Prospettive assistenziali, n. 132, ottobre-dicembre 2000

 

 

risposta alla lettera indirizzata ai familiari di handicappati gravi

 

 

 

Nello scorso numero di Prospettive assistenziali è stata pubblicata una lettera di Alberto Paglicci di Viterbo che da 16 anni vive la situazione di genitore di un figlio colpito da un grave handicap intellettivo.

Ha scritto: «Non mi sono stancato del mio familiare disabile; mi sono stancato di provvedere all’assistenza personale continua, a mio parere molto pesante, e, per me, divenuta insostenibile, poiché l’importo dell’indennità di accompagnamento agli invalidi civili totali “con necessità di assistenza continua, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita” (legge 18/1980) è sufficiente per circa 2 ore e mezza di assistenza al giorno, che di ore ne ha 24, ed è un importo del tutto sproporzionato rispetto alle rette che la collettività paga per il ricovero in istituti di assistenza, e considerando che viviamo in un Paese cosiddetto civile, anzi ai primi posti tra le potenze economiche, non in un Paese del Terzo Mondo».

Pubblichiamo ora la lettera inviataci il 9 novembre 2000 da Giuseppe D’Angelo, presidente dell’Asso­ciazione tutori volontari.

«Provo a dare una risposta alla lettera del sig. Alberto Paglicci, familiare di un disabile grave, riportata sul numero 131 di Prospettive assistenziali.

Egli pone un interrogativo. Chiede (in estrema sintesi) se, dopo sedici anni di continua assistenza, giorno e notte, al suo familiare disabile, abbia il diritto di sentirsi “stanco”.

Sì, sono completamente d’accordo. Ha tutto il diritto di manifestare la propria sofferenza. E penso che abbia soprattutto il dovere di mettere in luce la mancanza delle istituzioni.

Occorre ricordare che, in base al primo comma dell’art. 38 della Costituzione, “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”. Quindi il diritto all’assistenza è costituzionalmente garantito: la nostra Carta costituzionale non si esprime in termini di solidarietà discrezionale.

E le leggi ordinarie devono, o quanto meno dovrebbero, recepire tale obbligo; cosa che, invece, sino ad oggi non è ancora avvenuta, neppure nella recentissima legge di riforma dell’assistenza.

Le leggi vigenti, comunque, assegnano all’ente comunale le funzioni socio-assistenziali. È il Comune pertanto, quale ente gestore, che deve farsi carico della persona inabile, al di là che vi sia o meno qualcuno in grado di prestare assistenza (genitore, familiare o altro che sia).

Ma, vista l’assenza di obblighi precisi, spesso, invece, accade che l’ente pubblico preposto all’assistenza approfitti dei legami affettivi per non fornire le prestazioni necessarie: se è chiaramente prioritaria la permanenza in famiglia del congiunto disabile, ciò non deve essere un pretesto per uno scarico dei doveri al nucleo familiare.

L’intervento delle autorità competenti, come ha affermato il compianto padre Giacomo Perico, deve fondarsi sulla “fisica realtà e non sulle motivazioni dei congiunti, motivazioni di origine radicalmente diversa che possono mutare nel tempo in qualità e continuità”.

Capita, peraltro, che problematiche di assistenza accollate al nucleo familiare e non sorrette da un adeguato sostegno, diano luogo a situazioni disperate a volte riversanti in tristi eventi.

Solo per ricordare quest’ultimo anno, cito alcuni articoli di giornale, messi da parte a tragica memoria, relativi al dramma di Calcinato (Brescia), dove una mamma ha gettato il figlio disabile in un canale; o a Cornaredo (Milano), dove una madre si è lasciata cadere nel vuoto col figlio disabile; o a Ferrara, dove una mamma esasperata da lunghi anni di assistenza al figlio disabile ha cercato di uccidersi assieme al figlio con un miscuglio di farmaci, lasciando una lettera il cui contenuto si può riassumere nelle parole “non ce la faccio più”; o a Novara dove un padre ha ucciso con una fucilata il figlio psicolabile e poi si è costituito...

Questi sono solo alcuni degli ultimi tragici avvenimenti riportati dalla stampa: la punta di un iceberg fatto di solitudine e angoscia.

Nel ripercorrere queste tragiche notizie si rimane quantomeno sconsolati; e c’è da chiedersi quale vera giustizia possa punire per intero la mano del familiare contro la persona disabile.

Notizie che, peraltro, hanno solo avuto l’eco di un giorno, con l’intervista a qualche nome importante e con l’articolo del sociologo/psicologo di turno.

Poi più nulla sino al successivo drammatico evento.

Ma chi sollecita, invece, i responsabili di Governo?

Chi interpella, per esempio, il Ministro per la solidarietà sociale per chiederle come mai la legge quadro sull’handicap (legge 104/1992) non preveda l’istituzione di adeguati servizi obbligatori, e come mai la relativa modifica, apportata con la legge 162/1998, non abbia fatto altro che aggiungere
tre “possono” ai ventidue già presenti nella legge quadro?

Chi interpella la ministra onorevole Livia Turco, per chiedere come mai non è stato rispettato il primo comma dell’articolo 38 della Costituzione nel recente testo di riforma dell’assistenza approvato al Senato il 18 ottobre ultimo scorso (ora, purtroppo legge 328/2000, n.d.r.), non prevedendo, pertanto, diritti esigibili, servizi garantiti, per “le persone inabili al lavoro e sprovviste dei mezzi necessari per vivere?”.

È chiaro che se non si interviene correttamente con leggi e servizi adeguati non ci si deve poi stupire se capitano tragici eventi.

Tra l’altro, per le persone handicappate intellettive con limitata o nulla autonomia senza capacità lavorative, occorre prevedere prioritariamente l’attivazione di centri diurni socio-terapeutici con un massimo di 20-25 utenti, aperti almeno per cinque giorni alla settimana e per otto ore al giorno; e l’apertura di comunità alloggio residenziali di tipo familiare da non più di otto posti letto (prevedendo uno o due posti di pronta accoglienza, per emergenze temporanee del nucleo familiare o per ricoveri di sollievo).

Comunque, la mancanza di esigibilità, di servizi precisi garantiti, non deve far dimenticare che le istituzioni, come già affermato, sono in ogni caso tenute a fornire assistenza: è loro obbligo giuridico.

È pertanto indubbio che per l’assistenza, ad esempio, di un disabile grave maggiorenne l’attività della famiglia si pone (ed è, a mio parere, quanto meno vantaggioso considerarla in tale prospettiva) sullo stesso piano di un’azione di volontariato.

Non a caso, le amministrazioni pubbliche danno aiuti economici per gli affidamenti di maggiorenni a terze persone. Mentre non avviene così, invece (approfittando dei legami affettivi), se il soggetto convive presso i propri congiunti.

In quest’ottica si pone la proposta di delibera elaborata dal Csa, Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base, al fine di riconoscere il volontariato assistenziale intrafamiliare svolto nei confronti di un congiunto handicappato intellettivo grave (ma la stessa delibera è ripetibile per l’assistenza, per esempio, ad un congiunto anziano non autosufficiente...).

In sintesi, in tale proposta, ferma restando la necessità di attivazione dei centri diurni, dei ricoveri di sollievo e di tutti gli altri necessari interventi, si riconosce alla famiglia che accoglie un congiunto maggiorenne handicappato intellettivo e/o fisico non autosufficiente avente una invalidità del 100%, un contributo mensile di importo pari all’indennità di accompagnamento.

È comunque importante, a mio parere, prestare la dovuta attenzione, affinché tale proposta non venga interpretata, sia dall’ente pubblico sia dalle stesse famiglie, come una remunerazione in alternativa agli indispensabili centri diurni ed a tutti gli altri necessari servizi. Si tratta, invece, ed è bene rimarcarlo, di una proposta di sostegno addizionale, in quanto riconosce l’utile apporto del volontariato intra-familiare che, tra l’altro, fa realizzare notevoli economie di bilancio alla pubblica amministrazione.

Concludo augurando al sig. Paglicci di trovare la necessaria assistenza per il congiunto disabile, e quindi finalmente un po’ di sollievo. E così magari, forte della sua esperienza, potrà dedicare parte del tempo risultante, alla difesa più generale delle esigenze e diritti delle persone disabili e delle loro famiglie.

 

 

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