Prospettive assistenziali, n. 130, aprile-giugno 2000

 

l’adozione: diventare madri, padri e figli (*)

Dante Ghezzi (**)

 

1. Diritto alla vita, diritto alla famiglia

Un bambino che nasce ha diritto alla vita. Pensiamo che per un bambino, pur con i cambiamenti sociali, culturali e tecnologici cui stiamo assistendo, resti saldo e inderogabile nei nostri convincimenti che il diritto alla vita si sostanzia e si colora nella possibilità di avere attorno a sé figure adulte che gli diano un amore concreto: siano capaci di curarlo, proteggerlo, educarlo. Una famiglia e solo una famiglia è strutturalmente competente a fare ciò. Solo in una famiglia ci può essere attenzione, disponibilità, dedizione, qualità richieste perché un cucciolo d’uomo cresca bene come è suo diritto. Attraverso le prime cure e la sicurezza che esse gli garantiscono il bambino si apre a vivere sé ed il mondo come buoni. Le relazioni di attaccamento che sono il fondamento della integrità personale e della fiducia in sé e negli altri si realizzano solo nel contesto familiare. In una famiglia si può sviluppare il senso di essere importante, amato, unico e si costruisce la propria identità. In una famiglia si acquisisce il senso di appartenenza che rende sicuri di fronte alle difficoltà della vita. Non toglie forza a questo convincimento il constatare altresì che la famiglia è per le persone anche il luogo principale di sofferenze e drammi, talora tragedie; ma tale è la complessità e la paradossalità dell’esistenza umana.

È tanto certo il convincimento della insostituibilità della famiglia che la nostra carta costituzionale la tutela e la valorizza e la legge attuale sull’adozione e l’affidamento al primo articolo afferma il diritto del minore ad essere educato nell’ambito della propria famiglia e nel secondo indica in un’altra famiglia, fondando le ragioni dell’affido familiare, il luogo maggiormente idoneo per la crescita di un bambino che non ha per un periodo più o meno lungo la possibilità di stare nella famiglia originaria. Il diritto alla famiglia è quindi diritto del bambino che è venuto al mondo, perché gli sia garantita la vita.

Altro peso ha quindi l’attesa di una coppia adulta che desidera un figlio. Tale desiderio è umanissimo e va guardato con attenzione e rispetto, ma non ha la stessa importanza del diritto alla famiglia del bambino solo. L’interesse adulto, essendo buono e legittimo, va quindi considerato, ma certamente si colloca in subordine rispetto al diritto del bambino. Non per niente i servizi ed i Tribunali per i minorenni, dovendo realizzare degli abbinamenti adottivi, privilegiano il benessere del bambino sul desiderio di genitorialità degli adulti e scelgono le coppie che ritengono più adeguate e capaci di rispondere alle esigenze di un certo minore, escludendo quante ritenute meno idonee.

L’interrogativo che dobbiamo porci è quindi il seguente: le modifiche di cui si discute alla attuale legge sull’adozione mettono del tutto al primo posto i diritti del bambino o concedono agli interessi adulti una scorretta priorità?

La seconda grande novità riguarda la prospettata introduzione di norme che permettono all’adottato maggiorenne l’accesso a informazioni non generiche sul suo nucleo di origine, cioè l’accesso alle generalità e quindi all’identificazione dei generanti biologici. Anche su questo altro punto svilupperemo la nostra riflessione.

 

2. Diventare genitori, diventare figli

In ogni famiglia adottiva si gioca una sfida che unisce i due genitori e il figlio. Questi tre soggetti hanno come obiettivo comune di diventare, nel tempo ed attraverso la convivenza di vita, quello che all’atto del pronunciamento adottivo per legge essi formalmente vengono definiti, una famiglia.

Occorre infatti che i genitori diventino interiormente tali e che il figlio si senta veramente figlio. Hanno cominciato questo percorso il primo giorno in cui si sono conosciuti, anzi prima; gli adulti con l’attesa e la speranza, il bambino col desiderio o, se piccolissimo, col naturale bisogno di essere accolto. Nell’adozione genitori e figli si diventa, con un percorso anche lungo. Quello che i legami biologici nelle famiglie non adottive prefigurano, naturalmente suggeriscono, ma non sempre riescono a garantire – la cura, la dedizione, l’affetto dei genitori; il sentirsi desiderato, amato, protetto del figlio – nelle circostanze adottive va del tutto cercato e costruito. Anzi qui deve realizzarsi quello su cui il precedente legame biologico ha fallito, non corrispondendo alle esigenze di affetto e cure del bambino.

La condizione di abbandono o di carenza grave di cure materiali o di maltrattamento sta a dimostrare che per essere genitori procreare non basta. Lo ha riaffermato recentemente anche il cardinal Martini: «La maternità e la paternità non si identificano semplicemente con la procreazione biologica, perché “nato da” non è sinonimo di “figlio di”». Per diventare figli e per diventare genitori ci vuole qualcos’altro.

Chi è allora un vero genitore? Sia quello biologico che quello adottivo, se realizzano una piena accettazione del bambino e dei suoi diritti. Dicevamo che un genitore è colui che prende il bambino con sé, lo protegge, lo cura, si dedica a lui; colui che accoglie, dà calore, sta vicino, si preoccupa, trepida, consola, premia, corregge.

Allora un bambino si sente figlio, cioè unico, amato, desiderato, colmo di valore. Allora egli sente di appartenere ad una famiglia, di essere in un porto sicuro, sente crescere in sé la fiducia verso la vita. Egli potrà quindi rispondere col proprio sentirsi accolto e amato, vivere coloro che gli danno la vita come figure genitoriali piene, rendendole autentiche e dando loro riconoscimento. Nell’adozione si supera la unilateralità della procreazione biologica che è fatto dei soli adulti e si costituisce la filiazione come fatto integrato, sorto dal concorso di due contributi.

Del resto anche nella famiglia biologica i genitori, pur con la spinta naturale ad accogliere e a crescere il loro bambino, devono fare un percorso che li porti a viverlo come figlio; percorso non sempre facile, qualche volta neppure intrapreso o conducente ad esito negativo (abbandono) o che si svolge tra tali difficoltà da non far sorgere quella vicinanza e appartenenza reciproca che costruisce il sentirsi figli accettati e il viversi come genitori pieni.

L’adozione dei bambini altrui perché diventino figli di chi li accoglie è un valore riconosciuto nel codice di Hammurabi da quattromila anni, è sancita come atto emancipatorio dal diritto romano e citata da Fedro e da San Giovanni Crisostomo come innesto che garantisce l’inserimento e rispetta la specificità di chi è accolto. Essa è un atto di cultura, di consapevolezza, che implica una scelta iniziale e che si realizza quindi in un percorso che fa essere pienamente figli e genitori gli attori di questo incontro e di questo cammino, rendendola non seconda alla filiazione biologica.

Eppure tornano periodicamente tensioni a privilegiare una visione adultista o a diminuire la dignità della filiazione adottiva.

 

3. Il momento attuale

La discussione della riforma della legge sull’adozione pone infatti alcuni interrogativi e fa riflettere. Le norme andavano rivisitate visti i cambiamenti che avvengono nella società; questo è un criterio condiviso.

Se andiamo ad osservare un primo gruppo di modifiche su cui paiono convergere gli orientamenti, notiamo che si tratta di cambiamenti che vanno a tutelare maggiormente l’adulto che chiede piuttosto che gli interessi del minore.

a) L’elevazione dello scarto di età infatti non produce benefici per il minore il quale semplicemente potrà avere dei genitori più vecchi. Osservare che dei genitori più anziani potrebbero essere fattualmente migliori di genitori più giovani non introduce nessun proficuo spunto: non si parla infatti di singoli casi magari eccellenti, ma di una legge che introduce linee guida e criteri per tutti. Ogni modifica quindi va vista a parità delle altre variabili ed il quesito a cui non è arduo rispondere potrebbe essere prosaicamente posto in questi termini: “È meglio avere degli ottimi genitori adottivi più giovani o più anziani?” (1).

b) Medesimo il ragionamento sui single e sulle coppie di fatto. Ci sono in queste categorie di persone soggetti ricchi di umanità e capacità di accogliere ed educare? Certo, ci sono. Ma il criterio è ancora quello: c’è abbondanza di coppie sposate, ricche di umanità e capacità di accoglienza ed educazione che danno al figlio adottivo un in più: la certezza di una presenza genitoriale di coppia e la garanzia almeno statistica della stabilità. Qualsiasi norma che apra possibilità a nuove categorie adottanti dovrà poi fare i conti con la discrezionalità dei giudici minorili e quindi non dà luogo ad automatiche applicazioni.

c) A fortiori il discorso vale per le coppie omosessuali, ancorché sia stata accantonata oggi una modifica della legge che le favorisca: ce ne sono di eccellenti, ma perché non dare ai figli adottivi la presenza dei due soggetti diversi che la natura e la cultura hanno sempre proposto, qualificati psicologicamente e fisicamente come papà e mamma? Peraltro non siamo per nulla certi che vivere con due genitori omosessuali non incida negativamente sullo sviluppo psicologico del figlio.

Come si vede questo gruppo di proposte di modifiche non attribuisce vantaggi di alcun genere al bambino che viene adottato, ma apre ai grandi la possibilità di vedere accolte istanze e interessi adulti.

Il legislatore non sembra tenere sufficientemente in conto il contesto dell’adozione nel nostro paese: in primo luogo è un fatto incontrovertibile che oggi per ogni bambino ci sono venti coppie aspiranti, che quindi diciannove di esse usciranno deluse e ferite dalla loro vana attesa, che ogni allargamento della base di chi ha diritto a presentare domande adottive aumenterà il numero degli addolorati e dei frustrati. Ce n’è bisogno? In secondo luogo, proprio gli attuali tempi lunghi delle istruttorie, su cui si fermano le critiche spesso pertinenti dei diretti interessati, della pubblica opinione e della commissione parlamentare, rischiano di protrarsi se ci sarà un incremento di domande dall’esito negativo scontato ma a cui comunque occorrerà fare fronte in un clima di restrizione della spesa pubblica e di carenze di organici nei pubblici servizi e nei tribunali minorili che non vede all’orizzonte cambiamenti. Più lavoro con lo stesso personale significa, lo sappiamo, maggiore dequalificazione nelle procedure e negli esiti: non è quello che ci si aspetta da una riforma.

 

4. L’informazione all’adottato, una dimensione di cultura e di salute mentale

Quanto all’informazione all’adottato, possiamo distinguere tre livelli di informazione.

a) Uno, primo e fondamentale, finalmente universalmente accolto oggi e dall’entrata in vigore della legge 431/1967, è quello del dare conto al bambino, precocemente e con il massimo della chiarezza, della sua condizione di figlio adottivo.

b) Un secondo livello è quello dell’accesso da parte della famiglia adottiva al patrimonio di informazioni sulla storia di vita a disposizione dei servizi sociali e del Tribunale per i minorenni. Per questo secondo livello non è automatico il passaggio della totalità delle informazioni quali che esse siano, anzi un filtro corretto ha significato: sempre vanno del tutto e precocemente passate le informazioni sanitarie e, specie se il bambino è grandicello, le circostanze storiche che ne caratterizzano il passato e ne condizionano il futuro; l’accesso al privato del bambino è infatti un diritto e una necessità del nucleo adottivo. Il riserbo può al contrario addirittura essere necessario e riguardare tutte le circostanze – in particolare tutte le vicende di coloro che erano genitori e sono usciti di scena, il loro privato – che invece di aiutare l’inserimento nel nucleo adottivo possono renderlo più problematico. Non mancano segnali che rivelano ancora oggi situazioni di forte carenza, quanto al passaggio delle informazioni alla famiglia adottiva; non sempre è infatti prassi dire “tutto quanto occorre sapere”: così ci sono situazioni in cui le informazioni sanitarie sono ancora insufficienti o ci sono casi di omissione di informazioni su circostanze di vero e proprio trauma da maltrattamento, grave trascuratezza o abuso sessuale per cui la famiglia dovrà gestire da sola, e senza il necessario preavvertimento, il far fronte a situazioni sintomatiche a volte imponenti. I fallimenti adottivi, a parere di chi scrive, trovano la loro spiegazione oltre che negli errori di selezione delle coppie, sia nella carenza di informazioni necessarie e nella conseguente insufficiente preparazione a gestire le difficoltà fisiologiche od eccezionali, sia nell’isolamento della famiglia adottiva.

c) Un terzo livello è quello, del tutto particolare, dell’accesso ai dati che permettono all’adottivo ormai maggiorenne la identificazione dei generanti biologici. Occorre qui riflettere e distinguere. Informare è, nel percorso adottivo, una dimensione distesa nel tempo. Al bambino piccolo si dice inizialmente della sua adozione con parole che egli può subito non comprendere letteralmente, ma che gli diventano familiari; si comunica con lui attraverso la rievocazione del desiderio e dell’attesa, col raccontargli come lo si è accolto, col dargli via via conto delle informazioni di cui si è in possesso secondo il suo grado di fruibilità delle stesse. La regola aurea è quella di non tacere, di rendersi disponibile a rispondere a tutte le domande, anche quelle difficili o imbarazzanti, in un ricorrente e progressivo parlare ma anche di riprendere l’argomento spontaneamente se per un troppo lungo periodo c’è silenzio sul tema adottivo, perché il silenzio è pericoloso e induce ad ulteriore timore di parlare.

La dimensione della informazione sui primi due livelli indicati è quindi un processo che si svolge nel tempo e non è mai definita una volta per tutte; essa approfitta delle circostanze per affinarsi e arricchirsi; se a un certo punto cessano le istanze conoscitive, continuano a svilupparsi i connessi aspetti emotivi. Così quindi una buona informazione arricchisce e consolida l’adozione.

 

5. Informare non è svelare

L’accesso ai dati anagrafici dei procreatori da parte dei figli adottivi è invece un’operazione di svelamento con valenza immediata, repentina, tendenzialmente risolutiva, caratterizzata dal passaggio da informazioni pari a zero a informazioni ad alto livello, da niente a tutto. Lo svelamento, in un tempo brevissimo, fa molta differenza, introduce l’idea di un grande cambiamento. Dobbiamo chiederci perché mai la grandissima parte degli adottivi, anche se possiede già oggi gli strumenti fattuali per saperne di più, non ne approfitta. E chiederci poi perché mai un ragazzo adottivo ha bisogno di risalire a sapere chi lo ha generato, dopo essere divenuto figlio della coppia e membro della famiglia che lo ha adottato. Che cosa gli darà questa rivelazione di dati anagrafici?

Nella mente del legislatore questa rivelazione dovrà dare una risposta agli interrogativi sulle radici rimasti inevasi e monchi. Ma è così? Quello che il tempo e un lungo accompagnamento protettivo ed affettivo non hanno saputo dirimere verrà risolto da uno svelamento che improvvisamente fa sapere? E quali saranno i successivi accadimenti? Essi sono imprevedibili. Da un punto di vista psicologico la dimensione dello svelare si colloca nell’ambito del pensiero magico, nel tentativo di superare in un sol colpo problemi accumulatisi nel tempo e altrimenti irrisolvibili, di fronte a cui le normali competenze umane si dimostrano inadeguate; si pensi agli anelli fatati, alle formule magiche, ai colpi di bacchetta delle fate nelle fiabe, con i quali si supera l’insormontabile e tutto felicemente cambia. Nelle fiabe appunto, che sono diverse dalla vita; dove invece il pensiero magico è un pericoloso strumento che in luogo di risolvere illude; i cui effetti potranno invece aprire la porta ad ulteriori sconcerti, delusioni, sofferenze.

 

6. Problemi veri, false risposte

Perché un figlio adottivo può avere dentro di sé il desiderio di conoscere le sue radici spinto fino alla necessità di sapere chi sono ed eventualmente di incontrare le persone che lo hanno generato, mentre altri sono soddisfatti dei racconti ricchi di ragioni del cuore, cioè di spiegazioni emozionali che connotano la storia del loro accoglimento?

Intanto occorre distinguere tra chi, adottato grandicello, ha il ricordo, per lo più doloroso, di nomi, volti, circostanze, località che affiorano dalla sua esperienza precedente e chi, specie se non riconosciuto o abbandonato piccolissimo, non ha informazioni oggettive né ricordi personali. Nel primo caso le fattuali possibilità di accesso, anche con la legislazione vigente, sono alte, ma, vista la negatività dei ricordi, la motivazione alla ricerca è bassa. E nel secondo caso l’istanza a sapere da dove si genera? Possiamo presumere che essa derivi da un inserimento adottivo non perfettamente riuscito; che l’insoddisfazione attuale di un figlio adottivo lo induca quindi a sperare che ritrovare e conoscere chi lo ha generato gli possa dare un contributo positivo nella sua ricerca di sé, possa portare sollievo ad una dolorosa condizione.

Ma attenzione, come possiamo pensare che chi anni o decenni prima ha abbandonato, travolto da difficoltà della vita che non ha saputo governare; chi ha rifiutato spontaneamente di assumere competenze genitoriali perché di fronte ad esse si sentiva inadeguato e debole; chi ha lottato contro i tribunali e poi ha dovuto accettare decisioni imposte da autorità che lo vedevano inadatto o pericoloso per un figlio possa rivelarsi, improvvisamente, disposto, pronto e soprattutto capace di reincontrare, dopo un tempo infinito, qualcuno cui ha rinunciato, volontariamente o no, per una vita, e di essere per lui una risorsa? E se tutto ciò si rivelasse un nuovo drammatico peso per questi attori che si ritrovano su una scena artificiosa? Sappiamo che l’apertura alla ricerca dei generanti biologici dei figli adottivi, che data in Gran Bretagna da oltre venti anni, non ha prodotto altro che esiti fallimentari; più volte chi scrive ha dovuto constatare, in situazioni di psicoterapia  il danno ulteriore di frustrazione, rinnovato rancore, delusione profonda, aggiuntiva ferita – sommati alle difficoltà precedenti – in coloro che avevano riposto nel ritrovamento dei genitori biologici un traguardo di consolazione e benessere.

Ancora, dobbiamo ridirlo, ci troviamo di fronte ad un pensiero magico che, con un colpo di fulmine, tenta di fare piazza pulita di ostacoli, insuccessi, fallimenti, disperazione. Ma si tratta di attese velleitarie, comprensibili in un ragazzo incerto e sofferente, magari confuso, ma inadatte alla riflessione e alla decisione di un legislatore.

 

7. Tutti quelli che “devono sapere”

Questo bisogno di sapere peraltro, se si parla di diritti, andrebbe esteso, a rigor di logica, anche se con esiti evidentemente paradossali, a categorie diverse di cittadini. Gli interrogativi non sono di poco conto.

Le ricerche mediche e sociologiche sulla filiazione nel matrimonio accreditano al dieci per cento i casi in cui il padre non è il marito della madre. Che fare di fronte al “diritto di sapere”?

Ci sono i bambini non riconosciuti alla nascita che non hanno la ventura di avere informazioni di fatto su chi li ha generati. Che fare per loro? E per i portatori di handicap o i malati che sono stati rifiutati a causa delle loro condizioni?

Che dire dei nati dagli stupri etnici, cui il nostro presente ci rende così drammaticamente prossimi o da stupri tout court quando la donna non ha potuto o voluto decidere in altra maniera; vale anche per loro la regola del conoscere, costi quel che costi?

E tutto l’orizzonte della inseminazione eterologa, al di là delle attuali decisioni del Parlamento, come andrà regolato? Si definirà che chi ha dato il proprio seme, e lo abbia fatto per commercio o per dono, diventerà poi padre per legge di figli non suoi?

Non aleggia nel pensiero sulle origini la tentazione di ridare al sangue il primato che il passato e la tradizione adultista gli attribuivano, in una sorta di rivincita della cellula e della materialità contro l’interiorità della scelta, della dedizione, della cura? L’essere figli si origina dalla materialità della carne, si nutre della fisicità della pelle e del contatto corporeo, ma è una dimensione interiore: del cuore, della mente, dello spirito, che sono i luoghi della gioia e del
dolore.

 

8. Tutelare l’adozione o renderla più debole?

Vediamo ora le conseguenze prevedibili della apertura della possibilità formale che un figlio adottivo, giunto alla maggiore età o anche in epoca successiva, possa accedere ai dati anagrafici di chi lo ha generato, pur senza facili automatismi e pur con la cautela di un procedimento gestito dal Tribunale per i minorenni.

In primo luogo la possibilità di accesso ai dati di cui si tratta rischia di costituire un grosso incaglio alla costituzione del tessuto adottivo. Se è vero che si diventa figli e genitori adottivi dal punto di vista giuridico, con la pronuncia della adozione dopo il periodo di affidamento preadottivo, abbiamo detto che la vera adozione si costruisce attraverso un percorso anche di anni che comporta negli attori vissuti complessi e movimenti interni alla coscienza ed alla dimensione emozionale. Per i genitori occorre conoscere e accettare qualcuno venuto da lontano, molto desiderato, ma su cui si incentrano attese che magari andranno temperate e modificate, in un adattamento ad un soggetto che può rivelarsi diverso, più difficile del previsto, perfino deludente. Alcune volte questi genitori vanno aiutati con interventi esterni; nella mia pratica terapeutica mi è più volte avvenuto di incontrarne.

Sappiamo che la riuscita della adozione passa per il rispetto del passato del bambino e per la disponibilità a confrontarsi con lui senza mai sottrarsi di fronte alla curiosità e alle domande palesi o latenti, anche se egli dovesse esprimere il desiderio di sapere di più sul suo passato, di accedere a fonti ufficiali, in particolare al giudice minorile. Ciò comporta nei genitori adottivi un’educazione all’accoglienza benevola e rispettosa che è garanzia alla riuscita adottiva. L’assenza di segreti o di aree tabù fa percepire al figlio di essere accettato con la propria storia e fa considerare i generanti biologici come qualcuno che si lascia ormai alle spalle: né rivali per i genitori né oggetto di rimpianto per il bambino. Così si costituisce la filiazione e la genitorialità adottiva che permette agli adulti di considerarsi abbastanza buoni e riusciti e al figlio di considerarsi appartenente al nucleo, a quella famiglia, e per ciò anch’egli sufficientemente buono e capace di sopportare il peso del primitivo abbandono e fare pace con esso.

Che cosa introduce allora nell’immaginario adottivo, dei genitori e del figlio, la possibilità statuita dalla legge di accedere ai dati anagrafici dei generanti? In una situazione come quella italiana dove l’adozione è forte credo possa introdurre un’ombra di insicurezza e dubbio che in non pochi casi potrebbe venare negativamente il processo adottivo. Come non avere fastidiosamente in testa il timore che, se le cose non andassero del tutto bene, il figlio potrebbe volere sapere, voler conoscere; come non temere, risuscitando nefaste contrapposizioni che può darsi che poi entrino in scena quelli che potrebbero a questo punto qualificarsi come “i veri genitori”.

Non importa che i casi di uso della norma possano essere poco numerosi; è l’incertezza che corrode e lacera. È difficile costruire una famiglia col dubbio che si occupi il posto altrui e che la vera famiglia, seppur disgraziata e criticabile, sia un’altra. L’incertezza può spingere a convivenze rassegnate in cui i genitori osano poco, si impegnano ma con riserva e diventano incerti nell’azione educativa; essa amplifica gli esiti delle crisi adolescenziali, delle ribellioni che spaventano, creando una risonanza che fa paura ai genitori adottivi, magari già affaticati, e allo stesso adolescente che, dopo le sfide, può sentirsi insicuro oltre misura sulla sua stessa appartenenza e del suo futuro, come un buon nuotatore che osa andare al largo e, girandosi, va in panico se non scorge più la riva. Infatti se la legge cambiasse è corretto pensare che tutti conosceranno la normativa, per chiarezza dovranno sapere che dopo i diciotto anni è possibile andare a vedere. Credo perfino che questa incertezza, oltre che rendere più difficili molte situazioni adottive, permetta o addirittura favorisca fughe verso la restituzione dei figli al Tribunale per i minorenni come scorciatoia per uscire da situazioni penose, in alternativa a più impegnativi percorsi di cura e di aiuto.

Non si può neppure tralasciare la persona che spontaneamente o coattivamente ha rinunciato in tempi lontani ad essere genitore. Che senso ha conoscerne tardivamente l’identità, presentarglisi come per stanarlo? Che senso ha chiedergli conto del passato e fatalmente recriminare e accusare? E non è assurdo pretendere che oggi egli possa avere un ruolo?

Anni fa si era correttamente affermato per queste persone il diritto all’oblio, all’essere finalmente lasciati in pace, magari dopo il tormento, la disperazione e la lotta. Non sono uomini e donne da rispettare anche quelli che rinunciano a un figlio, dopo sofferenze e contrasti, magari per consapevolezza della propria situazione devastata? La ricomparsa di qualcuno che si pensava, dolorosamente, uscito di scena per sempre, di uno che vorrebbe forse essere riconosciuto come figlio, si configura come una grande mancanza di rispetto, un gesto prepotente, al limite della violazione dei primi articoli della Costituzione che assicurano il rispetto per la persona, un’azione violenta che neppure la modesta
probabilità di un vantaggio per il giovane può giustificare.

Non assisteremo poi ad un incremento degli infanticidi del cassonetto se la donna, che oggi attraverso la protezione ed il segreto sulla propria faticosa gravidanza, riesce a salvare la vita del proprio bambino perché altri la prendano in consegna, dovrà di nuovo temere di vedersi scoperta anche a decenni di distanza?

 

9. L’equivoco

 L’accesso ai dati anagrafici, la via dello svelamento è una risposta scorretta, fuorviante e pericolosa ad una esigenza giusta, ad una esigenza tutta interiore. La vera domanda, che sta sotto la curiosità e l’insoddisfazione di un figlio adottivo, non è quella esteriore ed appariscente: “chi sono loro, chi mi ha generato”, ma quella più intima, drammatica e personale: “perché non mi hanno tenuto, perché non mi hanno voluto?”.

Diciamo chiaramente, per un giovane adulto e figlio adottivo conoscere i nomi e vedere di persona chi è uscito di scena mentre altri gli diventavano famiglia non ha psicologicamente alcuna valenza di risposta a quegli interrogativi. Infatti la domanda che sta sotto la ricerca riguarda proprio il figlio adottivo, e non chi non ha potuto restargli accanto come genitore; è una domanda che riguarda solo lui, a cui nessun altro può dare risposta.

L’accesso ai dati potrebbe invece manifestarsi con un devastante sconcerto, una riattivazione di ferite che non porterebbero alcun vantaggio ma solo danno al ragazzo che cerca risposte ai propri interrogativi. Clamore di emozioni mal gestite possono introdurre al rifiuto e alla fuga da ambo le parti, ma anche essere sostituiti da velleitaria blandizie, oppure sfociare in impotente silenzio, ovvero dare adito a pretese, ricatti. Invece che soluzioni si potrebbero manifestare nuovi problemi. Ecco ciò a cui può portare volere regolare per legge ciò che è moto e significato del cuore.

Dicevamo che la risposta può venire al giovane che si pone le domande fondamentali che abbiamo espresso solo da dentro. Il diventare pienamente figlio nella famiglia adottiva – attraverso l’accoglienza che caratterizza la sua vita e mediante la crescita nella famiglia che lo fa sentire “figlio voluto” – attenua, lenisce e fa quindi superare la pena e l’incertezza di un evento passato, vero buco nero, necessariamente vissuto come un rifiuto.

In alcuni casi però la domanda “perché mi hanno abbandonato”, resta come interrogativo irrisolto e troppo doloroso, una risposta interiore non matura negli anni del percorso adottivo per errori nella scelta della coppia genitoriale che si rivela inadatta al compito, per la difficoltà dell’inserimento nel nuovo nucleo di un figlio adottivo troppo provato da sofferenze e traumi precedenti, per sopravvenute incapacità dei genitori, magari rimasti soli di fronte a situazioni oggettivamente non facili, per incidenti di percorso non prevedibili. In questi casi si può verificare una riuscita solo parziale dell’adozione e allora il figlio può sentirsi perfino estraneo e diverso nella sua famiglia. Ma a questo dolore esistenziale non c’è facile rimedio e in queste circostanze ogni tardivo svelamento porta a traguardi illusori.

 

10. Aiutare le famiglie adottive

Di fronte alle adozioni che non riescono bene, e che generano grave sofferenza nei genitori e nei figli, dobbiamo porci in un’ottica preventiva.

E allora occorre porre con forza degli interrogativi. Che cosa viene fatto perché l’affascinante ma non facile avventura adottiva riesca? Tutto si sta facendo, e quanto c’è ancora da fare a livello istituzionale, per prevenire l’abbandono, per segnalare e dichiarare tempestivamente adottabili i bambini totalmente privi di cure familiari, evitando sofferenze che lasciano il segno? Che cosa si può e si deve ancora fare per garantire la scelta della famiglia più idonea? Non sono le famiglie adottive lasciate troppo sole? Con chi possono confrontarsi precocemente di fronte ai problemi della crescita comune dell’adozione? Se nelle famiglie permangono le resistenze ad accettare la diversità, la storia, il desiderio di sapere su di sé del bambino adottivo, chi aiuterà questi genitori in difficoltà? Chi li aiuterà a non banalizzare segnali e situazioni di difficoltà che, se avvertiti per tempo, potrebbero suggerire utili cambiamenti a prassi insufficienti o sbagliate? Queste preoccupazioni sono del tutto assenti nella proposta di legge di modifica della legge sull’adozione in discussione in Parlamento. Eppure è qui che si gioca la riuscita del progetto adottivo.

Mi è capitato, nel corso della mia attività clinica, di essere non poche volte interpellato da famiglie adottive che, specie durante l’adolescenza del figlio adottivo o dei figli biologici, attraversavano crisi anche gravi; spesso un intervento di aiuto ha potuto modificare positivamente situazioni che erano diventate insopportabili; altre volte la situazione si rivelava molto difficile o irrimediabile, tanto i problemi di convivenza erano stati trascinati e si erano aggravati. In queste circostanze ho sempre vissuto il rammarico dell’intervento tardivo, con la dolorosa consapevolezza che una presa in carico precoce del caso avrebbe quasi certamente guarito per tempo relazioni, pur nella sofferenza, tanto piene di significato.

Le famiglie adottive, per un malinteso rispetto delle norme e per una carenza di pensiero sulle difficoltà del loro percorso, sono solitamente lasciate sole, mentre andrebbero accompagnate. Ma se è così, perché la legge di riforma non raccoglie lo stimolo dell’art. 9, lett. c della Convenzione de L’Aja del 29 maggio 1993 in materia di adozione internazionale, che introduce la novità di interventi di “consulenza per l’adozione e per la fase successiva all’adozione”, costituendo finalmente presidi atti all’accompagnamento ed al sostegno delle famiglie adottive nel loro cammino affascinante ma spesso arduo? Perché non viene colta l’occasione per introdurre criteri e modalità di protezione del percorso adottivo? Ancora una volta invece il legislatore trascura di innovare, non introducendo strumenti che sostanzino opportunamente le dimensioni dell’aiuto e della prevenzione, dimostrandosi incapace di capire le necessità del nucleo adottivo, non riflettendo neppure su come contrastare alcune dolorose situazioni di fallimento adottivo di cui i tribunali per i minorenni iniziano ad occuparsi. Non possiamo sottrarci al timore che la legge di riforma possa diventare un’occasione sprecata.

 

 

(*) Ringraziamo l’Autore e il Direttore della rivista per l’autorizzazione concessa alla riproduzione su Prospettive assistenziali dell’articolo apparso su Minorigiustizia, n. 4, 1999.

(**) Psicologo e terapeuta familiare, CBM - Centro per il bambino maltrattato e la cura della crisi familiare, Milano.

(1)        Tra le poche ricerche sugli esiti adottivi, quella espressa nel volume di Melita Cavallo (a cura di), Adozioni dietro le quinte (Angeli, Milano, 1995) individua una correlazione significativa di incremento del successo scolastico del figlio nel caso che la madre adottiva sia giovane.

 

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