Prospettive assistenziali, n. 134, aprile-giugno 2001

 

 

disagio, povertà e esclusione sociale a modena

 

L’Osservatorio sul disagio e le risorse sociali, Assessorato alle politiche sociali del Comune di Modena, ha pubblicato nel febbraio 2000 un quaderno con il titolo “Analisi e riflessioni sui processi di disagio, povertà e esclusione sociale presenti a Modena”.

In primo luogo occorre riconoscere la validità della esplicitazione delle linee di intervento. Purtroppo la maggioranza dei Comuni e degli altri enti pubblici quasi mai fornisce notizie sugli obiettivi perseguiti e sui risultati raggiunti di modo che la loro attività non può essere messa in discussione.

Nella presentazione del quaderno, l’Assessore alle politiche sociali del Comune di Modena precisa che «la scelta di fondo del rapporto non è stata quella di evidenziare le caratteristiche quantitative del fenomeno bensì quelle qualitative, partendo dal presupposto che solo attraverso una individualizzazione delle traiettorie del disagio e dell’emarginazione sarebbe stato possibile ragionare in modo realmente pragmatico sulla possibilità di avviare interventi miranti ad un loro superamento. Sotto un profilo generale i risultati del rapporto evidenziano l’esistenza di una pluralità di percorsi di emarginazione ciascuna connotata da caratteristiche sue proprie. Non è questo un dato nuovo nel panorama delle indagini sull’esclusione sociale. Se infatti un indicatore comune sembra emergere dalla recente letteratura internazionale in materia, questo è l’ampia pluralità delle forme e delle traiettorie dell’emarginazione che riflettono la complessità crescente dei moderni sistemi delle relazioni sociali».

A conferma delle affermazioni sopra riferite, nel rapporto si sostiene che «è tipico delle società occidentali comprendere come il “volto delle povertà” è sempre meno definibile con indicatori esclusivamente economici, di reddito, ma si caratterizza come un prolungato processo di indebolimento delle risorse personali e familiari, attraverso eventi shock di varia natura, economica, professionale, sanitaria, di mancata integrazione sociale, che cumulativamente determinano l’ingresso in una situazione di “emarginazione” di cui la povertà economica è solo una delle componenti. In altre parole, la società contemporanea produce una povertà di tipo multi dimensionale, in cui le dimensioni economiche, relazionali, sociali in senso lato sono strettamente correlate».

Mentre condividiamo l’analisi suddetta, riteniamo che debba essere chiarito che cosa intendano gli Autori del rapporto quando scrivono che «la condizione di povertà/emarginazione non può essere letta a prescindere dalle capacità dei soggetti di misurarsi con il sistema di Welfare» in quanto «nella società occidentale la qualità della vita e il livello di benessere di persone e famiglie non possono essere misurati solo in termini economici o di abilità individuali, ma devono essere commisurati alla capacità delle persone di godere di quei servizi generalizzati di Welfare che, pur con evidenti difficoltà, costituiscono la parte integrante della definizione di cittadinanza».

Infatti, occorrerebbe appurare se la proposta degli Autori è quella dell’adattamento delle persone e delle famiglie in difficoltà ai criteri di accesso dei servizi e alle loro modalità di funzionamento, oppure se ritengono che i servizi generalizzati (sanità, scuola, casa, trasporti, ecc.) giustamente considerati dal rapporto «parte integrante della definizione di cittadinanza» debbano essere predisposti in modo da poter essere proficuamente utilizzati anche dai soggetti in difficoltà.

Nel capitolo “Strategie di fronteggiamento all’esclusione sociale”, viene opportunamente rilevato che spesso le persone ed i nuclei familiari sono in grado di «fronteggiare sfide anche gravissime, quale la morte del coniuge titolare dell’unico reddito familiare, la malattia invalidante per un membro del nucleo, o la perdita prolungata del posto di lavoro», ma nulla viene detto circa l’emarginazione e l’esclusione prodotte dai servizi generalizzati e cioè dalla sanità, dalla scuola, dalla casa, dai trasporti, ecc.

A nostro avviso, di fronte alle difficoltà, è vero che «il successo della reazione delle persone e delle famiglie dipende naturalmente dalla disponibilità di alcune risorse, che sono risorse di intraprendenza e protagonismo, ma anche economiche, relazionali, di abilità sociale».

Occorrerebbe, però, considerare due altri aspetti molto importanti. Da un lato vi sono numerose persone che non hanno sufficienti capacità personali per mettere in atto le necessarie iniziative di contrasto alle situazioni di disagio. Inoltre, bisogna anche verificare se i servizi generalizzati intervengono in modo tempestivo e valido.

Se, ad esempio, un anziano è colpito dalla malattia di Alzheimer (la cui durata può anche essere superiore a 20 anni), è evidente che contano moltissimo le capacità di reazione del nucleo familiare (a volte costituito da una sola persona, il coniuge). Tuttavia è noto che, senza alcun aiuto esterno, anche i congiunti animati da buona volontà, da notevoli abilità personali e da un soddisfacente livello economico, rischiano fortemente di cadere nella disperazione e nella povertà economica.

Il rapporto identifica «due modelli interpretativi delle strategie di risposta alle situazioni di disagio e povertà attivabili da parte delle persone e dei sistemi familiari». Il primo modello «individua quattro stili di fronteggiamento;

«1. uno stile combinatorio, in cui il sistema familiare tenta di promuovere contemporaneamente “dinamiche di valorizzazione della cultura familiare interna, di dialogo e di apertura alle richieste del­l’esterno”;

«2. un secondo stile può essere definito “trappola dell’auto-addossamento”. Secondo tale atteggiamento, il sistema familiare si fa carico delle difficoltà derivanti dal peggioramento della situazione economica o dall’aggravio dei compiti di cura nei confronti di un membro debole del nucleo. La famiglia diventa crocevia di tensioni sociali, assumendo progressivamente compiti propri di altre agenzie sociali. Queste sono famiglie probabilmente isolate, che vedono ridotto progressivamente il proprio spazio di vita;

«3. un terzo stile è isolazionista, ed è prodotto soprattutto da un atteggiamento passivo, assistenzialistico, in cui la rete familiare si aspetta dall’esterno una risposta ai problemi che incontra;

«4. un quarto stile è definito adattativo, e si basa sulla capacità della famiglia di cambiare (anche radicalmente, con l’allontanamento di un proprio membro) di fronte ai diversi problemi che vanno fronteggiati, senza però un governo e una strategia complessiva di vita».

Il secondo modello interpretativo proposto dagli Autori «fa invece riferimento a due dimensioni che riguardano l’atteggiamento dei soggetti nei confronti del problema stesso:

«le persone possono assumere un atteggiamento attivo (progettuale, protagonista) o passivo (in cui si subisce ciò che fatalmente succede);

«i problemi possono essere cronicizzati e non cronici».

Viene, inoltre, precisato quanto segue: «È evidente che le capacità di costruire un meccanismo di aiuto “partecipato”, in cui cioè gli utenti siano attori protagonisti dell’uscita dallo stato di bisogno, e non passivi destinatari di prestazioni o benefici erogati da altri, dipenderà sia dalle scelte degli operatori e del sistema nel suo complesso, sia dall’atteggiamento dei soggetti in condizione di bisogno». Pertanto, «è necessario che la proposta di aiuto non sia passivizzante, ma sia capace di coinvolgere l’utente nel processo di aiuto, come protagonista, e non come portatore di una domanda cui dare risposta».

È una proposta che, ancora una volta, è valida solo per le persone dotate di un buon livello di capacità personali.

Se, come nel caso del malato di Alzheimer in precedenza richiamato, i servizi sanitari – come avviene anche in Emilia Romagna – si limitano a svolgere i compiti diagnostici e non si impegnano nella cura (ancora una volta ripetiamo che inguaribile non significa incurabile), allora è evidente che il trasferimento delle funzioni all’assistenza/badanza, determina inevitabilmente un atteggiamento di sfiducia nei confronti delle istituzioni e di scoraggiamento nelle concrete possibilità di azione del nucleo familiare.

In questi casi, è giocoforza rivolgersi all’assistenza pubblica, intesa nella sua accezione più negativa (e cioè di aiuto fine a se stesso), oppure alla beneficenza privata.

Nelle situazioni di disagio, quasi mai gli interventi risolutivi possono essere forniti dal settore assistenziale e nemmeno da quello che adesso viene definito “sociale”.

Quando, negli anni ’50-’60 le scuole materne e dell’obbligo rifiutavano i bambini handicappati, numerose erano le famiglie che erano costrette a rivolgersi all’assistenza pubblica e alla beneficenza privata, che erano gli unici settori disponibili a fornire aiuti anche se quasi sempre inidonei.

Come ha insegnato l’esperienza (ma la questione era facile da capire anche da parte delle persone non esperte!), l’intervento valido era, invece, quello dell’inserimento prescolastico e scolastico dei soggetti con handicap. Infatti, mano a mano che questi bambini hanno frequentato le scuole materne e dell’obbligo, si è verificata contemporanemanete una notevole riduzione delle richieste rivolte all’assistenza e alla beneficenza.

Se non si vogliono creare discriminazioni assurde, è anche necessario che l’accesso delle persone con handicap alle scuole materne e dell’obbligo ed agli altri servizi generalizzati abbia luogo con le identiche modalità previste per i soggetti non colpiti da menomazioni. Prevedere, ad esempio, l’intervento dei servizi sociali per la loro ammissione alle scuole materne e dell’obbligo sarebbe una deleteria discriminazione ed una deresponsabilizzazione dei genitori aventi figli con handicap.

A nostro avviso, per la risoluzione di situazioni di disagio, non sono sempre necessari aiuti particolari dei servizi assistenziali e sociali; spesso è sufficiente che i settori fondamentali (sanità, casa, scuola, trasporti, ecc.) non escludano nessuno. Ad esempio, l’emarginazione degli anziani cronici non autosufficienti (il cui numero può essere calcolato in 500/800 mila) può essere vinta solamente quando le autorità, gli operatori, i sindacati e le altre forze sociali riconosceranno che si tratta di persone malate che, come ripetiamo da più di venti anni, hanno diritto, come prevedono le leggi vigenti e soprattutto conformemente alle loro esigenze, alle cure sanitarie e gratuite (1) e senza limiti di durata.

Pertanto, non ci sembra accettabile l’affermazione dell’Assessore alle politiche sociali del Comune di Modena secondo cui «pur se a fronte di una notevole eterogeneità di situazioni di esclusione, tuttavia esiste un elemento che è comune, pur se con gradazioni articolate, a tutte le categorie di soggetti analizzati che è cruciale sottolineare. Esso è relativo alla caratterizzazione dell’emarginazione, non tanto come problema economico ma, soprattutto, come problema di risorse personali: formative, di salute, culturali e di capitale sociale, che si traducono in una difficoltà molto accentuata a costruire risposte integrate ed efficaci».

È una posizione opportunista per le istituzioni; è comodo negare le loro responsabilità sull’impostazione e sul funzionamento emarginante dei servizi fondamentali: dall’espulsione dal settore sanitario degli anziani cronici non autosufficienti, al rifiuto dell’inserimento nelle scuole dell’obbligo degli handicappati gravi, dall’assenza di corsi prelavorativi per gli handicappati intellettivi in grado di svolgere una attività lavorativa con un rendimento inferiore alla media degli altri addetti, ma proficua per loro stessi e le aziende, alla presenza di barriere architettoniche nei locali pubblici e nei trasporti, alla mancanza di alloggi dell’edilizia economica per i meno ab­-
bienti.

A questo riguardo nel rapporto viene segnalata la grave carenza di appartamenti dell’edilizia economica soprattutto «a causa della permanenza di famiglie con redditi superiori del doppio a quello di accesso (fascia 70-105 milioni)». È incredibile che alloggi dell’edilizia pubblica possano continuare ad essere occupati da nuclei aventi redditi da 70 a 105 milioni, tenendo anche conto che il «fenomeno è stimato intorno al 20% degli alloggi occupati».

A questo riguardo, se si volesse veramente combattere l’emarginazione, occorrerebbe anche individuare le fasce di popolazione alle quali sono forniti interventi di evidente natura clientelare.

Oltre agli alloggi occupati dai benestanti, ci sono le integrazioni al minimo delle pensioni INPS e sociali, erogate anche a soggetti che non ne hanno assolutamente bisogno (2), le iniziative, in particolare quelle di tempo libero, fornite gratuitamente o a prezzi stracciati a persone in possesso delle capacità e dei mezzi economici necessari per provvedervi in piena autonomia.

Un settore che dovrebbe essere rivisto totalmente riguarda il lavoro nero e il doppio lavoro praticati da 5-6 milioni di soggetti, attività che è caratterizzata non solo dall’evasione fiscale e dalla concorrenza illecita con le aziende in regola con le leggi, ma che sottrae centinaia di migliaia di posti di lavoro e crea disoccupazione e povertà.

Nel rapporto è completamente ignorato un aspetto a nostro avviso di somma importanza: la situazione delle persone che non sono in grado di autodifendersi e quindi anche incapaci di accedere ai servizi che, com’è scritto nello stesso rapporto «costituiscono la parte integrante della definizione di cittadinanza».

Se non si opera perché i servizi fondamentali (sanità, casa, scuola, trasporti, ecc.) siano usufruiti da tutta la popolazione, inevitabilmente i servizi sociali assumono il ruolo di gestori dell’emarginazione e dell’esclusione sociale, come sta avvenendo, citando solo le situazioni più eloquenti, per i malati di Alzheimer, per gli anziani cronici non autosufficienti, per i pazienti psichiatrici con limitata o nulla autonomia rifiutati dalla sanità e per i soggetti handicappati e quelli definiti svantaggiati (orribile espressione quest’ultima a causa della sua assoluta indeterminatezza, contenuta nella legge 381/1991 allo scopo di emarginare i più deboli), non inseriti nelle normali aziende private e pubbliche e collocati nelle cooperative sociali (3).

A quando un rapporto sull’emarginazione e sulle esclusioni sociali prodotte dai servizi fondamentali (sanità, casa, scuola, trasporti, ecc.), dal lavoro nero e dal doppio o triplo impiego?

 

 

 

(1) Ricordiamo nuovamente che il Csa ha più volte dichiarato di accettare il pagamento di una retta giornaliera non superiore a lire 50 mila, da calcolare in base ai redditi pensionistici dell’utente, ovviamente tenendo conto delle sue eventuali specifiche esigenze personali e dei suoi obblighi nei confronti dei congiunti (mantenimento, ecc.) o di terze persone (debiti, mutui, ecc.).

(2) Cfr. “Per la creazione di un nuovo settore: la sicurezza sociale”, Prospettive assistenziali, n. 121, gennaio-marzo 1998.

(3) Cfr. “La Fondazione italiana per il volontariato non vuole che handicappati e svantaggiati lavorino nelle normali aziende”, Prospettive assistenziali, n. 111, luglio-settembre 1995 e “Intesa fra il Governo e il Forum del Terzo settore per l’emarginazione sociale dei cittadini aventi limitate capacità di autodifesa”, Ibidem, n. 127, luglio-settembre 1999.

 

 

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