali aziende pubbliche e private un rendimento lavorativo uguale a quello dei lavoratori non colpiti da menomazioni permanenti.

Sporadici sono gli articoli di operatori, pubblicati su giornali, riviste specializzate e divulgative e su altri mezzi di formazione/informazione, contenenti notizie sulle reali condizioni di vita della fascia più debole della popolazione e sulle concrete alternative possibili.

Non è necessario ricordare altre situazioni allarmanti. Vogliamo solo ricordare che, mentre molti operatori nulla fanno per cambiare le attuali condizioni che provocano disagio ed emarginazione, non si rendono nemmeno conto che anch’essi, come tutti i cittadini, rischiano di doverne subire le conseguenze nei casi in cui sopraggiungano nei loro confronti o nei riguardi dei  loro congiunti malattie invalidanti, incidenti di vario genere o altre circostanze che modificano radicalmente la vita e limitano l’autonomia personale.

A nostro avviso è un errore ritenere aprioristicamente che gli operatori socio-assistenziali (e di qualsiasi altro settore di intervento) siano sempre e comunque gli unici e autentici interpreti delle esigenze dell’utenza.

Per giungere a valutazioni corrette della situazione esistente, delle condizioni esistenziali delle persone più deboli e delle necessità insoddisfatte, soprattutto se si tratta di bisogni vitali, occorre che gli operatori, le organizzazioni che li rappresentano, gli uffici studi, i centri di ricerca, avendo essi un reale potere nei confronti delle istituzioni, stabiliscano corretti rapporti di collaborazione con gli organismi delegati dai soggetti deboli.

La collaborazione, se autentica, deve essere paritetica in tutta la misura del possibile, senza alcuna strumentalizzazione.

Al riguardo è significativo che le associazioni dell’utenza, ai loro incontri e convegni, invitino quasi sempre operatori e studiosi a tenere relazioni, e che quasi mai avvenga il contrario.

Ne consegue che troppo spesso gli esperti non forniscono risposte effettive ai problemi reali, quali ad esempio, il seguente: “A partire da quale anno mio figlio, la cui autonomia è estremamente limitata a causa di un serio handicap intellettivo, potrà frequentare un centro diurno, visto che noi genitori non vogliamo ricoverarlo in un istituto, ma non ce la facciamo più a seguirlo 24 ore su 24 per tutti i 365 giorni dell’anno?”

Non è certo una risposta accettabile quella di segnalare alle decine di migliaia di persone, angosciate a causa della sopra riferita situazione o di analoghi problemi, che l’art. 1 della legge quadro sull’handicap n. 104/1992 stabilisce che «la Repubblica garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia della persona handicappata e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società».

Non è neppure corretto ricordare loro che l’art. 1 della legge 328/2000 sancisce che «la Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezze di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia», quando le solenni dichiarazioni di principio contenute nella legge 104/1992 sono rimaste finora cartacce (e sono trascorsi quasi dieci anni!) per quanto riguarda gli indispensabili servizi di aiuto personale, i centri diurni, le comunità alloggio, ecc.

Non vogliamo di sicuro (e lo dimostrano i 34 anni di attività di Prospettive assistenziali) «tutto e subito», ma rifiutiamo decisamente non solo il «nulla e mai», ma anche il «meno del possibile».

Non è neanche giusto che si continui a far riferimento ad astratti programmi nazionali e regionali ed a vaghi piani di zona, quando nessuno di essi finora ha consentito al cittadino di pretendere alcunché di quel che era stato deliberato con decisioni assunte, fra l’altro, senza quasi mai interpellare i diretti interessati ed i loro rappresentanti.

A nostro avviso, in base ai risultati raggiunti dal volontariato dei diritti (15), è necessario ed urgente intraprendere una strada decisamente nuova, che parta dalle esigenze, che dia risposte concrete anche se parziali, che riconosca ai cittadini più bisognosi di potersi rivolgere alla magistratura se gli impegni assunti dalle istituzioni non vengono rispettati, così come giustamente gli operatori, ad esempio, hanno il diritto di fare se non ricevono lo stipendio dovuto.

Da parte nostra abbiamo proposto alle altre forze sociali ed alla popolazione la petizione popola-
re (16) le cui prime 7.458 firme sono state depositate il 22 giugno 2001 presso la Presidenza del Consiglio della Regione Piemonte.

 

La marcia indietro della Fondazione Zancan

Sul n. 2, 2001, della già citata rivista della Fondazione Zancan “Politiche e servizi alle persone”, sono stati pubblicati ben 16 articoli di commento della legge 328/2000 (17).

Rileviamo che nessuno degli Autori ha sostenuto la presenza nella legge 328/2000 di diritti esigibili.

Non l’ha fatto Maurizio Giordano, Presidente dell’Uneba, la potentissima organizzazione che raggruppa la maggior parte degli enti privati di assistenza e delle Ipab, nonché Consigliere della Corte dei Conti e della Fondazione italiana per il volontariato, che, in precedenza, sul n. 7-8/2000 della “Rivista del volontariato” aveva scritto che «il testo che è adesso all’esame del Senato (identico a quello della legge 328/2000, n.d.r.) prevede l’affermazione di un vero e proprio diritto soggettivo del cittadino, come tale esigibile sul piano giurisdizionale, e servizi e prestazioni rientranti tra i “livelli essen­ziali”».

Nessun cenno ai diritti esigibili c’è da parte di Franco Della Mura, esperto di diritto amministrativo e docente presso l’Università di Verona, il quale su “Cittadini in crescita”, n. 1/2000, aveva affermato che «quando la legge quadro sarà approvata, avverrà ciò che con  la riforma degli anni Settanta era avvenuto con quelli sanitari: l’affermazione dell’esigibilità dei diritti alla risposta dei bisogni».

Come risulta dall’articolo pubblicato sul n. 2/2001 di “Politiche e servizi alla persona” , la posizione di Antonio Prezioso nei confronti della legge 328/2000 è molto più prudente rispetto alle dichiarazioni entusiastiche espresse sul n. 6/2000 della stessa rivista, in cui, dopo aver dichiarato che «l’8 novembre 2000 (data di approvazione della legge) è veramente dies albo signanda lapillo, giorno fortunato e… caro agli dei» aveva riportato il giudizio del Sen. Domenico Rosati che «ha seguito con la Caritas italiana le vicende della legge nel suo faticoso procedere», manifestando l’opinione che «si tratta di una riforma avanzata, che garantisce su tutto il territorio nazionale e a tutti i cittadini, i diritti di cittadinanza sociale e un sistema di protezione soprattutto dei più deboli».

Anche Mons. Giuseppe Pasini, Presidente della Fondazione Zancan, non ha più ripetuto quanto aveva scritto sullo stesso n. 6/2000 e cioè che nella legge 328/2000 era stato sancito «per tutti il diritto ai livelli essenziali e uniformi di assistenza» per cui «queste prestazioni essenziali oggi sono un diritto esigibile analogamente a quanto avviene nel campo sanitario per determinate prestazioni».

Rileviamo, tuttavia, che Mons. Pasini, nella presentazione del n. 2/2001 di “Politiche e servizi alla persona”, afferma che la legge 328/2000 prevede che «l’accesso ai servizi essenziali sia assicurato alla pari in tutte le Regioni a prescindere dal livello di benessere e del tasso di occupazione», asserzione che non trova nessuna conferma negli articoli della legge suddetta. D’altra parte, come ha osservato giustamente Carlo Giacobini (Lisdha News, gennaio 2001) «la formulazione della legge quadro è solo teoricamente rassicurante, poiché prevede vi sia un livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi, ma lungi dall’indicare quale sia questo livello essenziale, si limita ad elencare gli ambiti in cui la pianificazione nazionale, regionale e zonale è chiamata ad intervenire». Analoga l’interpretazione data da Fosco Foglietta nell’articolo apparso sul n. 2/2001 della rivista della Fondazione Zancan.

Nello stesso articolo Mons. Pasini ha sostenuto, altresì, che la legge 328/2000 «consente di estendere l’assistenza sociale a tutte le persone e le famiglie in situazione di bisogno, superando la concezione “categoriale” e prescindendo dal censo», dimenticando che il 5° comma dell’art. 8 assegna alle Regioni la facoltà di conservare alle Province le competenze gestionali in materia di assistenza ai minori nati fuori del matrimonio, ai fanciulli già assistiti dall’Omni, alle gestanti e madri, nonché ai «ciechi e sordi poveri rieducabili» così definiti dal regio decreto 383/1934. Al riguardo va ricordato che la Regione Lombardia, dopo aver trasferito dalle Province ai Comuni con legge regionale 5.1.2000 n.1, le competenze assistenziali precedentemente indicate, ha cambiato totalmente posizione per cui in base alla legge 7 marzo 2000 n. 18 le funzioni suddette sono state riassegnate alle stesse Province (cfr. Prospettive sociali e sanitarie, n. 20/22, 2000, pag. 12).

Mons Pasini ha, inoltre, scritto che la legge 328/2000 prevede che «l’accesso ai servizi essenziali sia assicurato alla pari in tutte le Regioni a prescindere dal livello di benessere e dal tasso di occupazione». Purtroppo questa affermazione è destituita di ogni fondamento in quanto, non essendo stato previsto nessun servizio obbligatorio, salvo l’erogazione delle prestazioni economiche a ca­rattere continuativo, gli interventi indicati nella legge 328/2000 sono sempre e solo facoltativi, come è stato riconosciuto nello stesso numero della rivista della Fondazione Zancan da Salvatore Nocera (18).

Dunque, com’è evidente, la riforma dei servizi sociali non modifica le attuali disparità esistenti fra le varie Regioni e, all’interno di esse, fra i diversi Comuni.

Infine, ci sembra doveroso sottolineare l’affermazione di Mons. Pasini secondo cui la legge 328/2000 sarebbe “debole” in merito al «nodo dell’esigibilità dei diritti alle prestazioni».

In realtà, la normativa al riguardo non è affatto debole; è, invece, chiarissima la scelta fatta dalla stragrande maggioranza della Camera dei Deputati (decisione confermata dal Senato) di non riconoscere alcun diritto alla fascia più indifesa della popolazione (19).

Se si vuole intervenire per cambiare le condizioni di vita delle persone e dei nuclei familiari gravemente disagiati, bisogna in primo luogo prendere atto della reale portata della legge 328/2000, rifiutando le ingannevoli illusioni e la barriera frenante del pessimismo.

È quindi necessario che, al di là dei comportamenti tenuti durante l’iter parlamentare della suddetta legge, si costituiscano le alleanze occorrenti per l’affermazione concreta dei diritti fondamentali dei nostri concittadini che non hanno la capacità di superare da soli le loro gravi difficoltà personali e/o sociali.

 

 

(1) Cfr. “Altre notizie false sulla legge di riforma  dell’assistenza e dei servizi sociali”, Prospettive assistenziali, n. 133, 2001.

(2) Com’è noto la legge 328/2000 stabilisce che i servizi sociali possono essere erogati a tutti i cittadini, senza esclusioni di sorta. Contempla, altresì, che essi siano forniti prioritariamente a: “i soggetti in condizioni di povertà o con limitato reddito o con incapacità totale  o parziale di provvedere alle proprie esigenze per inabilità di ordine fisico e psichico, con difficoltà di inserimento nella vita sociale attiva e nel mercato del lavoro, nonché  i soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria che rendono necessari interventi assistenziali” (art. 2, comma 3), ma non prevede alcun genere di intervento da parte dei cittadini interessati, nel caso in cui i Comuni singoli e associati non rispettino la norma sopra citata.

(3) Cfr. “Proposte alle Regioni per limitare i danni della legge quadro sui servizi sociali” e “Indicazioni per una delibera quadro dei Comuni singoli o associati sulle attività  socio-assistenziali”, Prospettive assistenziali, n. 132, 2000.

(4) Il testo e la relazione della proposta di legge n. 2743 presentata alla Camera dei Deputati dall’On. Lucà (e altri) in data 21 novembre 1996, che riproduce gli elaborati della Fondazione Zancan e della Caritas italiana, sono stati integralmente riportati sul n. 119, 1997, di Prospettive assistenziali.

(5) Cfr. “Il sistema dei servizi alla persona: tre proposte di legge”, Ibidem.

(6) È deplorevole che le numerose organizzazioni che asseriscono di difendere i soggetti deboli nulla facciano per denunciare l’immorale esiguo importo delle pensioni di invalidità.

(7) Finora né la Caritas italiana, né la Fondazione Zancan hanno assunto iniziative concrete per ottenere il rispetto del diritto alle cure sanitarie, sancito da leggi vigenti da quasi mezzo secolo, dei soggetti non autosufficienti a causa di patologie invalidanti.

(8) Cfr. il capitolo “Gli sfruttatori autorizzati dalla legge” del volume La riforma dell’assistenza e dei servizi sociali - Analisi della legge 328/2000 e proposte attuative, di Maria Grazia Breda, Donata Micucci, Francesco Santanera, Utet Libreria, Torino, 2001.

(9) Nel quaderno “Analisi e riflessioni sui processi di disagio, povertà e esclusione presenti a Modena” predisposto dall’Assessorato alle politiche sociali della stessa città e pubblicato nel 2000, mentre viene segnalata la grave carenza locale di appartamenti dell’edilizia economica, viene affermato che tale situazione è dovuta soprattutto a causa della permanenza di famiglie con redditi superiori al doppio a quello di accesso (fascia da 70 a 105 milioni). Si osservi, inoltre, che per l’assegnazione degli alloggi dell’edilizia economica, allo scopo di favorire i più abbienti, i redditi dei lavoratori dipendenti sono calcolati solo nella misura del 60%.

(10) Cfr. Sintesi del dibattito svoltosi alla Camera dei Deputati sull’obbligatorietà dei servizi sociali a favore dei più deboli, in “La riforma dell’assistenza e dei servizi sociali. Analisi della legge 328/2000 e proposte alternative”, op. cit.

(11) Cfr. “Il Governo Amato ha diffuso notizie fuorvianti sulla legge 328/2000 ed ha predisposto un Piano sociale mistificatorio”, Prospettive assistenziali, n. 134, 2001.

(12) Si rammenta che le Regioni possono attribuire alle Province o ad altri enti (Consorzi fra Province o fra Province e Comuni) le competenze relative all’assistenza dei minori nati fuori dal matrimonio, alle gestanti e madri nubili e coniugate in difficoltà, nonché ai ciechi e sordomuti poveri rieducabili.

(13) Ad esempio, gli oncologi E. Aitini e S. Barni, nel volume “Caro maledetto dottore - Una lettera sul cancro” , Edizioni Dehoniane, Bologna 2001, che raccoglie testimonianze di pazienti colpiti da neoplasie, affermano che “questo viaggio attraverso le persone toccate dalla malattia ha consentito di portare alla luce la dimensione psicologica, la trama interiore che si cela dietro la vicenda assistenziale, ma soprattutto ha consentito a noi di guardare e riflettere su una realtà che spesso rimane nascosta alle indagini cliniche e strumentali”.

(14) Cfr. “Illegittimi comportamenti degli assistenti sociali”, Prospettive assistenziali, n. 121, 1998.

(15) Cfr. “Esperienze e risultati conseguiti dal volontariato dei diritti” in F. Santanera e A. M. Gallo, Volontariato - Trent’anni di esperienze: dalla solidarietà ai diritti, Utet Libreria, Torino, 1998.

(16) Il testo è riportato sul n. 133, 2001 di Prospettive assistenziali. Segnaliamo, inoltre, il documento “Indicazioni per una delibera quadro dei Comuni singoli o associati sulle attività socio-assistenziali”, Ibidem, n, 132, 2000.

(17) Gli Autori sono, nell’ordine, Giovanni Nervo, Sergio Dugone, Salvatore Nocera, Giuseppe Pasini, Antonio Prezioso, Gianmario Dal Molin, Fosco Foglietta, Tiziano Vecchiato, Franco Vernò, Gianfranco Pozzobon, Maurizio Giordano, Milena Diomede Canevini, Alessandro Castagnero, Lorenza Anfossi, Franco Dalla Mura e Maria Bezze.

(18) Ricordiamo nuovamente che la legge 328/2000 non contiene alcuna norma diretta a garantire che i servizi indicati al 4° comma dell’articolo 22 rispondano alle necessità dell’utenza.

(19) Cfr. “Sintesi del dibattito svoltosi alla Camera dei Deputati sull’obbligatorietà dei servizi sociali a favore dei più  deboli” in M.G. Breda, D. Micucci e F. Santanera, La riforma dell’assistenza e dei servizi sociali - Analisi della legge 328/2000 e proposte alternative, Utet Libreria, Torino, 2001

 

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