Prospettive assistenziali, n. 135, luglio-settembre 2001

 

Libri

 

 

Marisa Pavone, Educare nella diversità - Percorsi per la gestione dell’handicap nella scuola dell’autonomia, Editrice La Scuola, Brescia, 2001, pag. 256, L. 39.000

La scuola delle autonomie deve diventare sempre più la scuola di tutti e di ciascuno anche perché una «società delle autonomie istituzionali» deve sostenere anzitutto i percorsi formativi dei più deboli.

Il volume propone un raccordo organico tra bisogni formativi, diritto all’educazione e all’istruzione, scelta della piena integrazione, da un lato, e innovazioni scolastiche e sociali in atto, dall’altro.

Le pagine nascono dall’esperienza e dalle proposte didattiche, ma si sforzano di trovare supporti pedagogici forti alla tesi secondo cui il momento educativo più delicato e impegnativo emerge quando gli allievi “resistono” all’azione educativa e obbligano a ripensare l’intera impostazione.

Il volume si articola in tre parti. Le pagine iniziali cercano di rispondere al “perché” è importante unire due anelli del sistema formativo che in troppe sedi continuano a essere disgiunti: quello relativo alle profonde riforme scolastiche in atto; quello inerente l’educazione e l’istruzione delle persone in situazione di handicap. La seconda e la terza parte hanno una prevalente connotazione didattico-metodologica e organizzativa. Cercano di rispondere all’esigenza di “come” tradurre nei tempi, nelle professionalità, negli strumenti e nei luoghi le considerazioni generali esposte nella prima parte, a sostegno del diritto all’educazione, all’istruzione e all’integrazione di ogni alunno nella scuola di tutti e di ciascuno.

 

Aldo Onorati, Gli ultimi sono gli ultimi - L’esperienza di un maestro in un orfanotrofio lager, Armando Editore, Roma, 1999, pag. 122, L. 16.000

Aldo Onorati, giornalista e scrittore, per alcuni anni ha insegnato come maestro delle elementari presso istituti di ricovero di bambini.

Com’era purtroppo consuetudine negli anni precedenti la contestazione, tutte le attività, comprese quelle scolastiche, erano quasi sempre svolte all’interno delle strutture di emarginazione.

Alcuni episodi sono estremamente toccanti. Ad esempio, Tonino, definito «monelletto smilzo che passava inosservato come non esistente», si rivolge all’Autore «con timoroso rispetto (...) con voce timida ma chiara», e dice «Nu l’ho conosciuto mica papà, io, sa? Nun ce l’ho. Ce l’hanno tutti che li vengono a trovà le feste e ce portano i panettoni dolci... Io nun ci ho nessuno e nun me scrive nessuno...».

Il bambino tace per qualche minuto ma «subito dopo, come se si fosse caricato di coraggio disse svelto: “Ve posso chiamare papà?”».

Questa e altre testimonianze dimostrano il livello di sofferenza dei bambini ricoverati in istituto che, spesso, dovevano anche subire le violenze sessuali dei ragazzi più grandi e, a volte, quelle dei cosiddetti educatori, quasi sempre persone prive di qualsiasi preparazione professionale. Dai temi dei bambini. Scrive Celestino: «Adesso mamma mi compra l’occhiali di costo per farmi vedere bene così non intruppo i banchi mentre cammino». Un altro confessa: «Io ho tanta fame ieri o datto le figurine a Pavolo e lui mi ha datto un sorcello d’uva».

 

Paola Mordiglia, Randagi, Adnkronos Libri, Roma, 1999, pag. 126, L. 13.000

La vicenda è ambientata in Romania, a Bucarest. Inizia nel 1992 e non è ancora finita. Descrive la terribile situazione dei bambini abbandonati a loro stessi: molti di essi vivono sottoterra, vicino ai tubi dell’acqua calda. In Romania per otto mesi all’anno fa freddo. Per questo motivo è stato costruito un sistema di riscaldamento composto da un serpentone di tubi sotterranei. Per molti ragazzi di strada questa è la loro casa.

Il libro è la storia dell’incontro tra Miloud, un clown francese, ed i bambini randagi di Bucarest.

Nel volume sono inserite anche notizie sconvolgenti sugli istituti di assistenza all’infanzia.

Terrificante la descrizione della sala ricreativa dell’orfanotrofio di Tataray: «La chiazza bagnata che si estendeva sul pavimento era pipì, i bambini ci sguazzavano seduti e sdraiati, avvolti in vestiti leggeri, o in maglioni che divoravano le loro mani.

«L’odore di cui la stanza era impregnata era antico, sembrava che non se ne sarebbe mai andato, anche se avessero lavato il pavimento mille volte.

«Ci pensò immediatamente la suora, versandoci sopra un secchio d’acqua. Qualche bambino alzò un piede e poi un altro, per evitare di bagnarsi, ma un attimo dopo presero tutti insieme a schiacciare il rigagnolo, a infilarci le mani e a cospargersi la faccia d’acqua e piscio, ridendo con smorfie che assomigliavano a lamenti.

«Gli sguardi si inchiodarono tutti insieme su di me. Mi rimase soprattutto impresso lo sguardo di un bambino che non poteva avere più di tre anni e muoveva la testa a scatti come un gallo. La girava continuamente, a piccoli colpi, quando arrivò a guardarmi negli occhi, fece il movimento inverso, fino a voltarsi dall’altra parte. Nella “sala ricreativa” di giochi non ce n’erano, ma non c’erano neppure sedie e tavoli. Non c’erano quaderni, matite e colori. Non c’era assolutamente niente, tranne una ventina di ragazzini deformi, con gravi problemi motori.

«Chiesi se era possibile aprire la finestra,  anche se fuori faceva freddo. Mi spiegarono che la finestra era bloccata, ma che mancava un vetro, da un paio d’anni, ormai».

 

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