Prospettive assistenziali, n. 132, ottobre-dicembre 2000

 

 

Condannati i gestori di una pensione abusiva:

disumane le condizioni di vita degli anziani ricoverati

 

 

 

Si riporta integralmente la sentenza di condanna di due gestori delle sempre più numerose pensioni abusive che ricoverano anziani malati cronici non autosufficienti.

Mentre prendiamo atto con soddisfazione della decisione della magistratura torinese di colpire gli speculatori, rileviamo che, invece di deplorare (almeno!) il comportamento dei servizi sanitari che dimettono illegalmente e spesso anche in modo crudele i vecchi malati, lasciandoli in balia di loro stessi o di congiunti incompetenti (ma questo atto non costituisce il reato di abbandono di incapace?), critica i parenti dei ricoverati nella pensione abusiva «completamente carente delle dotazioni necessarie», dimenticando che spesso i familiari sono costretti a ricorrere al ricovero presso strutture assolutamente inidonee non avendo la possibilità di accoglierli a casa loro, né disponendo del denaro necessario per pagare le rette di 100-250 mila lire al giorno richieste dagli enti in possesso delle prescritte autorizzazioni.

 

 

Il tribunale civile e penale di Torino, terza sezione penale, composto dai magistrati dott. Walter Maccario, Presidente; dott. Paolo Gallo, Giudice; dott. Rossella La Gatta, Giudice, ha pronunciato la seguente sentenza nella causa penale contro D.B., nato il ... 1955 a T. (FG) e B.A., nata il ... 1962 a T., entrambi residenti in C., via ... 43, assistiti di fiducia dagli Avv. G.P. e V.Z. del Foro di Torino, liberi presenti, imputati:

A) del reato di cui agli artt. 110, 81 cpv., 591 commi 1 e 3 codice penale perché, in concorso tra loro, gestendo abusivamente la pensione “Po” di Torino, via Po 4, di fatto adibita a presidio socio-assistenziale (abusivamente perché senza autorizzazione amministrativa all’esercizio di albergo, almeno dopo il 17.6.1996, ed inoltre senza autorizzazione dell’autorità sanitaria), con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso abbandonavano, tenendoli in condizioni inadeguate sotto il profilo delle omissioni strutturali dei locali, dell’insufficienza quantitativa e qualitativa del personale e delle carenze nel trattamento farmaceutico, riabilitativo ed alimentare, gli anziani ivi ricoverati e succedutisi nel tempo, in condizioni di non autosufficienza psichica e/o fisica, dei quali dovevano avere cura.

Con l’aggravante che dal fatto derivavano lesioni personali ad alcuni dei ricoverati: B.I., B.S., T.L. e L.L. affette da piaghe da decubito; L.A., F.G. e V.C. affette da grave disidratazione; B.P., affetta da lieve disidratazione.

In Torino dal novembre 1995 al 18 marzo 1997.

B) del reato di cui agli artt. 110 codice penale e 2 legge 283/62 perché, in concorso tra loro e nella qualità di cui sopra, attivavano un laboratorio di preparazione e di cottura per gli alimenti senza la prescritta autorizzazione sanitaria.

In Torino dal novembre 1995 al 18 marzo 1997.

la sola B.

C) del reato di cui agli artt. 81 cpv., 348 codice penale, perché, nella qualità di cui sopra, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, esercitava abusivamente la professione di infermiera professionale, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, somministrando, ad esempio, farmaci per fleboclisi.

In Torino dal novembre 1995 al 18 marzo 1997.

Con la recidiva reiterata nei confronti del D., specifica e infraquinquennale nei confronti della B. (recidiva così contestata alla B. all’udienza dell’8.7.1998).

Conclusioni del Pubblico Ministero: dichiararsi gli imputati responsabili dei reati ascritti, unificati dal vincolo della continuazione, ed esclusa l’aggravante contestata al capo A) limitatamente alle lesioni riportate da L.L., e concesse le attenuanti generiche prevalenti sulla contestata recidiva, condannarsi D. alla pena di due anni di reclusione e B. alla pena di anni due e mesi sei di reclusione. Trasmettersi gli atti al P.M. per il reato di falsa testimonianza commesso da R.R.E.

Conclusioni della difesa: assolversi il D. da tutti i reati ascritti per non aver commesso il fatto; assolversi la B. da tutti i reati ascritti, anche ai sensi dell’art. 530 cpv. c.p.p., perché il fatto non sussiste; in subordine, attenuanti generiche prevalenti e minimo della pena.

FATTO E DIRITTO

Con decreto del 28.5.1998 il GIP del Tribunale di Torino rinviava a giudizio gli imputati sopra generalizzati affinché rispondessero dei reati loro in epigrafe ascritti.

Il dibattimento si sviluppava nel corso delle udienze dell’8 luglio e 5 novembre 1998 ed in quella dell’11 febbraio 1999, nella quale, conclusa l’istruttoria, le parti prendevano le conclusioni sopra trascritte ed il Tribunale pubblicava la presente decisione mediante lettura del dispositivo in udienza.

I reati contestati al D. ed alla B. sono maturati, secondo l’impostazione accusatoria, nell’ambito della irregolare gestione della “Pensione Po”, un tempo fornita di licenza quale modesta struttura alberghiera, adibita dagli imputati a casa di ricovero per anziani in spregio a tutte le norme disciplinanti la materia.

È dunque opportuno, in primo luogo, esporre l’evoluzione nel tempo della posizione amministrativa della struttura, così come ricostruita a dibattimento (sulla base della documentazione esistente) dai Testi T. ed A. In seguito, si esamineranno le caratteristiche del “servizio” reso dagli imputati, all’interno della struttura, agli anziani ospiti, e le sue conseguenze pregiudizievoli per la salute.

Infine si tratterà delle imputazioni sub B) e C).

* * *

Sin dall’anno 1989 nei locali di Torino, via Po 4, esisteva una struttura alberghiera (“Pensione Nettuno” di tale C.G.) che di fatto operava come presidio socio-assistenziale abusivo (determinando tra l’altro già in allora l’intervento della giustizia penale).

Nel 1991 gli odierni imputati costituivano una società (la DF srl di cui il D. era amministratore unico) mediante la quale subentravano nella gestione della pensione (la loro presenza veniva rilevata nel corso di un’ispezione del 6.3.1991). Il 15 luglio 1991 la DF presentava al Comune di Torino una domanda di autorizzazione all’esercizio di attività alberghiera nei locali di via Po 4, domanda che veniva respinta, sempre nell’anno 1991, con provvedimento della sesta Ripartizione, che contemporaneamente intimava la sospensione dell’attività abusivamente intrapresa.

Il D. non ottemperava a tale ordinanza, che veniva rinnovata con provvedimento del 10.12.1993.

Nonostante tutto ciò, inspiegabilmente il 10 marzo 1994 il Comune di Torino autorizzava il D. all’esercizio dell’attività alberghiera (sempre in via Po 4). Si moltiplicavano le segnalazioni della Polizia municipale (una alla sesta Ripartizione in data 24.11.1995, una al servizio socio-assistenziale in data 29.11.1995), nelle quali si evidenziava l’uso improprio della licenza per attività alberghiera (l’attività esercitata di fatto era sempre quella di presidio socio-assistenziale per anziani).

Il 4.12.1995 sempre la sesta Ripartizione diffidava il D. al rispetto delle disposizioni contenute nell’autorizzazione all’esercizio dell’attività alberghiera. Verificata l’inottemperanza del D. la licenza alberghiera veniva revocata il 17 giugno 1996.

A partire da tale data l’attività della Pensione Po (che non era stata mai lecita come attività socio-assistenziale) doveva considerarsi totalmente abusiva, anche come attività alberghiera (per le notizie sin qui riassunte cfr. dep. T., pagg. 108-135 della trascrizione del 5.11.1998, e dep. A., pagg. 32-37 della trascrizione dell’udienza dell’8.7.1998). Essa cessò definitivamente soltanto il 18 marzo 1997, con l’esecuzione del decreto di sequestro preventivo dell’intera struttura emesso dal GIP del Tribunale di Torino.

Le caratteristiche e gli effetti dell’attività svolta dagli imputati fino alla data da ultimo indicata sono stati descritti in udienza dai pubblici ufficiali che effettuarono i sopralluoghi nella Pensione Po dal novembre 1995 al marzo 1997, e da altri esercenti professioni sanitarie che a vario titolo ebbero rapporto con i gestori e gli ospiti della pensione.

L’ufficiale di Polizia municipale C.D. (per la cui deposizione dibattimentale v. trascrizione udienza 8.7.1998, pag. 11 e segg.), a seguito di una segnalazione verbale del dr. O. (consulente dell’amministrazione comunale per la materia assistenziale) dispose un’ispezione nella pensione nel novembre 1995, ispezione alla quale partecipò lo stesso dr. O., e i cui risultati furono analiticamente esposti nel verbale redatto nell’occasione.

Il verbale d’ispezione 9.11.1995 (atto irripetibile di P.G. acquisito all’udienza dell’8.7.1998) evidenzia come alle ore 10,30 nella pensione Po vi fossero due dipendenti, P.F. e L.P. La pensione si componeva di quindici locali: reception, cucina, salone, sala da pranzo, lavanderia, stireria, otto camere con complessivi 19 posti letto, due servizi igienici comuni.

Venivano rinvenuti ed inventariati numerosi farmaci, custoditi in parte in due armadi della sala da pranzo, in parte nel frigorifero in cucina, ed in parte sui comodini degli ospiti (cfr. inventario allegato al verbale, che si compone di ben tre fogli).

Gli ospiti erano quattordici persone, la più anziana nata nel 1902, la più giovane nel 1923. Tutte necessitavano di assistenza medica e farmaceutica, ma nessuna delle donne che lavoravano nella pensione (né la B., né le dipendenti) possedevano l’abilitazione di infermiere professionale. Nel verbale si dà atto della consegna, da parte della B., di un numero telefonico, corrispondente – a dire dell’imputata – al recapito di un’infermiera professionale della quale, peraltro, non veniva fornito il nominativo (circostanza, questa, precisata anche dal teste D.F. all’udienza dell’8.7.1998, pag. 21 della trascrizione).

Il successivo 29.11.1995 aveva luogo un’ispezione dei Carabinieri dei NAS, con esito pressoché analogo alla precedente (cfr. il relativo verbale, pure agli atti). Gli ospiti erano ancora quattordici, tutti bisognosi di assistenza e cura, ed operavano nella pensione la B. e la già menzionata P.F.

Il 20.12.1995 la dr.ssa C. dell’USL di Torino e l’assistente sociale C. del Comune di Torino effettuavano ulteriore sopralluogo, verificando la presenza di quindici ospiti nella Pensione. Nella relazione si dà atto delle osservazioni, formulate dalle ispettrici, circa l’illegalità dell’esercizio di attività socio-assistenziali da parte dell’albergo (cui la B. reagisce “con una certa qual arroganza”).

Le informazioni più precise e attendibili sono quelle fornite dal dr. V.O., consulente tecnico del PM, che – come si è già anticipato – prese parte al sopralluogo del 9 novembre 1995 e tornò alla Pensione Po anche in due successive occasioni (cfr. pagg. 32 e segg. della trascrizione dell’udienza del 5.11.1998).

Egli cominciò ad occuparsi della pensione, nella sua veste di consulente dell’Assessorato all’assistenza sociale del Comune di Torino, a seguito di una segnalazione degli uffici circoscrizionali del quartiere “Crocetta” relativa a C.G., anziana non autosufficiente che risultava dimorare presso la pensione gestita dagli imputati.

Il 9 novembre 1995 si recò pertanto alla Pensione Po unitamente al personale di Polizia municipale diretto dal sottufficiale D. Nell’occasione rilevò che una delle ospiti, sig.ra B., affetta da demenza, presentava piaghe da decubito di grado terzo (e dunque di notevole gravità) in sede glutea destra, più altri arrossamenti. Era altresì visibile una escoriazione e – soprattutto – la donna era affetta da sindrome da immobilizzazione, con arti inferiori parzialmente rattrappiti.

Fra l’altro non gli fu possibile neppure effettuare una visita medica vera e propria, perché mancava un ambulatorio, una sala medica e la strumentazione necessaria. La donna stava seduta su una carrozzina decisamente inidonea rispetto alle sue condizioni di salute, al punto da indurla a stare “tutta sghemba” (trascrizione cit., pag. 35). La sindrome da immobilizzazione, invece, avrebbe richiesto lo svolgimento di un’attività fisioterapica, di esercizi, manipolazioni tali da scongiurare il progressivo rattrappimento degli arti inferiori.

Quanto alla piaga da decubito, sarebbe stato possibile guarirla in circa 25 giorni, con gli accorgimenti prescritti dalla scienza medica: pulizia, medicazioni, controllo del livello di albumina nel sangue, ed infine il frequente mutamento della posizione della paziente (pag. 39).

Il 29 novembre dello stesso anno il dr. O. tornò alla pensione, alla presenza dei Carabinieri del NAS (cfr. supra, pag. 5). Erano presenti quindici persone, di età oscillante tra i 73 e i 93 anni, con una media di oltre 84 anni, tutte non autosufficienti (tredici delle quali in condizioni di non autosufficienza particolarmente grave, al punto che – secondo la vigente normativa regionale – avrebbero dovuto essere collocate in Residenze sanitarie assistenziali).

La piaga da decubito della sig.ra B. era manifesta e palese (pag. 46 della trascrizione; tale piaga verrà riscontrata anche dalla dr.ssa C. in sede di autopsia sul cadavere della B. il 2 marzo 1996: cfr. esame dr.ssa C., pag. 5 e segg. della trascrizione dell’ud. del 5.11.1998).

Emersero poi altre mancanze, che rendevano l’albergo palesemente inadeguato a fungere da presidio socio-assistenziale per anziani: mancava la documentazione medica minima per la gestione dei pazienti; cartelle personali con tutti i dati rilevanti di ciascun paziente; tabelle dietetiche approvate dal Servizio igiene pubblica; personale specializzato per l’assistenza, personale infermieristico, personale specializzato in fisioterapia e riabilitazione; mancava un lettino per le medicazioni (per es. per i pazienti affetti da piaghe da decubito); mancava strumentazione sterile; mancavano bagni assistiti, dotati di maniglioni o mancorrenti che consentissero agli utenti di sostenersi; mancavano termostati per il controllo della temperatura dell’acqua in bagno; mancavano dispositivi di sicurezza antincendio; mancava un piccolo locale ove consentire ai pazienti di compiere quel minimo di movimenti necessario ad evitare il rattrappirsi degli arti; mancavano letti con materasso “antidecubito” (cfr. esame dr. M., pag. 22 della trascizione dell’ud. 5.11.1998).

In definitiva, richiesto di precisare cosa – tra gli elementi strutturali richiesti dalla moderna geriatria e dalla normativa regionale disciplinante la materia – risultasse mancare, il dr. O. ha laconicamente risposto “Non c’era nulla” (pag. 62). Esisteva solo una stanza ampia, sufficientemente pulita, in cui gli anziani soggiornavano permanentemente (fra l’altro su poltrone basse e molto morbide, nelle quali sprofondavano senza essere in grado di tirarsi su).

In occasione del sequestro della Pensione Po, il 18 marzo 1997, il dr. O. era ancora presente. Poté perciò fare rilevazioni e confronti rispetto alla situazione registrata nel novembre 1995. In sintesi (cfr. pag. 85 e segg. della trascrizione dell’udienza del 5.11.1998) non era stato fatto nulla per adeguare la struttura, ed anzi emerse qualche peggioramento: altre due ospiti (le pazienti B. e T.) avevano evidenziato profonde piaghe da decubito; le signore F.G. e V.C. presentavano importanti disidratazioni (da una forma più lieve di disidratazione, comunque rilevabile, era affetta anche la signora B.P.). In tutti questi casi (il dr. O.) ha eccettuato quello della sig.ra L., indicata in imputazione ma con ogni probabilità giunta alla Pensione Po con preesistenti piaghe da decubito) si trattava di lesioni direttamente riconducibili all’“assistenza” ricevuta presso la pensione gestita dagli imputati (pag. 93). Le piaghe da decubito furono curate e guarite nelle varie strutture in cui gli anziani, dopo il sequestro della pensione, furono trasferiti; quanto alle forme di disidratazione furono immediatamente affrontate ed eliminate in tempi brevissimi (come è nella natura stessa del tipo di lesione).

Sempre il 18 marzo 1997 il dr. O. si imbatté in una nuova ricoverata, L.A. (pag. 97 della trascrizione): l’anziana donna versava in stato di incoscienza, disidratata, con le unghie lunghe. Il sanitario ne dispose immediatamente il ricovero al pronto soccorso dell’ospedale Mauriziano. I medici di tale nosocomio, più tardi, si rifiutarono di dimettere la donna (che il dr. O. aveva indirizzato colà più che altro per accertamenti), a causa della gravità delle sue condizioni. Era in atto anche una broncopolmonite ed in seguito la donna venne a morte.

Ciò che più fece indignare il dr. O. è il fatto che la signora L. era seguita in qualche modo da un medico, il quale in data 7.3.1997 aveva prescritto una terapia idratante con ipodermoclisi: ebbene, il 18 marzo alla visita, la signora L. non presentava tracce di ipodermoclisi. La B. dichiarò che aveva praticato le flebo, ma sulla pelle dell’anziana, palesemente secca, non si notavano i piccoli, immancabili fori (dal rudimentale diario clinico tenuto dalla pensione, del quale si dirà più ampiamente in seguito, risulta in effetti l’effettuazione di tre sole fleboclisi, una delle quali parziale, in data 6, 13 e 14 marzo; poi, più nulla). Tra l’altro, simile terapia avrebbe richiesto assolutamente l’intervento di personale infermieristico specializzato. È significativo riportare il commento espresso dal dr. O. su questa vicenda (pag. 101 della trascrizione): «È vero che tutti quanti dobbiamo morire... ma è anche vero che far morire di sete una persona, insomma, secondo me è inaccettabile» (ed infatti anche il medico che seguì la L. in quel periodo risulta essere stato sottoposto ad indagini in relazione a tale episodio).

In chiusura della sua deposizione, sollecitato dal Presidente, il dr. O. ha poi spiegato di essersi sempre curato, in occasione delle sue visite alla Pensione Po, di spiegare alla responsabile presente (l’imputata B.) quali interventi attuare per migliorare il servizio, ma di essersi sempre “urtato contro un muro”: la donna non era minimamente disposta ad accettare indicazioni (pag. 104-5 della trascrizione).

Oltre all’ampia deposizione del dr. O., che ebbe a recarsi più volte nella Pensione Po al preciso scopo di effettuarne una valutazione di idoneità a fini assistenziali, il dibattimento ha permesso di acquisire anche testimonianze limitate ad episodi più specifici, ma comunque significative, da parte di altro personale medico ed infermieristico:

– il dr. F.B. (cfr. trascrizione udienza 5.11.1990, pag. 135 e segg., medico di base dell’USL di Torino, era stato inaspettatamente nominato come medico di fiducia da una decina di ospiti della Pensione Po. Ebbe consapevolezza della cosa quando gli pervennero richieste di visite a domicilio dei predetti ospiti, richieste inoltrate dalla “titolare” della pensione (= l’imputata B.). Recatosi nella pensione, si rese conto che le persone ivi dimoranti erano, in molti casi, non autosufficienti; che i parenti si disinteressavano di loro delegandone le cure alla B., che però non aveva alcun titolo per occuparsene; che la pensione “se era una casa di cura era inadeguata, insufficiente” (pag. 148 della trascrizione cit.). A pag. 152 questo teste riferisce un episodio che dà concretamente la misura dell’imbarazzo che un medico provava visitando la pensione: «Mi capitava a volte di passare... e di vedere magari una persona per cui mi avevano chiamato a visitare, e a fianco magari la signora mi diceva: “C’è questa signora qui che non mangia da due giorni”, la visitavo e scoprivo che aveva un focolaio polmonare, ad esempio. E quindi, se... se non andavo in quel momento lì, capisce? Cioè... la cosa era da trattarsi come, non so, una casa di cura, voglio dire, cioè ci andava più assistenza, ecco».

Per questi motivi (ed altri ancora di natura più strettamente burocratica spiegati alle pag. 142-144 della trascrizione) il dr. B., verso la prima decade del mese di novembre 1995 (cfr. pag. 137 della trascrizione) si determinò ad inoltrare al Capo servizio assistenza sanitaria di base ed all’Assessorato all’assistenza sociale del Comune di Torino una lettera (agli atti, senza data), in cui tra l’altro scrisse: «Visitando codesta pensione ho riscontrato che i pensionanti erano da considerarsi piuttosto dei ricoverati e come tali avrebbero dovuto essere trattati. Non potendo avere un rapporto diretto con gli utenti, in quanto nella maggior parte dei casi non autosufficienti, e non potendo delegare il rapporto di fiducia con chi gestisce detta pensione, mi vedo costretto a ricusare detti pazienti...».

– la dr.ssa A.B. (cfr. pag. 157 e segg. della trascrizione dell’udienza 5.11.1998) è anch’essa medico di base dell’USL di Torino; anch’essa si ritrovò, di punto in bianco, nominata medico di fiducia da due ospiti della Pensione Po che neppure conosceva (le sig.re G. e M., fra l’altro bisognose di impegnativa assistenza domiciliare, come tutti gli ospiti della Pensione Po), ciò che la irritò alquanto («in una situazione del genere bisogna prima chiedere»), anch’essa finì per scrivere una missiva, datata 25 novembre 1996, a destinatari diversi dell’USSL 1 di Torino (la lettera è agli atti), del seguente tenore: «Sono stata scelta da due cittadini ospitati presso la Pensione Po in Torino via Po 4... Durante le visite domiciliari ho avuto modo di constatare che la struttura che li accoglie non appare idonea per la loro patologia». A dibattimento la dr.ssa B. ha spiegato: «Mi sono resa conto che c’erano delle pazienti non autosufficienti in una struttura che forse non aveva personale adeguato per questo tipo di pazienti» (pag. 162).

– le infermiere professionali M.A. e P.S. (pagg. 171-185 della trascrizioine dell’udienza 5.11.1998) operano nell’ambito del Servizio infermieristico domiciliare dell’USL 1 di Torino. Dopo due visite ad anziane ospiti della Pensione Po (le sig.re B. e G.) scrissero due missive alle proprie responsabili (entrambe agli atti, datate rispettivamente 26.1.1996 e 1°.12.1996) in cui segnalavano quanto rilevato:

a) la sig.ra B. era incontinente all’urina e alle feci, e portava il pannolone; tolto il quale, le infermiere si resero conto che all’interno della coscia destra, direttamente esposta ai liquidi biologici che il pannolone doveva trattenere, si trovava una estesa lesione da decubito (cfr. anche dep. M., pagg. 172-173, e dep. P., pagg.  181-182);

b) la sig.ra G.B. era affetta da piaghe da decubito, da morbo di Alzheimer, non vedente e decisamente non autosufficiente. Nella citata missiva le infermiere concludevano: «La proprietaria della pensione ... non è in possesso né di materassino né del cuscino antidecubito. Si rende noto che in tale struttura non opera personale sanitario. Si segnala quanto sopra per gli opportuni provvedimenti del caso».

– unica testimonianza non del tutto sfavorevole agli imputati è quella della dr.ssa A.R., ginecologa, la quale collocò la madre, Z.S., nella Pensione Po nel febbraio 1990, e ve la lasciò fino ad ottobre 1995, data in cui, avendo notato modeste lesioni ad un polso dell’anziana genitrice, decise di trasferirla a Roma (cfr. pagg. 163 e segg. della trascrizione citata). Questa teste, pur rilevando la scarsità del personale operante nella pensione e l’assenza di personale infermieristico specializzato, ha avuto parole sostanzialmente di elogio nei confronti dell’imputata B.  e della “struttura” da lei gestita: «Io avevo il permesso anche di poter vedere mia madre anche verso le 21, le 22, perché la signora molto gentilmente mi permetteva, sapendo appunto il lavoro che facevo, perché io ero molto impegnata, andavo pure la sera... Vedendo anche le altre successive case di riposo, quella lì era abbastanza... relativamente... abbastanza buona».

Altri significativi elementi di giudizio si traggono da una agenda, utilizzata come diario clinico dal personale della pensione, sottoposta a sequestro penale il 18.3.1997. Essa contiene, relativamente al periodo 4.11.1996/18.3.1997, brevi relazioni giornaliere in cui si evidenziano le condizioni generali degli ospiti (dei quali risulta palese la non autosufficienza, stando ai loro comportamenti descritti), si annota se costoro abbiano mangiato, se siano andati di corpo e quanto altro sia ritenuto opportuno comunicare al personale del turno successivo.

Si riportano alcune significative annotazioni:

– notte del 4.11.1996: «A N. le è stata fatta la medicazione ... mentre le strofinavo la mano che tiene chiusa le ho fatto un po’ male, le ho messo un po’ di cicatrene in polvere»;

– notte del 22.11.1996: «Quando ho alzato N. si è tolta un po’ di pelle; glielò medicato»;

– 2.12.1996: «È stata medicata da me N., perché era in condizioni orrende. Se no abbiamo un alto decubito!!» (scritturazione dell’imputata B.);

– 14.12.1996, annotazione di tali E. e P.: «Per le mie colleghe del mattino, quando le nonne battono in qualche posto siete pregate di dirlo, mi riferisco alla gamba di G. ... Come si fa domani per la medicazione di B.? Mi dispiace ma io non me la sento di fargliela...»;

– 28.12.1996, segnalazione della B. per tale F.: «A E. tutte e due le mani sono scorticate solo che una l’ha medicata, l’altra no!! Poi N. nel braccio destro era anche lei scorticata e le ha messo una garza, poteva disinfettarla visto che aveva il sangue ancora lì ... cerchi di fare attenzione ... non dimentichi più la bacinella con acqua sporca di merda da P.»;

– notte del 30.1.1997 «Ho tolto la roba dal freezer e l’ho pulito ... c’era di tutto, persino le mollette della roba»;

– notte del 13.2.1997: «L. sta cominciando a spellare nella natica destra».

Si tratta di annotazioni redatte “in tempo reale” ed in epoca non sospetta; esse forniscono conferme significative dell’inadeguatezza professionale del personale impiegato, che trascurava elementari esigenze di igiene e procurava per imperizia lesioni agli anziani, ovvero si rifiutava di eseguire medicazioni per le quali non si sentiva all’altezza; documentano altresì l’insorgere delle piaghe da decubito (cfr. annotazione del 13.2.97).

* * *

Così riassunte le risultanze dibattimentali relativamente al delitto di cui all’art. 591 c.p. (si dedicheranno in seguito più brevi cenni alle restanti imputazioni), occorre ora verificare se possa dirsi integrato il delitto di abbandono di persone incapaci.

Occorre subito premettere che, secondo una ormai consolidata elaborazione giurisprudenziale della Corte di Cassazione, il concetto di “abbandono” rilevante ex art. 591 c.p. non è limitato alla sola “derelictio”, ma abbraccia ogni condotta contraria agli obblighi di cura e custodia che incombano su una persona: si veda, tra le pronunce più recenti, Cass. Sez. 5a, sent. 12.6 / 13.9.1990 n. 12334 - imp. D., secondo cui «costituisce abbandono, punibile ex art. 591 c.p., qualsiasi azione od omissione che contrasti con l’obbligo della custodia e da cui derivi un pericolo, anche solo potenziale, per la vita o per l’incolumità del minore o dell’incapace...». Nei medesimi termini anche Cass. 5a, sent. n. 337 del 22.1.1981 - imp. S., n. 332 del 18.1.1983, imp. F., e n. 12941 del 25.10.1978, imp. S.

Questa interpretazione è conforme non solo alla ratio di tutela dei soggetti più deboli che informa la norma in esame (alla cui stregua non avrebbe alcun senso restringere l’area delle modalità penalmente rilevanti attraverso cui si attua la lesione del medesimo interesse) ma anche a criteri ermeneutici meramente letterali (di un edificio, per esempio, si dice comunemente che “versa in stato di abbandono” anche quando, benché abitato, sia privo della necessaria manutenzione).

In applicazione del sopra esposto criterio interpretativo la Corte suprema (cfr. Cass. Sez. 5a, sent. n. 3905 del 22.11.1989 / 20.3.1990, imp. B.) ha ravvisato il reato in discorso in un caso in cui gli incapaci erano stati lasciati in balia di personale inidoneo nell’ambito di case di riposo inadeguate e prive dei requisiti igienici.

Una volta che si assumano a criteri di giudizio i principi fin qui esposti, elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, non è difficile concludere nel senso della sussistenza del reato contestato al capo A).

Nel corso degli anni 1995-1997 un numero significativo (da 15 a 19) di persone anziane (età media superiore agli ottanta anni), affette da patologie comuni all’età senile e spesso gravi (piaghe da decubito, morbo di Alzheimer, demenza, cecità, affezioni delle vie respiratorie ecc.), tutte o pressoché tutte non autosufficienti, che si sarebbe dovuto ricoverare in presidi assistenziali socio-sanitari, provvisti di dotazioni terapeutiche e riabilitative, sono state relegate in una pensione ad una stella, che a mala pena adunava in sé la dotazione minima di un albergo. All’assistenza sanitaria, che si sarebbe dovuto assicurare con la presenza di un medico della struttura (stabilmente presente, o almeno di immediata reperibilità) e con una pluralità di infermiere professionali, si è provveduto (si fa per dire) con la semplice nomina del medico di base (che peraltro, appena saputo della nomina, ha immediatamente ricusato i pazienti o quanto meno denunciato l’accaduto alle autorità sanitarie: cfr. la vicenda del dr. B e quella della dr.ssa B.), e con l’attribuzione di mansioni infermieristiche ad alcune volonterose donne prive di qualunque istruzione e preparazione, quantitativamente e qualitativamente inadeguate.

Con siffatte dotazioni strutturali e di personale, il servizio reso dalla Pensione Po è stato certamente non rispondente agli obblighi di assistenza e di cura che i responsabili della Pensione si erano assunti
nei confronti degli anziani ospiti. È perciò macroscopicamente sussistente la violazione dei predetti ob­blighi.

Breve discorso occorre anche per quello che è il secondo requisito previsto dalla giurisprudenza citata per aversi abbandono, vale a dire l’esposizione a pericolo dell’incolumità del minore o incapace. Non è necessario, in questa sede, esaminare se il pericolo debba essere concreto ovvero – come sostenuto nelle citate pronunce della Corte di Cassazione  – se sia sufficiente anche il solo pericolo c.d. astratto: infatti nella vicenda oggetto del presente processo si è avuto non solo un evidente pericolo concreto, bensì addirittura, in alcuni casi, un accertato danno per la salute.

È questo il caso della sig.ra B., che a causa delle cattive condizioni in cui fu tenuta riportò gravi piaghe da decuito (tra l’altro esposte a contatto con le feci e le urine della donna, dal momento che come rilevato dalle infermiere M. e P., nessuna medicazione teneva separate quelle piaghe dal contenuto del pannolone che la B., incontinente, portava).

È poi il caso della sig.ra L.A., trovata affetta da grave disidratazione all’atto del sopralluogo del dr. O., perché nessuno si era curato di adottare i semplici accorgimenti (fleboclisi) idonei a superare quella condizione.

Ed è, ancora, il caso di quell’ospite della Pensione Po di cui ha parlato il dottor B. nel corso del suo esame dibattimentale, e della quale non sappiamo il nome, a carico della quale fu fortunosamente scoperto un focolaio di polmonite nel corso della visita ad altra ospite (cfr. sopra, pag. 9 della presente sentenza).

È il caso, infine, di tutte le altre persone a carico delle quali il dr. O. riscontrò lesioni (piaghe da decubito o disidratazione) direttamente connesse al bassissimo livello di assistenza sanitaria prestato dagli imputati: B.S., T.L., F.G., V.C. e B.P.

Gli eventi lesivi cui si è ora fatto cenno giustificano – tra l’altro – l’inquadramento del delitto ora in esame nell’ipotesi normativa di cui al terzo comma dell’art. 591 c.p.

* * *

Occorre ora chiedersi chi debba essere ritenuto responsabile del delitto in esame.

Prima di considerare partitamente la posizione dei due imputati, sia consentito dire come forse, in prima battuta, i responsabili del reato in discorso siano da ricercare, in linea di principio, anche tra i congiunti degli anziani ospitati nella Pensione Po, i quali hanno ritenuto di assolvere ai loro doveri di assistenza familiare collocando i predetti anziani in una struttura di quel genere. La presente vicenda processuale, infatti, non riguarda la negligente gestione di una struttura oggettivamente inidonea all’accoglienza di anziani non autosufficienti: la Pensione Po, già ad uno sguardo superficiale, non poteva non apparire per quel che esattamente è: una pensione di infimo ordine, completamente carente delle dotazioni necessarie per le finalità cui gli imputati l’avevano adibita. Ed è verosimile che questo aspetto non sia sfuggito ai congiunti degli anziani ospiti della pensione. Tutto ciò va detto per spiegare perché mai proprio la figlia di una delle ospiti della Pensione Po sia l’unica testimone che, in questo processo, abbia espresso valutazioni positive sulla struttura e sull’operato degli imputati (ci si riferisce alla teste R.): è evidente l’imbarazzo che questa teste avrebbe provato nel dover ammettere di aver collocato la madre in un ambiente inidoneo a prestare l’assistenza necessaria.

Passando ad esaminare la posizione dei due imputati, risulta evidente la responsabilità della B. Costei, moglie dell’amministratore della società che gestiva la pensione, era – nei fatti – l’unica persona presente a tempo pieno al suo interno, e ne dirigeva l’attività sotto ogni aspetto: la lettura del diario giornaliero in sequestro conferma pienamente questa conclusione; inoltre, nei numerosi sopralluoghi effettuati, sia gli appartenenti al Corpo di Polizia municipale, sia il consulente dr. O., sia i Carabinieri del NAS, sia i medici e le infermiere dell’USL di Torino ebbero a rapportarsi sempre e solo con la B. Il D., amministratore e legale rappresentante della società gestrice della pensione, era per lo più assente e sopraggiunse a seguito di chiamata.

È pertanto innegabile il contributo determinante dato dalla B. al funzionamento della pensione, e dunque alla perpetrazione del delitto sub A).

Quanto al marito di lei, D., è stato sostenuto dalla difesa (facendo leva proprio sulla menzionata saltuarietà della sua presenza nella pensione), che questi dovrebbe essere assolto dal reato sub A) per non aver commesso il fatto.

Questa prospettazione, tuttavia, non può essere accolta. Si è già evidenziato, poco sopra, che nella presente fattispecie il delitto di cui all’art. 591 c.p. va ricollegato non già ad un negligente esercizio dell’attività di assistenza da parte del personale operante all’interno di una struttura di per sé inidonea a finalità assistenziali, bensì alle macroscopiche carenze struttuali della pensione: la pessima assistenza prestata agli ospiti della Pensione Po è conseguenza diretta dell’assenza di locali inidonei per l’esercizio di attività terapeutiche o riabilitative, della mancanza di letti con materassi “antidecubito”, della scaristà del personale operante e dalla sua totale mancanza di qualificazione professionale in campo sanitario, non già di concreti e specifici comportamenti assenteisti o irresponsabili da parte dei dipendenti.

Così stando le cose, il principale responsabile delle condizioni di abbandono in cui venivano tenuti gli ospiti della Pensione Po è colui che, nella sua veste di amministratore della pensione, aveva i poteri giuridici ed i mezzi economici per ovviare alle lacune evidenziate nel corso dei sopra descritti sopralluoghi.

Peraltro, non è il caso di introdurre graduazioni tra le responsabilità dei due imputati: essi sono marito e moglie; hanno intrapreso concordemente l’attività oggetto del processo, il primo investendo i capitali (cfr. esame B., pag. 11 della trascrizione dell’udienza dell’11.2.1999), la seconda impiegando una certa esperienza precedentemente acquisita (non è chiaro se lecitamente o no) nel settore dell’assistenza agli anziani. Il reato contestato sub A) è dunque frutto di una condotta concorsuale nel più pieno e tipico significato del termine.

* * *

Più brevi considerazioni richiedono le imputazioni di cui ai capi B) e C).

Al capo B) si contesta agli imputati di aver attivato (e mantenuto in esercizio) un “laboratorio di preparazione e di cottura per gli alimenti” in assenza della prescritta autorizzazione sanitaria.

Il “laboratorio di preparazione e di cottura” altro non è che la cucina sita all’interno della Pensione “Po”, in cui venivano preparati i piatti quotidianamente somministrati agli ospiti dell’albergo.

L’ufficiale di Polizia municipale D. (cfr. trascrizione udienza 8.7.1998, pagg. 13-14) ha riferito che «essendo l’albergo autorizzato (peraltro solo fino al 17 giugno 1996, come si è detto a pag. 4 della presente sentenza, n.d.r.) come struttura turistico-ricettiva e non struttura socio-assistenziale ... l’intestatario dell’autorizzazione era privo di titolo nell’aspetto igienico-sanitario per la cucina».

Da ciò discende la penale responsabilità di entrambi gli imputati per il reato contravvenzionale in di­scorso.

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Al capo C) si contesta alla B. di aver personalmente svolto, nel periodo novembre ’95 - marzo ’97, la professione di infermiera, per la quale è necessaria l’abilitazione dello Stato, senza essere in possesso del titolo abilitativo, per esempio praticando fleboclisi.

Che la B. – al pari di tutte le sue collaboratrici all’interno della Pensione Po – non possedesse la necessaria abilitazione è dato pacifico ammesso dalla stessa imputata: cfr. pag. 20 della trascrizione dell’udienza dell’11.2.1999:

Presidente: «Di questo personale c’era qualcuno che aveva qualche qualifica?».

B.: «No».

Presidente: «Insomma c’era del personale che avesse una specializzazione adeguata per svolgere questi compiti infermieristici direi?».

B.: «No, il problema infermieristico non lo gestivamo perché veniva l’USL».

Dall’ultima affermazione della B., testé riportata, si comprende anche quale sia stata la difesa della donna rispetto all’imputazione in esame: la B. ha negato di aver mai praticato atti riservati a personale infermieristico, e ha dichiarato di aver sempre chiamato, a tal fine, le infermiere dell’USL.

In atti, però, vi sono plurime dichiarazioni testimoniali che smentiscono sul punto l’imputata. In primis quelle di P.F. (cfr. pag. 185 e segg. della trascrizione dell’udienza del 5.11.1998), che ha lavorato nella Pensione Po, “in nero”, dal 1992 fino al 1996.

Costei ha dichiarato che alla somministrazione dei medicinali (compresse e gocce) provvedeva lei e tutte le altre dipendenti; vi provvedeva altresì la B., la quale si curava anche di praticare iniezioni intramuscolo e fleboclisi (cfr. pag. 188):

P.M.: «E la signora B. sa riferire lei ... se ha fatto iniezioni ai ricoverati...?».

P.: «Mah, quando c’era bisogno le faceva».

P.M.: «... e fleboclisi ne ha fatte?».

P.: «Mah ... mah, non mi ricordo se erano flebo. Erano dei sacchettini comunque. L’ha fatta a una nonna solo».

P.M.: «E cioè a chi?».

P.: «Ehm..., l’ultima che hanno trovato... quella che hanno trovato nel letto».

P.M.: «La signora A.L.?».

P.: «A.L., sì».

Questa testimonianza, proveniente da un’ex dipendente della B., priva di motivi di rancore verso la sua ex-datrice di lavoro, è particolarmente attendibile. Ad essa si aggiungono le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da altra ex-dipendente della Pensione Po, R.E., dichiarazioni consacrate nel verbale redatto dalla Guardia di finanza di Torino in data 2.4.1997 (agli atti in quanto acquisito ex art. 500 comma 4 c.p.p.), ove si legge:

«Ho lavorato fino alla data del vostro intervento (il sequestro del 18.3.1997, n.d.r.) presso la Pensione Po di Torino. ... Della somministrazione dei medicinali di vario genere agli ospiti se ne occupava la B. La stessa su richiesta della figlia e del nipote medico della signora L.A. provvedeva ad applicare delle flebo. Le punture di solito venivano eseguite da una infermiera chiamata dalla B. o dai parenti stessi; alcune volte le stesse venivano effettuate dalla B.».

Deponendo all’udienza dell’11.2.1999 questa teste (cfr. pag. 5 della trascrizione) ha mutato atteggiamento, dichiarando che mai la B. ebbe a praticare fleboclisi. Ha creduto di poter conciliare tale nuova versione con quella resa in indagini preliminari dichiarando, in maniera del tutto inattendibile, che le iniezioni praticate dalla B., per ovviare a fenomeni di disidratazione, erano delle sottocutanee (!).

Che A.B. abbia sovente personalmente praticato iniezioni e fleboclisi è dato che risulta da numerose scritturazioni sulla già citata agenda utilizzata come diario clinico della pensione:

– 16.12.1996, annotazione della B.: «B. è stata messo il flebo»;

– 28.1.1997: «P. ha solo bevuto ma non ha mangiato niente neanche con A. Sempre A. le ha fatto la puntura»;

– 15.2.1997: «A P. la puntura è stata fatta da A.»;

– 6.3.1997, annotazione della B.: «A. le ho fatto l’ipodermo e l’ha ricevuta bene senza gonfiare la gamba»;

– 13.3.1997, annotazione della B.: «A. è stazionaria, il flebo ne ha fatto metà perché muoveva la gamba e non mi sono fidata non potendo stare lì a guardarla»;

– 14.3.1997, annotazione della B.: «A. ha fatto l’ipodermo tutta».

Del resto questa conclusione è avvalorata anche dal ritrovamento, nel corso dell’ispezione del 9.11.1995, di ben quattro confezioni di siringhe nella rudimentale “farmacia” della pensione ubicata in un mobile della sala da pranzo (cfr. elenco allegato al verbale di ispezione cit.).

B. va ritenuta pertanto responsabile anche del delitto di cui all’art. 348 c.p. contestatole sub C).

* * *

D. e B. sono dunque responsabili di tutti i reati loro ascritti. Risulta facilmente individuabile un disegno criminoso unitario alla base di essi, trattandosi di violazioni di legge tutte correlabili alla decisione di svolgere un’attività imprenditoriale illegale nel settore dell’assistenza agli anziani. Di qui la grave inadeguatezza delle cure prestate, lo svolgimento di attività infermieristiche in assenza dei titoli abilitativi richiesti, l’attivazione di una cucina in assenza di autorizzazione sanitaria.

Il reato più grave, per il quale fissare la pena base, va senz’altro individuato in quello di cui al capo A). Esso presenta connotati oggettivi e soggettivi tali da non consentire l’irrogazione della pena minima edittale: sul piano oggettivo viene in rilievo, innanzitutto, la durata della consumazione del reato. Anche a volersi limitare al periodo contestato in imputazione, si tratta di ben un anno e mezzo (peraltro è dibattimentalmente emerso che l’abusivo esercizio della casa di cura risale all’inizio degli anni ’90. Vengono poi in rilievo il numero degli ospiti che hanno riportato lesioni in conseguenza del trattamento subito e la varietà delle patologie riscontrate a loro carico.

Sotto il profilo soggettivo vanno evidenziati l’intensità del dolo ed i motivi a delinquere. Siamo di fronte a due imputati che hanno deliberatamente scelto, mantenendo fermo per anni il loro proposito, di svolgere un’attività non consentita e pericolosa per la salute altrui ad esclusivo fine di lucro (cfr. dep. R., pag. 167 della trascrizione dell’udienza del 5.11.1998, ove si precisa che la retta mensile corrisposta per ciascun pensionante era di circa lire 1.800.000 mensili). Estremamente significativo, a questo riguardo, il passaggio dell’esame dibattimentale della B. in cui la donna, pur ammettendo di aver ricevuto consigli su come adeguare la pensione alle esigenze di cura e assistenza degli anziani ospiti, ha dichiarato di aver omesso di far eseguire qualsivoglia miglioria nella struttura perché pendeva ricorso al TAR avverso le ordinanze comunali di sospensione dell’attività: come dire che non valeva proprio la pena di spendere del denaro per migliorare le condizioni degli ospiti se non c’era certezza di poter continuare a guadagnare lautamente per il futuro! (Cfr. pag. 25-28 della trascrizione dell’udienza dell’11.2.1998).

Altro motivo che si è colto nelle parole della B. (il coimputato non si è sottoposto ad esame) è la convinzione di aver svolto un’attività meritoria, in quanto sostitutiva di una assistenza che le strutture pubbliche non sono in grado di fornire (cfr. trascrizione cit., pag. 26, righe 11 e segg.). Questo convincimento dell’imputata è profondamente errato e non può in nessun modo trovare favorevole considerazione dinanzi ad un Tribunale: le carenze della pubblica amministrazione possono giustificare lodevoli iniziative private che contribuiscano ad integrare l’assistenza pubblica ponendosi ai livelli qualitativi richiesti dalla scienza medica, dalla legge e dal buon senso; non possono e non devono invece assolutamente fornire un alibi a chi persegua facili guadagni con spregiudicate iniziative illegali e pericolose per l’altrui incolumità.

Per queste ragioni si ritiene di muovere, per entrambi gli imputati, dalla pena base di un anno e due mesi di reclusione (applicabile con riferimento alla condotta in danno di B.I.), e di negare le attenuanti generiche. A tale ultima conclusione inducono anche i precedenti penali risultanti dagli atti: il D. è pregiudicato per furti, violazioni al codice stradale, falso in autorizzazioni amministrative, associazione a delinquere, violazioni alla disciplina delle armi, rapina, assegno a vuoto, violazione delle norme sugli stupefacenti ed abusivo esercizio di una professione (!); la B. ha un precedente specifico per abusivo esercizio della professione nel marzo 1996 (cfr. certificato penale agli atti).

Sulla pena predetta va applicato l’aumento previsto dall’art. 99 c.p., così pervenendosi alla pena di anni uno, mesi tre e giorni venti di reclusione per il D.,  e anni uno, mesi due e giorni dieci di reclusione per la B. (la cui recidiva è oggettivamente meno grave).

Occorre poi tener conto dell’aumento di pena derivante dalla “continuazione interna” con gli altri episodi di cui al capo A). In considerazione del numero delle condotte di abbandono perpetrate dagli imputati (in un ampio arco temporale e nei confronti di alcune decine di anziani, via via assecondatisi nella pensione), si stima equo determinare tale aumento in mesi tre di reclusione, così pervenendosi alla pena di anni uno, mesi sei e giorni venti di reclusione per il D. ed anni uno, mesi cinque e giorni dieci di reclusione per la B.

Sempre a norma dell’art. 81 cpv. c.p., ulteriori aumenti vanno praticati, in misura di dieci giorni di reclusione per ciascun imputato, per la contravvenzione di cui all’art. 2, legge 683/62, e – limitatamente alla sola B. – in misura di quaranta giorni di reclusione per il delitto di cui all’art. 348 c.p. (reato in ordine al quale sussiste la contestata continuazione interna, posto che gli episodi di abusivo esercizio della professione infermieristica documentalmente accertati sono almeno sei, cfr. l’agenda in sequestro, pagine sopra indicate).

La pena complessiva irroganda è perciò di un anno e sette mesi di reclusione per ciascun imputato. Segue la condanna solidale al pagamento delle spese processuali.

L’imputata B. (non così il D.) versa in condizioni soggettive che le consentono di fruire della sospensione condizionale della pena; ricorrendo gli altri presupposti di cui all’art. 163 c.p. si fa pertanto luogo alla concessione del beneficio.

 

P.Q.M.

 

visti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara D. e B. responsabili dei reati loro ascritti, unificati dal vincolo della continuazione, e li condanna ciascuno alla pena di anni uno e mesi sette di reclusione, nonché, in solido tra loro, al pagamento delle spese processuali.

Concede alla sola B. il beneficio della sospensione condizionale della pena.

Visto l’art. 544 c.p.p., fissa come termine di deposito della presente sentenza il quarantacinquesimo giorno a decorrere dalla data odierna.

Torino, 11 febbraio 1999 - Depositata in Can­cel­leria il 25 marzo 1999.

 

 

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