Prospettive assistenziali, n. 132, ottobre-dicembre 2000

 

 

Situazione attuale della istituzionalizzazione

e tendenze alla neoistituzionalizzazione

Maria grazia breda *

 

 

 

Che cosa intendiamo

per istituzionalizzazione totale

Per affrontare il tema che mi è stato affidato è necessario dotarci di alcuni elementi comuni di giudizio e di conoscenza. In primo luogo desidero precisare che per “istituzionalizzazione” intendo il ricovero in istituti di assistenza e mi riferisco a quella tipologia di “istituzioni totali” i cui effetti devastanti sulla persona sono stati ampiamente denunciati alla fine degli anni ’60.

Quando parlo di “istituto” mi riferisco altresì a tutti gli edifici o strutture che ospitano da 20 a 40, 60, 100 o più persone.

Ritengo che già a partire da oltre 10 posti letto si abbiano gli effetti negativi, dovuti all’organizzazione stessa dell’istituto, stigmatizzati alla fine sempre degli anni ’60 dall’importante lavoro di Goffman sui danni delle grandi istituzioni, per noi sempre attuali, che possiamo riassumere come segue: scarsa intimità di luoghi e tra le persone, spersonalizzazione degli ambienti, inesistenza o quasi della vita privata, pasti ed esigenze personali organizzate sui bisogni dell’istituzione, presenza sovente all’interno di servizi che impediscono o riducono fortemente il contatto con la realtà esterna (bar, pettinatrice, scuola, riabilitazione).

Per quanto riguarda le strutture aventi fino a 10 posti (le comunità alloggio), che possono riguardare qualunque tipo di utenza (dai minori, agli handicappati intellettivi o fisici, agli anziani, ecc.), ricordo che – almeno per quello che riguarda le nostre associazioni – sono state considerate sempre il male minore rispetto al ricovero in strutture più capienti, ma comunque un male da evitare se possibile. Non a caso, da sempre, ci adoperiamo perché siano prioritariamente assicurati tutti gli interventi sociali primari (lavoro, casa, scuola, sanità, trasporti, ecc.) e, in aggiunta a quest’ultimi, gli interventi assistenziali (sussidi economici, aiuti domiciliari, affidamento familiare per i minori, inserimenti in famiglia di adulti handicappati o anziani, ecc.).

Quando, nonostante, la messa in atto di tutti gli interventi di cui sopra, la persona (minore, handicappato, anziano, ecc.) non può restare a casa (con la propria famiglia o altre persone), allora può essere una risposta la comunità alloggio con al massimo 10 posti. Comunque, per quanto riguarda i minori, questa soluzione deve essere il più possibile temporanea. Una ricerca del laboratorio di psicologia di Torino sui minori abbandonati a confronto con quelli che vivono in famiglia (cfr. La Stampa del 14.5.1999) denuncia che i bambini in comunità sono già depressi a 15 mesi, perché crescono senza figure di riferimento. Gli educatori sono competenti, ma il continuo turnover dovuto agli orari di lavoro, non favorisce la nascita di relazioni affettive stabili, indispensabili per la crescita armonica del minore.

In secondo luogo, penso che, per capire le attuali forme di istituzionalizzazione, sia utile ripercorrere, seppur velocemente, il periodo che ci ha preceduto (limitandoci dagli anni ’60 ai giorni nostri) per osservare gli elementi comuni che vi ricorrono e che, pertanto, alla luce dell’esperienza si dovrebbe saper leggere e contrastare.

 

La situazione assistenziale negli anni ’60

Nel 1960 la situazione delle persone ricoverate in istituto, in base ai dati dell’Annuario statistico dell’assistenza e della previdenza sociale (Istat, Vol. X, 1963) era la seguente:

– minori

• 112.596 negli orfanotrofi;

• 87.594 negli “istituti per soli minori poveri o abbandonati”;

• 61.402 nelle colonie permanenti e cioè negli “istituti che accolgono per periodi piuttosto lunghi bambini linfatici, anemici, predisposti alla tubercolosi, ecc.”. In realtà, quasi sempre i fanciulli erano ricoverati per motivi socio-economici;

• 18.464 negli istituti “per altre categorie di ricoverati”;

• 10.081 negli istituti per “minorati psichici”;

• 8.699 nei brefotrofi “in allevamento interno” di cui 3.768 non riconosciuti dai genitori;

• 7.624 negli “istituti per anormali sensoriali”;

• 3.506 in strutture per “minorati fisici”.

Dunque alla data del 31 dicembre 1960 i minori ricoverati in istituti a carattere di internato erano 310.326.

Inoltre alla stessa data del 31 dicembre 1960 risultavano ricoverati in istituti di assistenza:

• 107.617 “vecchi indigenti”;

• 6.902 “minorati psichici adulti”;

• 5.913 adulti in strutture di ricovero anche per minori, anziani e handicappati;

• 2.064 “anormali sensoriali” adulti;

• 1.796 “minorati fisici” adulti.

Il totale generale dei ricoverati al 31 dicembre 1960 era dunque di 435.518 persone.

Il fenomeno del ricovero era determinato anche dalla presenza di una miriade di organismi assistenziali preposti allo svolgimento delle attività assistenziali che – salvo casi del tutto eccezionali – operavano per l’esclusione dal contesto sociale della fascia più debole della popolazione.

Infatti, l’intervento più praticato era il ricovero in istituto (in molti casi anche in ospedali psichiatrici) di bambini e di adolescenti, di handicappati, di anziani in tutto o in parte non autosufficienti e degli altri soggetti in grave difficoltà socio-economiche.

Al riguardo è significativo quanto aveva affermato il Ministero dell’interno nella relazione sul bilancio dello Stato del 1969: «L’assistenza pubblica ai bisognosi (...) racchiude in sé un rilevante interesse generale, in quanto i servizi e le attività assistenziali concorrono a difendere il tessuto sociale da elementi passivi e parassitari (...)».

Dunque, gli assistiti erano considerati dal Ministero dell’interno, l’organo con i più rilevanti poteri in materia di assistenza, un pericolo per il resto della popolazione; di conseguenza essi dovevano essere esclusi dal contesto sociale. Vedremo che questo concetto ritorna anche ai giorni nostri, ma prima ricordiamo la stagione positiva dei cambiamenti.

 

I grandi cambiamenti dal 1960 al 1980:

dal ricovero in istituto ai servizi per tutti

• A partire dal 1962 molti gruppi di base, tra cui l’Anfaa e l’Ulces, hanno svolto una intensa attività diretta ad informare amministratori, operatori e opinione pubblica sulle deleterie conseguenze psico-fisiche provocate sulla personalità dei minori dalla carenza di cure familiari e dal ricovero in istituto.

A seguito delle numerose e documentate denunce, le forti resistenze delle persone e dei gruppi sostenitori dell’emarginazione incominciarono a ce­dere.

Sorgono i primi servizi alternativi al ricovero (aiuti economici alle famiglie, assistenza domiciliare, le prime comunità alloggio, ecc.) e soprattutto emerge l’esigenza di una radicale reimpostazione dei servizi primari non assistenziali: sanità,  casa, scuola, ecc. Si comincia a parlare di servizi onnicomprensivi e cioè non riservati a particolari categorie, ma aperti a tutti.

Si registrano le prime iniziative di superamento delle scuole speciali per handicappati fisici insufficienti mentali, ciechi, sordi e per l’eliminazione delle classi differenziali. Un importante ruolo è svolto dalla proposta di legge di iniziativa popolare “Interventi per gli handicappati psichici, fisici e sensoriali e per i disadattati sociali” presentata al Senato il 21 aprile 1970 con 220 mila firme. Viene approvata la legge 30 marzo 1971 n. 118, riguardante i soggetti con handicap, che rappresenta comunque una prima rottura rispetto al passato, anche se molte disposizioni vengono scarsamente applicate.

È di questi anni anche la legge 482/1968 che introduce la disciplina del collocamento obbligatorio degli handicappati. Si tratta di una legge molto discussa, che non ha certamente risolto l’avviamento al lavoro di tutti gli handicappati, tanto meno di coloro che presentano una riduzione della capacità lavorativa, anche se ha permesso di dimostrare – laddove è stata applicata – che la maggioranza delle persone handicappate è in grado di raggiungere una resa produttiva piena, purché adeguatamente collocate in modo mirato sul posto di lavoro. Questo vale anche per gli altri soggetti, che, a causa di una minore autonomia, possono raggiungere un rendimento ridotto. Resta, però, una parte non consistente di persone handicappate che, a causa della gravità delle loro condizioni intellettive e/o fisiche, non può svolgere attività lavorativa proficua e, dunque, ha diritto a servizi assistenziali. Vedremo più avanti come si pone la nuova normativa.

La legge 5 giugno 1967 n. 431, che introduce nel nostro ordinamento l’istituto giuridico dell’adozione speciale, e che scaturisce dalle iniziative dei gruppi di base a cui aderirono parlamentari, giuristi, magistrati, donne e uomini di cultura, amministratori, operatori e organizzazioni sociali.

• Le famiglie di origine, accettano sempre meno il ricovero in istituto dei loro figli; maturano così le prime positive esperienze di inserimento in famiglie affidatarie e vengono create le condizioni culturali per la diffusione dell’adozione. Dai 310 mila minori ricoverati in istituto nel 1960 si arriva ai 16-20 mila del 1999. I minori italiani e stranieri adottati dal 1967 al 1998 sono oltre 87 mila.

Dalla repressione manicomiale, si passa ai servizi di igiene mentale grazie alla mobilitazione di operatori (ricordiamo in particolare Franco Basaglia), intellettuali, associazioni, movimenti di base e una parte dei sindacati dei lavoratori. La disposizione che determina una netta rottura con il regime manicomiale è la legge 13 maggio 1978 n. 180, le cui norme sono successivamente inserite nella legge di riforma sanitaria 23 dicembre 1978 n. 833.

Le case di riposo si svuotano degli anziani attivi autosufficienti in tutto o in parte. Non ci sono dati aggiornati; gli ultimi risalgono al 1992 e comunque non sono utilizzabili per i nostri fini, perché sono accorpati in una stessa voce tutti gli anziani (sia quelli autosufficienti sia i non autosufficienti); non c’è distinzione tra i ricoveri in strutture di assistenza e in strutture sanitarie, tra quelle pubbliche e quelle private/convenzionate. Tuttavia, è possibile affermare che la percentuale degli ultrasessantacinquenni autosufficienti ricoverati in istituto oggi, rispetto alla popolazione della stessa età è scesa. È ormai ampiamente riconosciuto che si vive più a lungo, ma in condizioni economiche e culturali che ci permettono di giungere in età avanzata con condizioni di salute e di benessere di gran lunga migliori delle generazioni precedenti. Infatti, se è vero che negli ultimi decenni è aumentato il numero delle persone ultrasessantacinquenni, è altrettanto vero che si tratta di persone con un livello di autonomia migliore. È sufficiente una visita ad una qualunque struttura residenziale di ricovero di anziani per verificare che i ricoveri sono quasi totalmente attuati nei confronti di persone che hanno problemi di non autosufficienza conseguente a patologie o loro esiti.

 

La grande involuzione a partire dagli anni ’80

Quasi vent’anni or sono sulla rivista “Prospettive assistenziali”, n. 48, ottobre-dicembre 1979, era uscito l’editoriale dal titolo “Inaccettabile l’attuale riorganizzazione del settore assistenziale”. Si è trattato di un grido di allarme, purtroppo ignorato, che per la prima volta puntava il dito contro il ritorno della pratica del ricovero in istituto delle persone più deboli.

Veniva segnalato, già allora, 1979, l’involuzione in atto (che continua oggi), a causa della caduta della partecipazione e del cambiamento di posizione dei partiti di sinistra.

A partire dalle Regioni economicamente più sviluppate, comincia in quegli anni la riorganizzazione del settore assistenziale mediante il graduale cambiamento dell’utenza degli istituti di ricovero assistenziale. Gradualmente vengono create le condizioni per la riproposizione delle attuali “moderne” forme di istituzionalizzazione, di cui parleremo nell’ultima parte di questa relazione.

Si passa dagli anziani autosufficienti agli anziani malati cronici non autosufficienti; dagli istituti escono i bambini piccoli e normali e restano quelli grandicelli e/o malati o handicappati; sono sempre meno gli handicappati fisici, mentre continua il ricovero di handicappati intellettivi gravi; i disadattati sono sostituiti con persone con profondi disturbi psichiatrici. Si ricoverano, dunque, sempre più persone con limitata o nulla autonomia, non in grado di protestare, di comunicare i loro bisogni e le loro esigenze, né quindi capaci di attirare
l’attenzione della parte più sensibile della popolazione.

I passaggi più significativi che caratterizzano questa fase involutiva, che sta alla base della situazione attuale, possono essere riassunti nei seguenti provvedimenti.

Il nefasto documento del Consiglio sanitario nazionale del 1984, proposto dal Prof. Achille Ardigò e approvato in data 8 giugno 1984 da tutti i componenti del Consiglio sanitario nazionale: rappresentanti delle Regioni, dei datori di lavoro, dei sindacati dei lavoratori, dei commercianti, degli artigiani, dei coltivatori diretti, ecc. Nel documento viene brutalmente stabilito che gli anziani non autosufficienti dovevano essere trasferiti dalle strutture sanitarie alle case protette allo scopo di ridurre gli oneri del Servizio sanitario nazionale nella misura massima del 50 per cento, addebitando la differenza agli utenti. Il provvedimento investe anche gli handicappati non inseribili nel lavoro, le persone con disturbi psichiatrici, i tossicodipendenti, gli alcolisti. È bene ricordare che questo decreto aveva un mero valore amministrativo; non modificava nessuna delle leggi vigenti ma, in assenza di proteste, tanto le Regioni che le Usl ebbero ed hanno ancora oggi buon gioco ad applicarlo. Continuiamo a non capire perché l’assenso sia stato e sia tutt’oggi dato anche dai Comuni, nonostante che ad essi fossero e siano attribuiti compiti e spese non previsti da alcuna legge e ancora di più non si comprende l’appoggio dei Sindacati dei lavoratori.

L’art. 20 della legge finanziaria 67/1988 prevede la realizzazione di 140.000 posti letto per gli anziani non autosufficienti (ma secondo un’interpretazione data da i più, le Rsa devono riguardare anche gli handicappati); ed è la conseguenza diretta del decreto del 1985. Con il Dpcm del dicembre 1989 nascono le Rsa, residenze sanitarie assistenziali che prevedono il ricovero di anziani e altri soggetti non autosufficienti.

La legge 8 novembre 1991, n. 381 “Disciplina delle cooperative sociali”, nasce con lo scopo di “integrare i cittadini svantaggiati, tra cui gli handicappati”; in realtà si propone – e ci riesce, come vedremo in seguito – di diventare il canale parallelo della collocazione al lavoro delle persone non “desiderate” dalle aziende. D’altronde la legge 2 aprile 1968 n. 482 è sempre meno applicata anche per l’assenza di iniziative di tutela da parte dei Sindacati, che, salvo rare eccezioni di singoli sindacalisti, non manifestano alcun interesse a rappresentare questi lavoratori disoccupati.

La scatola vuota della legge 5 febbraio 1992 n. 104 “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, con i suoi 22 “possono”, lascia ampio margine a Regioni ed Enti locali per continuare nella pratica dell’istituzionalizzazione delle persone handicappate specialmente di chi ha una limitata o nulla autonomia. La legge 162/1998, a sua volta, ha aggiunto altri 3 “possono” al testo precedente. In assenza di obblighi precisi (e di sanzioni per gli inadempienti), come viene denunciato nel documento del Gruppo di lavoro «Famiglia di handicap grave, servizi territoriali, “dopo di noi”» (in Atti della 1ª Conferenza nazionale sulle politiche dell’handicap, Roma 16-17-18 dicembre 1999, a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per gli Affari sociali), «la caratteristica dominante spesso è la frammentarietà e il non coordinamento: ogni problema implica un percorso diverso, sedi diverse, referenti diversi, spesso ulteriormente parcellizzati e sempre non comunicanti. Se poi si guarda a livello regionale e locale, si colgono ulteriori forti differenze: aree con un buon livello di servizi e con sperimentazioni fortemente innovative, aree con assurde carenze anche nei servizi essenziali. I problemi dei disabili esigono al contrario l’attivazione di una rete di servizi stabile, omogenea e visibile, che rispetti l’unitarietà della persona. Per poter modificare l’attuale sistema organizzativo occorre prima di tutto ricollocare in posizione centrale gli utenti e i loro bisogni (...). Si tratta concretamente di definire uno standard minimo di servizi e prestazioni da garantire obbligatoriamente su tutto il territorio nazionale» (pag. 157).

Un altro grave limite è la mancata definizione di che cosa si intende per “struttura comunitaria a carattere familiare”. Le esperienze di comunità alloggio, di 8-10 posti al massimo, inserite in normali contesti abitativi e non accorpate tra loro in un unico edificio, non sono mai diventate una norma di legge, un vincolo per le Amministrazioni regionali e locali. Di fatto assistiamo oggi al rifiorire – purtroppo anche per i minori oltre che per le persone handicappate – di strutture residenziali in cui si parla di nuclei – e non di comunità alloggio – da 10 posti. In questo modo è possibile realizzare nello stesso edificio più nuclei per più categorie di assistiti. Non si usa più la brutta parola “istituto”, ma si inventano nuove definizioni. La Regione Piemonte, ad esempio, con la delibera 38-16335 del 1992 introduce la definizione di “residenza assistenziale flessibile” dove possono essere accolti in nuclei da 10, 20 posti letto indifferentemente anziani cronici non autosufficienti, handicappati con limitata o nulla autonomia, dimessi dagli ospedali psichiatrici, malati di Alzheimer, senza fissa dimora. Torniamo ad avere i vecchi istituti ghetto da 80-100 posti se non di più.

La riforma psichiatrica si è fermata. È di questi giorni la notizia dell’indagine condotta dalla Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati secondo cui in molti casi la chiusura dei manicomi si è rivelata solo “falsa” o semplici atti “amministrativi”. Secondo la Commissione risulterebbe che nei riguardi dei malati continui “un approccio custodialista del trattamento psichico”. Marida Bolognesi, che della Commissione è presidente, afferma: «La destrutturazione dei manicomi in alcuni casi è stata solo nominale. Mancano i controlli efficaci per verificare quali strutture abbiano realmente chiuso e quale sia la qualità dei servizi offerti». Il Ministero della sanità assicura, al contrario, che la chiusura e lo smantellamento dei manicomi è stata quasi completata. Ma sia Franco Previte dell’Associazione “Cristiani per servire”, sia Nino Lo Presti, Vice-Presidente della Diapsi, Difesa ammalati psichici, denunciano la mancanza di strutture terapeutiche e riabilitative, per cui, alla fine l’ammalato è spesso ancora a carico solo della famiglia (Avvenire, 8 agosto 2000). Si sa che mancano le comunità alloggio sanitarie, in alternativa ai manicomi, e sono insufficienti i servizi territoriali di salute mentale indispensabili per offrire il supporto a domicilio del paziente. Permangono inoltre molti grandi manicomi con situazioni pesanti periodicamente denunciate senza che nulla sia cambiato. La legge 724/1994, che stabilisce la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici entro il 31 dicembre 1996, mette in atto una serie di provvedimenti assunti dalle Regioni, che hanno del miracoloso: pazienti psichiatrici con diagnosi di schizofrenia o paranoia, dopo 20-30 anni di ricovero in strutture manicomiali improvvisamente vengono “rivalutati” solo più anziani oppure assumono lo status di handicappati intellettivi. Ancora una volta “la malattia” viene negata – e viene negata la cura al malato che non ha forza contrattuale di opporsi – per una pura questione economica. Nella tabella predisposta dal Direttore generale del Consorzio di Collegno-Grugliasco (Torino), in una lettera inviata il 9 dicembre 1998 ai rappresentanti dei Comuni per contestare il trasferimento in assistenza (e dunque a carico dei Comuni) di 550 dimessi dagli ospedali psichiatrici, si vede immediatamente il risparmio notevole che la sanità intende operare:

– Soggetto di “Tipo A” (paziente rivalutato anziano): quota giornaliera lire 100.000;

– Soggetto di “Tipo B” (paziente rivalutato handicappato): quota giornaliera lire 80.000;

– Soggetto di “Tipo C” (paziente riconosciuto malato psichiatrico): quota giornaliera lire 200.000.

Da cui risulta che il costo di degenza per 550 pazienti di tipo C (che restano “malati psichiatrici”) è di 40.150.000.000 di lire x 365 giorni di ricovero, mentre 550 pazienti “rivalutati” anziani o handicappati intellettivi (e trasferiti in assistenza) si spendono solo più 18.031.000.000 di lire, sempre per 365 giorni di ricovero.

 

Che cosa possiamo ricavare dai dati statistici?

I dati Istat, come ho già anticipato, si fermano al 1992 (ad eccezione per i minori, che esaminiamo a parte). Il sistema utilizzato dall’Istat era stato più volte criticato anche perché non sempre i dati raccolti erano compatibili con quelli degli anni precedenti. Invece di apportare i necessari correttivi, l’Istat ha preferito disinteressarsi completamente dell’andamento della istituzionalizzazione.

Da tempo si è segnalata l’esigenza della creazione di una anagrafe delle persone (minori, adulti, anziani) ricoverate in istituto, anagrafe che andrebbe costantemente aggiornata per intervenire e potenziare i servizi necessari a prevenire e a ridurre la richiesta di ricovero. Dalle informazioni avute, però, risulta che non sia in atto nessuna ricerca in proposito. Il documento “Programma di azione del Governo per l’handicap 2000-2003” conferma tale carenza anche per l’handicap. C’è da osservare che anche i dati forniti negli atti della Conferenza che ha avuto luogo nel mese di dicembre 1999 non sono utili per comprendere il fenomeno, i bisogni delle persone handicappate e, quindi, la programmazione dei servizi di cui necessitano. È inutile contare gli handicappati senza entrare nello specifico della diversità dei bisogni, che deriva dalla diversa autonomia che le persone possono o non possono avere o raggiungere. Almeno si potrebbe cominciare con una valutazione più attenta di coloro ai quali è stata riconosciuta una percentuale di invalidità del 100 per cento.

 

Ancora 20 mila minori ricoverati in istituto

Soltanto per quanto riguarda il ricovero dei minori è possibile usufruire di dati aggiornati al 30 giugno 1998, grazie alla ricerca “I bambini e gli adolescenti fuori dalla famiglia - Indagine sulle strutture residenziali educativo-assistenziali” (Centro nazionale di documentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza, Firenze, ottobre 1999).

Il quadro che si presenta non è tuttavia confortante. In primo luogo si rileva che non è fatta alcuna distinzione tra le strutture di ricovero in base alla loro capienza, per cui vengono equiparati gli istituti tradizionali con le piccole comunità alloggio. Per quanto riguarda ricoveri si osserva che dai 14.945 minori (7.995 maschi e 6.950 femmine), di cui:

• 1.174 portatori di handicap (723 di natura psichica, senza alcuna distinzione fra gli intellettivi e coloro che soffrono di disturbi mentali);

• 173 con minorazione plurime;

• 145 con difficoltà fisiche;

• 133 con disabilità sensoriali;

è ragionevole arrivare alla cifra di circa 20 mila minori ricoverati, considerando che non sono stati censiti gli handicappati ricoverati in struttura sanitarie, nei collegi e nei convitti di istruzione.

I dati che ci devono preoccupare, ai fini del nostro seminario, sono a mio avviso i seguenti:

1. la durata del ricovero: 1.730 minori sono ricoverati da oltre 5 anni nella struttura oggetto dell’indagine;

2. i ricoverati nella fascia di età 0-6 anni sono 2.104, in quella dai 7 ai 14 anni 8.088;

3. 1.946 minori provengono da precedenti ricoveri presso istituti o comunità;

4. 2.495 frequentano le scuole interne dell’isti­tuto;

5. 4.785 minori non rientrano mai a casa loro;

6. dalle risposte multiple sulle cause del ricovero emerge la diffusa presenza di problemi economici (43,6%), abitativi (23,6%), lavorativi (19,4%), associati a forme acute di disadattamento personale e sociale.

A questo riguardo la legge 285/1997 non ha inciso in quanto non ha scelto come obiettivo l’azzeramento dei ricoveri nella fascia 0-6 anni, e gli enti locali sovente hanno dirottato i finanziamenti per la ristrutturazione di istituti (ad esempio con la formula gruppi-famiglia) oppure per il potenziamento di forme di convitto, piuttosto che incentivare alternative al ricovero (aiuti alla famiglia d’origine, affidamenti familiari diurni o temporanei).

 

Le nuove forme di istituzionalizzazione

Sono quindi vent’anni che i cittadini totalmente incapaci di autodifendersi e non tutelati da familiari o da altri soggetti (anziani cronici non autosufficienti, malati di Alzheimer e altre persone colpite da demenza senile, pazienti psichiatrici e handicappati intellettivi con limitatissima o nulla autonomia) vengono sistematicamente esclusi dal contesto sociale mediante il loro ricovero in strutture assistenziali (case di riposo e altri istituti) in cui spesso non ricevono le necessarie cure sanitarie e le altre indispensabili prestazioni.

A causa del disinteresse delle istituzioni, succede anche che il trasferimento dal manicomio in una comunità peggiori notevolmente le condizioni di vita dei ricoverati. Pier Luigi Donetti, nell’articolo “Il manicomio chiuso a Collegno (Torino) riapre altrove - Cristalli al posto dei muri” denuncia: «Venti ospiti dell’ospedale psichiatrico finiti sotto chiave a Bessolo di Ivrea» (Corriere di Rivoli, Collegno, Grugliasco, 23 aprile 1999).

Ma possiamo dire che, oltre a queste forme tradizionali di istituzionalizzazione, che ci riconducono alle esperienze stigmatizzate negativamente alla fine degli anni ’60, è nata una proposta di ricovero, che potremmo definire di “seconda scelta” per cittadini, sempre in condizione di limitata o nulla autonomia, per i quali si sono predisposti interventi sociali, comunque separati però dai servizi previsti per tutti gli altri cittadini.

Ad esempio gli anziani malati cronici non autosufficienti non vengono curati insieme agli altri malati (nelle medicine degli ospedali, nelle case di cura convenzionate, negli istituti di riabilitazione), ma possono finire in una delle tante pensioni abusive; più di frequente, specialmente al Nord, il loro destino è comunque nelle Rsa, residenze sanitarie assistenziali, e cioè in un luogo separato dagli altri servizi sanitari previsti per tutti i cittadini.

Questo succede anche per i malati di tumore con la malattia in stadio avanzato per i quali, anziché prevedere nel luogo in cui sono (la casa, l’ospedale, la casa di cura, la Rsa...) cure sanitarie a dimensione umana si propongono strutture apposite solo per loro come gli hospice, di nuovo una struttura solo per questi malati, con tutte le incongruenze del caso: se oltre al tumore vi sono altre patologie, ad esempio una demenza, la persona è da ricoverare in una Rsa oppure in un hospice? Se i posti di ricovero nell’hospice non sono sufficienti, cosa ne è degli altri malati terminali che non possono ricevere tutte le stesse prestazioni sanitarie riservate ai ricoverati dell’hospice?

Per i malati in coma apallico, anche giovani, si individuano moduli a parte, inseriti nelle Rsa per anziani malati non autosufficienti, anziché prevedere i pochi posti letto necessari all’interno dell’ospedale, assicurando peraltro gli interventi tempestivi di cui necessitano in caso di miglioramento o peggioramento improvviso (cfr. la delibera della Giunta Regionale del Piemonte, 21 luglio 1997 n. 93-21140).

E così stanno spuntando anche ipotesi – proprio a Torino – di Rsa appositamente realizzate per handicappati fisici con gravi patologie da 30 posti letto con annesso centro diurno da altri 20 posti. Servizi separati per soli handicappati, pienamente in grado di intendere e volere, anziché potenziare fin che è possibile la loro permanenza a casa con l’assicurazione di adeguate cure domiciliari e prevedere, in caso di peggioramento, per assicurare l’assistenza sanitaria di cui necessitano, il ricovero in reparti ospedalieri, che tengano conto anche delle esigenze relazionali.

Si sta pensando anche a soluzioni particolari per gli handicappati con capacità lavorativa anche piena, ma che hanno la necessità di un collocamento mirato e, dunque, qualche difficoltà la pongono.

Se potranno essere così fortunati da non finire in un “laboratorio protetto”, avranno ugualmente grandi probabilità di trovare lavoro in contesti diversi dalle normali aziende, grazie all’articolo 12 della legge 68/1999 che dà la possibilità all’azienda di collocarli nelle cooperative sociali, anche a tempo indeterminato. E le cooperative sociali, ricordiamolo, per legge devono avere non meno del 30 per cento di persone “svantaggiate”: non meno, vuol dire che può essere anche superiore alla percentuale indicata; e dunque ecco pronto un “contenitore” per le diversità e non certo per i cittadini normali.

Lo stesso discorso si ripropone purtroppo per i minori. Ad eccezione dei neonati o dei bambini piccolissimi adottabili e senza minorazioni o problemi gravi di salute, come abbiamo visto dai dati dell’ultima indagine, gli altri restano in istituto o, nella migliore delle ipotesi, in comunità alloggio, comunque non in una famiglia, neppure affidataria.

 

Le ragioni di questa linea “nuova” di emarginazione delle persone con limitate capacità di autodifesa sono molteplici

1. Mancanza di capacità contrattuale dell’interessato: come fa un bambino, un anziano cronico non autosufficiente o un handicappato intellettivo ad organizzarsi per far sentire le sue istanze? Per questo chi fa parte del mondo che decide, può tranquillamente emarginarli ed escluderli.

2. Decide chi conta: secondo Gambino (cfr. A. Gambino, “Il ritorno della disuguaglianza”, Il Mulino, n. 4/5 luglio-agosto 1995), la nostra democrazia poggia sui 7/8 della popolazione. La sua essenza è che tutti gli aspiranti uomini politici, al momento di formulare programmi, decidono di abbandonare al proprio destino il settore marginale più basso della cittadinanza, vale a dire quel 12-15% che in tutti i paesi occidentali costituisce la underclasse, le cui esigenze se fossero prese davvero in considerazione, non si dimostrerebbero “incompatibili” con le richieste degli altri settori sociali, ma ridurrebbero ovviamente le condizioni di privilegio e i relativi benefici delle classi alte. Essi finiscono così, per concentrare la loro attenzione unicamente sulla maggioranza di coloro che già hanno come sostenitori o che nel prossimo futuro sperano di avere, e cioè sui 7/8 della popolazione, abbandonando gli altri al loro destino. Un errore grossolano commesso da chi si trova fortunatamente – per ora – tra i 7/8 che contano, è di non considerare l’eventualità di precipitare tra coloro che oggi esclude o emargina.

3. La mancanza di un forte volontariato impegnato nella promozione e difesa dei diritti. Tuttora la stragrande maggioranza del volontariato svolge una attività consolatoria, senza adoperarsi per la ricerca delle cause che creano la condizione di bisogno assistenziale allo scopo di rimuoverle. Non è poi un buon segno l’avvicinamento continuo delle organizzazioni di volontariato al terzo settore. Le associazioni di volontariato dovrebbero svolgere la propria attività gratuitamente e porsi come obiettivo il compito di intervenire per il rispetto dei diritti degli utenti, con la libertà d’azione nei confronti di tutti gli enti gestori di servizi, comprese le cooperative. Per tali ragioni non dovrebbero mai essere confuse o, peggio, associate con il terzo settore (non profit non significa gratuito) e, soprattutto, non dovrebbero “morire” di convenzioni con gli Enti locali, come aveva già anticipato Luciano Tavazza all’entrata in vigore della legge quadro sul volontariato, prevedendo – purtroppo – il soffocamento sul nascere di ogni spirito di denuncia contro le istituzioni inadempienti, per timore di perdere i relativi finanziamenti. Il ritorno alla beneficenza con le maratone televisive (Telethon, Cento ore per la vita...) ed alle risorse aleatorie (vedasi le ultime dichiarazioni del Ministro Turco sul “Lotto” come fonte di finanziamento delle comunità alloggio per l’handicap),  ci sta spostando dalla cultura del diritto, a quella della solidarietà/beneficenza. L’affermazione di principio di qualche decina d’anni fa: “Non per favore, ma per diritto” è passata di moda.

4. Un’alleanza per la gestione degli emarginati. Il 12 febbraio 1999 il Governo e il Forum del terzo settore hanno sottoscritto un protocollo di intesa. Una delle caratteristiche salienti dell’accordo è il riconoscimento ufficiale – da parte del Governo – del terzo settore quale soggetto politico, sociale ed economico in grado sia «di corrispondere in modo efficace alla domanda insoddisfatta di servizi di interesse collettivo e al diffuso bisogno di “beni relazionali” necessari per la convivenza civile e la coesione sociale», sia di incentivare «l’occupabilità dei lavoratori svantaggiati». Dunque, con la stessa logica del Ministero dell’interno degli anni passati, il Governo e il terzo settore non puntano alla prevenzione del bisogno e del disagio, non chiedono la riprogrammazione degli interventi sociali fondamentali (lotta all’evasione scolastica, cure sanitarie anche ai malati inguaribili, adeguamento delle pensioni minime...), ma propongono servizi di contenimento per garantire la convivenza civile e la coesione sociale. Inoltre, alle persone svantaggiate, comprese quelle in grado di assicurare un rendimento lavorativo uguale a quello degli altri lavoratori, il Governo e il terzo settore non si impegnano per la loro occupazione nelle normali aziende, ma hanno deciso la loro emarginazione presso le cooperative cosiddette sociali. Nell’accordo non sono nemmeno indicate le iniziative da assumere per il passaggio dei lavoratori idonei dalle cooperative alle normali aziende private e pubbliche. Va detto che il Governo e il Forum hanno stabilito di dare attuazione alla proposta avanzata da Pellegrino Capaldo nella sua funzione di Presidente della Fondazione italiana del volontariato e della Banca di Roma. Nel n. 6, giugno 1995, della Rivista del volontariato, edita dalla Fivol, il Capaldo – dopo aver premesso che bisognava abbandonare «la strada degli obblighi e dei vincoli che spesso hanno il solo risultato di ridurre la competitività delle aziende» – affermava quanto segue: «Penso ad una diversa disciplina delle “categorie protette” che consenta alle imprese di scegliere tra l’assunzione diretta e l’affidamento di commesse ad un organismo produttivo che dia lavoro a quelle “categorie”».

La proposta emarginante della Fondazione del volontariato non si rivolgeva solo alle persone con handicap, comprese quelle pienamente in grado di svolgere la loro attività lavorativa al pari degli altri colleghi di lavoro – ma si estendeva anche ai soggetti “svantaggiati”. Infatti il Capaldo aveva chiesto anche «l’allargamento della nozione di “soggetto svantaggiato” rispetto a quella prevista dalle norme sulle cooperative sociali», che già consideravano in modo estremamente estensivo tutti i soggetti svantaggiati, senza tenere in considerazione la loro autonomia personale e le loro capacità lavorative. L’art. 4 della legge 8 novembre 1991 n. 381 “Disciplina delle cooperative sociali” stabilisce che «si considerano persone svantaggiate gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcoolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione». A questo elenco vengono poi aggiunti altri soggetti di volta in volta individuati per decreto. Il Capaldo ritiene che «con l’aiuto di volontari, esse (le cooperative sociali, n.d.r.) riescono a dare un lavoro dignitoso a soggetti “svantaggiati” per i quali sarebbe impossibile inserirsi in un normale circuito produttivo». A questo riguardo è interessante il parere dei diretti interessati. L’ultima testimonianza in proposito risale al 7 luglio 2000 ed è stata pubblicata su Specchio dei tempi (rubrica del quotidiano La Stampa) dove leggiamo a firma di Patrizia Russo: «Ho lavorato presso un asilo nido privato, gestito da una cooperativa sociale: in base al regolamento interno, i soci lavoratori non hanno diritto alla retribuzione di ferie, festivi, periodo di assenza (ovvero primi tre giorni di mutua), permessi di vario genere, ecc. Puntualizzo che lo stipendio viene calcolato approssimativamente, senza conteggiare i giorni e le ore effettive, su base annua con corrispettivo irrisorio. Questo è un esempio di come possono agire talvolta le cooperative sociali. Informo che per legge le suddette possono redigere il regolamento interno in base alle proprie esigenze, farlo votare dall’assemblea dei soci, diventando così, valido a tutti gli effetti. Non importa, poi, se il contenuto non si attiene alle normali regolamentazioni di lavoro. L’Ispettorato del lavoro e i sindacati ne sono a conoscenza, ma non possono agire. Il mio intento è quello di contribuire alla salvaguardia dei lavoratori e utenti che si rivolgono alle cooperative. Consiglio di farsi consegnare subito lo statuto e il regolamento prima di iniziare un qualsiasi rapporto con le suddette».

Solo tre giorni dopo, sempre sulla stessa rubrica la denuncia viene confermata da un’altra testimonianza: «Sono d’accordo con quanto ha scritto Patrizia Russo in quanto vivo le stesse vessazioni in qualità di socio-lavoratore e sono indignata che vengano permessi tanti abusi. Alcune cooperative “sociali” sono solo imprese mascherate da cooperative che sfruttano il lavoro a bassissimo costo e sono esenti da imposte. Dovrebbero esistere solo quelle veramente “sociali” e verificare che si comportino in modo veramente corretto. Sono alla ricerca di un altro impiego e spero che la buona sorte mi dia una mano. Mi auguro che la giustizia trionfi e che si facciano cessare tanti abusi nei confronti di gente che ha solo bisogno di lavorare». Purtroppo, come ho già ricordato, la legge 12 marzo 1999, n. 68 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” ha dato alle imprese la possibilità di chiedere l’inserimento in cooperativa degli handicap­pati da assumere, al posto dell’avviamento in azienda.

5. L’impostazione assistenzialistica dei problemi e delle soluzioni per le persone in difficoltà. Anziché operare affinché tutti i settori di interesse sociale (sanità, scuola, lavoro, ecc.) siano predisposti in modo da accogliere pienamente anche i soggetti più deboli, si tende a risolvere il problema con interventi assistenziali, che – in base a quanto previsto dal primo comma dell’articolo 38 della Costituzione – devono invece occuparsi esclusivamente delle persone più marginali, prive di capacità lavorative e della possibilità di procurarsi i mezzi necessari per vivere. La Costituzione prevede, quindi, interventi aggiuntivi a tutti gli altri di carattere onnicomprensivo (sanità, scuola, casa, lavoro, ecc.). Questi interventi assistenziali non interessano, né potrebbero interessare gli altri cittadini, ma se non vengono erogati le persone coinvolte non possono vivere o vivrebbero peggio. Ad esempio, gli handicappati intellettivi in situazione di gravità frequentano la scuola di tutti, utilizzano i servizi sanitari di tutti, si servono dei mezzi di trasporto di tutti, ma i centri diurni assistenziali sono organizzati esclusivamente per rispondere alle loro esigenze e non potrebbe essere diversamente. Analogo discorso vale per i senza fissa dimora. Così un bambino in situazione di abbandono, ospite di una comunità alloggio, frequenterà la scuola di tutti, i servizi sanitari se sta male come tutti gli altri, ma la comunità alloggio o la famiglia affidataria o adottiva deve essere scelta solo per lui dai servizi assistenziali in accordo con i tribunali per i minorenni. Questo servizio assistenziale non interessa di certo tutti gli altri minori che vivono serenamente con i propri genitori. Su questa linea assistenzialistica si muovono invece anche le ricerche del Cnel, Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, nel rapporto “Il ruolo degli organismi non profit nel settore assistenziale” elaborato in data 21 aprile 1998. Nella ricerca è segnalato che «i settori assistenziali nei quali è, dunque, ipotizzabile il raggiungimento da parte degli organismi non profit, di una posizione significativa possono, così, essere individuati: nelle case di riposo e abitazioni protette, negli asili nido, nei settori assistenziali innovativi (assistenza domiciliare agli anziani, istituti per anziani e handicappati, servizi a persone affette da problemi sanitario-sociali, consultori per alcolisti e tossicodipendenti, istituti per minori in stato di disagio, servizi di pasti a domicilio, consultori familiari)». Per cui i ricercatori del Cnel non soltanto inseriscono gli asili nido fra le strutture assistenziali (e non fra i servizi educativi), ma ripropongono addirittura gli istituti assistenziali per anziani, handicappati e minori come se fossimo ancora negli anni ’60-’70. D’altronde sempre i ricercatori del Cnel in un altro rapporto redatto per la Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati nella stessa data di quello sopraricordato, avevano esplicitamente richiesto che la competenza ad intervenire per gli anziani malati cronici non autosufficienti, anziché restare alla sanità – come previsto dalle leggi vigenti – venisse assegnata al settore dell’assistenza.

6. Analisi incompleta. Sia la Caritas italiana che la stessa Fondazione Zancan hanno pubblicato presso la Casa editrice Feltrinelli due rapporti: il primo, che reca il titolo “I bisogni dimenticati - Rapporto 1996 su emarginazione ed esclusione sociale”, analizza la condizione anziana, i problemi dei minori e dei giovani a rischio, i fenomeni legati alla dipendenza, l’immigrazione e la situazione detentiva; il secondo, avente per oggetto “Gli ultimi della fila - Rapporto 1997 sui bisogni dimenticati” affronta gli argomenti relativi alla tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale, le persone senza fissa dimora, la disoccupazione giovanile, i malati psichiatrici, l’usura. Molte parti sono condivisibili, ma in questo contesto mi preme rilevare – come è già stato commentato su Pro­spettive assistenziali, che ha recensito con un articolo i due volumi – l’insufficienza dell’analisi delle cause che stanno a monte di ogni forma di emarginazione e, dunque, gli strumenti suggeriti per contrastarla. Si sostiene che – «i nodi critici che spesso ostacolano l’attuazione di politiche sociali efficaci ruotano attorno ad una serie di contraddizioni: l’insufficiente realizzazione dei servizi essenziali, la sporadica e formale attuazione dei distretti sociosanitari, la mancata formazione dei responsabili dei servizi, lo scarso investimento negli interventi ad elevata integrazione socio-sanitaria, la cronica insufficienza delle risorse destinate ai servizi territoriali e domiciliari, la sistematica incertezza nella ripartizione della spesa sociale e sanitaria, tale per cui spesso persone anziane non autosufficienti malate croniche, vedono messo in discussione il loro diritto alla salute, cioè ad aver prestazioni sanitarie fondamentali garantite invece agli altri cittadini». Si aggiunge che «queste disfunzioni spesso nascono da responsabilizzazioni parziali e simulate, da mancate collaborazioni e integrazioni, da conflittualità fra settori, da contrapposizioni improprie tra pubblico e privato, dalla insufficiente definizione delle condizioni di accesso e di esigibilità dei servizi, soprattutto nel caso di bisogni che richiederebbero un approccio globale e integrato». In sostanza, secondo gli Autori, l’esclusione e l’emarginazione potrebbero essere efficacemente contrastate mediante misure di natura tecnica: l’attuazione dei distretti, lo sviluppo degli interventi ad elevata integrazione sociosanitaria, l’attribuzione di risorse ai servizi territoriali e domiciliari, la formazione dei responsabili dei servizi, ecc. Non esisterebbero, dunque, problemi politici di tipo generale. Crediamo davvero che le disuguaglianze sociali sarebbero solamente la conseguenza di una cattiva e correggibile disorganizzazione? Su questa linea è anche il rapporto redatto da Mons. Benito Cocchi, Presidente della Caritas italiana, che asserisce che la risoluzione delle ingiustizie esistenti potrebbe essere realizzata mediante apporti individuali. Nell’introduzione del primo volume precisa che oggi per un approccio corretto al problema dei poveri occorrono «una catechesi e una liturgia che sappiano parlare a tutti a partire da linguaggi e gesti semplici, profondamente calati nell’umanità delle persone e trasparenti sul mistero di Dio-Amore». Davvero è sufficiente l’impegno personale e la creazione di luoghi di solidale accoglienza per rimuovere le attuali situazioni di emarginazione e di esclusione sociale?

Se confrontiamo quanto è successo solo trent’anni fa, vediamo che un salto qualitativo per le persone emarginate si è avuto solo quando sono cominciate le denunce e si sono stigmatizzati gli interventi che miravano a escludere dal contesto chiunque poteva “disturbare”, anche solo con la sua presenza (pensiamo agli handicappati), la quiete sociale e sono stati avviati servizi alter­-
nativi.

Continua dunque a nostro avviso la necessità di perseguire l’obiettivo della prevenzione dell’emarginazione, mentre l’umanizzazione dei servizi e dei luoghi dell’assistenza è una tappa, ma non deve distogliere dal traguardo che bisogna conquistare.

7. Continuo raggiro delle leggi da parte delle istituzioni e dei pubblici poteri. Alcuni esempi: dimissioni degli anziani malati cronici non autosufficienti dagli ospedali, nonostante le leggi vigenti sanciscano il diritto alla cura senza limiti di durata; allo scopo di smascherare la condizione di malattia si assiste al cambiamento delle diagnosi per cui il malato di demenza senile ha solo una vasculopatia cerebrale e il dimesso dall’ospedale psichiatrico, dopo vent’anni di manicomio, è “solo” più un anziano; richiesta di contributi ai familiari di assistiti maggiorenni, in violazione a quanto previsto dal codice civile con particolare accanimento da parte del Comune di Firenze, che ha di recente deliberato prevedendo, in contrasto anche con il decreto legislativo 130/2000, la compartecipazione dei familiari degli assistiti al pagamento di rette di ricovero.

 

Conclusioni

A mio parere, restano valide le analisi e le soluzioni che erano state adottate alla fine degli anni ’60 e che si sono fermate a causa della caduta in generale dei principi etici di riferimento e per il mutato clima politico e culturale degli ultimi anni. Per cui mi sembra che non si debbano tanto cercare nuove strade, ma riprendere al più presto la via già tracciata e che, come ho cercato di argomentare, aveva cominciato a dare buoni risultati. Quindi:

a) Contro il rischio di esclusione ed emarginazione in assistenza dei cittadini con limitata o nulla capacità di autodifesa, bisogna tornare a rilanciare i servizi per tutti, accessibili a tutti: il lavoro, la casa, i trasporti, la sanità, il tempo libero, lo sport e la cultura non devono essere prerogativa dei ceti sociali forti; ogni settore sociale deve essere capace di accogliere con proprie risorse e con proprio personale anche le persone con difficoltà;

b) l’assistenza è un servizio aggiuntivo, che va assicurato di diritto e obbligatoriamente a quei
cittadini che, pur usufruendo dei servizi di tutti, hanno bisogni specifici e particolari che non riguardano cioè tutta la popolazione; tali servizi vanno garantiti in primo luogo ai cittadini che il 1° comma dell’articolo 38 della Costituzione individua nelle persone inabili e sprovviste dei mezzi necessari per vivere. Osservo con amarezza la caduta di
tensione sul piano etico, a mio avviso dimostrata dai Deputati con l’approvazione del testo sulla riforma dell’assistenza licenziato dalla Camera e ora in discussione al Senato (disegno di legge
n. 4641) (1). Essi hanno stravolto il dettato costituzionale e arbitrariamente hanno stabilito l’erogabilità dei servizi socio-assistenziali a tutta la popolazione, senza peraltro prevedere l’obbligo per gli enti locali ad assicurare almeno gli interventi indispensabili per le persone emarginate o a grande rischio di esclusione sociale.

c) È dunque indispensabile ritornare alla cultura del diritto, non aleatorio, non discrezionale, ma al diritto esigibile, che è tale solo se la legge prevede l’obbligo di intervenire per l’ente tenuto a soddisfare la prestazione richiesta. Ad esempio il diritto all’istruzione obbligatoria per tutti i bambini, handicappati compresi.

d) Solo la norma giuridica prescrittiva permette al cittadino (o alle associazioni che lo rappresentano) di esercitare i propri diritti anche tramite la denuncia e il ricorso contro l’Amministrazione inadempiente. Tutte le altre disposizioni che contornano le norme legislative (linee guida, programmi d’azione, piani socio-sanitari regionali, piani di zona, progetti individuali, uffici del difensore civico, carte dei diritti del malato...), se non riprendono in primo luogo i riferimenti normativi che tutelano la persona, soprattutto, se non sono ancorate a obblighi precisi per le istituzioni, da sole non possono certamente difendere le persone a rischio di esclusione sociale assicurando loro il diritto agli interventi di cui necessitano. In merito, anche il Cardinale Martini, nella relazione presentata in occasione della prima Conferenza nazionale della sanità (Roma, 24-26 novembre 1999) ha acutamente osservato che occorrerà «verificare che le numerose “Carte dei diritti del malato” non si trasformino, nella realtà in “diritti di carta”, soprattutto per persone bisognose, ad esempio, di riabilitazione estensiva o di assistenza a lungo termine, per persone affette da grave cronicità, che rischiano di essere escluse dalla tutela della salute».

 

 

 

* Relazione tenuta al seminario “Percorsi di istituzionalizzazione mascherata: come riconoscerli ed evitarli”, organizzato dalla Fondazione Zancan, tenutosi a Malosco (Trento), dal 3 al 7 settembre 2000.

La relazione è stata preparata con il contributo di Francesco Santanera e degli articoli pubblicati sulla rivista Prospettive assistenziali per i quali si rinvia ai numeri: 48, ottobre-dicembre 1979, “Inaccettabile l’attuale riorganizzazione del settore assistenziale”; 64, ottobre-dicembre 1983, “I nulla”; 68, ottobre-dicembre 1984, “Tutto è pronto per una nuova emarginazione”; 111, luglio-settembre 1995, “La fondazione italiana per il volontariato non vuole che handicappati e svantaggiati lavorino nelle normali aziende”; 126, aprile-giugno 1999, M.G. Breda, “Aspetti positivi, negativi e problematici della nuova legge sul collocamento al lavoro delle persone con handicap” e “I bisogni dimenticati”; 127, luglio-settembre 1999, “Intesa fra il Governo e il Forum del terzo settore per l’emarginazione sociale dei cittadini aventi limitate capacità di autodifesa”; 128, ottobre-dicembre 1999, F. Santanera, “Cambiamenti più significativi del settore assistenziale dal 1960 al 1998”; 129, gennaio-marzo 2000, F. Santanera, “Esperienze di prevenzione del bisogno assistenziale dell’emarginazione sociale” e “Sono ancora 20 mila i minori ricoverati in strutture assistenziali: le promesse non rispettate del Ministro per la solidarietà sociale”.

(1) Il testo (ora legge 328/2000) è stato approvato dal Senato nell’identica stesura varata dalla Camera dei Deputati.

 

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